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Quel sottile filo di schiuma bianca
La sabbia incominciava a scottare forte e lui, a piedi nudi, cercò di camminare sulla battigia, entrando appena e poi uscendo dalle calde acque limpide, varcando ogni pochi passi il confine tra la terra e l'oceano segnato da un sottile filo di schiuma bianca.
Là, oltre quel filo, all'altra estremità e dopo l'orizzonte, andava a posarsi il suo sguardo appena distratto dai pensieri ricorrenti.
Qui, alla sua sinistra, opposto all'oceano e ben saldo alla terra bruciata dalla calura, l'oggi.
Presidente, Presidente! si misero a vociare le due donne attempate grassocce strette nei loro costumi troppo succinti e troppo vivaci, con le facce accaldate sulle quali strani giochi di ombre riproducevano, alterati, gli intrecci di paglia dei loro enormi cappelli da sole.
Presidente!
Si voltò appena. Vergò due foglietti chiari con una biro che una delle due gli aveva porto. La firma attraversò imponente obliqua nitida il piccolo foglio dal basso verso l'alto per tornare in giù con un breve graffio d'inchiostro nero.
Caffè Santucci. Piazza dell'Obelisco... evidenziava la scritta bianca sul dorso blu della biro; il nome della città risultava illeggibile per via degli umori della mano che tante volte aveva impugnato la penna, ma le prime lettere sbiadite che riuscì a decifrare gli permisero di dedurre il luogo dove un tempo era stato acclamato.
Vi si era recato agli inizi della sua carriera.
La piazza era gremita. Le strade di accesso barrate. Viva il Presidente! Benvenuto, Presidente! inneggiavano le voci concitate e i volantini colorati.
Le due facce, sparuto residuo della moltitudine di allora, si allontanarono fino a raggiungere un gruppo di turisti che sonnecchiava sotto l'ombra di un enorme ombrellone di palme.
Per pochi attimi il Presidente aveva di nuovo varcato il sottile filo che lo riconduceva al passato. Oltre la terra che calpestava e di là dall'oceano.
In quello spazio ritrovò le vecchie immagini e le afferrò così come capitavano.
Tornò indietro.
La città ridente, l'oggi, alla sua destra.
L'oceano immenso, che si spingeva con forza verso l'altra terra, più nota, alla sua sinistra.
Si affrettò a rientrare nella villa bianca tra le palme. Imboccò l'entrata secondaria, sul retro, per evitare incontri.
Per la servitù, quella era infatti l'ora dei preparativi per il pranzo serale di cui esalavano i profumi che il vapore dell'afa esaltava e mescolava nelle molte sfumature che andavano dal dolciastro all'acre all'amaro e che impregnavano le mura le volte gli oggetti. Profumi che lui, quella sera, respinse nauseato.
Intravide Fulvia tra il folto degli arbusti in fiore che si dedicava, come ogni pomeriggio intorno a quell'ora, alle sue orchidee.
Giunto in quella che era ormai considerata la sua stanza, per via della consolidata abitudine di sostarvi da solo più ancora che non nello studio ampio e attrezzato del piano superiore, guadagnò il piccolo terrazzo sovrastante la spiaggia e si lasciò cadere sull'enorme poltrona di midollino chiaro coperta da un telo fiorato.
In quel cantuccio, in quella stessa poltrona, sette anni prima e per molte estati ancora, si era sentito il signore dell'oceano e della natura che lo privilegiava di tanta smagliante superba bellezza.
Qui, dove tutto si ampliava e si decantava, il Presidente aveva sentito l'omaggio di forze mai conosciute prima. E ne aveva goduto.
Il potere, che prima aveva esercitato sugli uomini, tracciandone spesso il destino o definendone un ruolo sia pure secondario nei fatti della storia, qui si era dissolto o si era mescolato al compiacimento della recente memoria o del prossimo ritorno nei Palazzi.
Qui era venuta a concedersi a lui la sensuale acerba Margot, danzatrice dei locali più esclusivi in attesa di un successo internazionale che vedeva riposto nei voleri del suo amante.
Qui era venuta la più matura affascinante Marion, che nulla negava e alla quale nulla poteva essere negato.
Nessuno dei suoi piaceri poteva, però, in quel contesto, prescindere dal suo essere sempre, in ogni situazione, potente e predominante. Di ciò era consapevole, anche quando affidava incarichi e deleghe ai segretari che attendevano ad ogni adempienza con il puntiglioso ottuso servile zelo proprio di certe tipologie di uomini in carriera.
Il rombo di un aereo da turismo frantumò i pensieri che incominciavano a fargli male e lui, semilucido come chi si è appena svegliato da un sonno profondo, avvertì la ferita che traduceva sulla sua pelle il dolore dell'anima e che lo costringeva a muoversi per trovare la posizione che glielo alleviasse.
Si era venuto a trovare altre volte in questa situazione e ogni volta cercava di rifugiarsi tra i volti più intimi e familiari.
Quel giorno si aggrappò alle immagini che aveva sempre respinto.
Si ritrovò in una piccola stanza di una clinica di lusso dove era arrivato trafelato dal Palazzo con un fascio di rose comprate dal fioraio che si era trovato sulla strada.
Fulvia appariva stremata. Il piccolo, nella nursey, dormiva beato.
Lui, il Presidente, era confuso nel suo nuovo ruolo.
Lo prese in braccio, il bambino, quando si fu svegliato. Si sentì ancora più strano e inadeguato. Quel piccolo essere, che era suo figlio, lo intimidiva e lo inquietava. Non sapeva tenerlo e così lo porse all'infermiera che sorrideva scialba.
Gli fu più facile donare carezze alla giovane donna stremata che lo aveva inutilmente atteso al momento dell'evento e che ora appariva felice del suo precipitoso arrivo.
Quanto al piccolo, che non era riuscito a sollevare e ad abbracciare, lui, così tenace altrove, fu il suo unico figlio con il quale non sarebbe riuscito mai a capirsi e a confrontarsi, con il quale avrebbe condiviso solo una civile apparente tranquilla quotidianità familiare e politica.
A lui, proprio a lui, aveva voglia ora di gridare tutto il suo dolore, tutta la sua rabbia di vinto.
Ma i loro incontri erano rari e accentuavano miseramente lo stile ormai consolidato che era stato costruito sulla fragile piattaforma del convenevole e dell'opportuno, del discreto e dell'apparente, che contraddistingue spesso e irrimediabilmente i rapporti malati tra parenti.
Monsier, s'il vous plait, a quelle heure le diner ce soir?, chiedeva la voce dal tono basso del servitore comparso d'un tratto sulla porta, a cui il Presidente, lento nell'esaminare la richiesta, rispose con cortese fermezza che per quella sera non gradiva.
Fulvia consumò un breve pasto su una tavola sontuosa. La tovaglia di seta color oro, le due coppie di calici e le due candele, il vaso blu ricolmo di orchidee che la vivezza delle tonalità e l'intensità del profumo mostrava appena recise esaltavano la sua solitudine.
Quando si recò a salutarlo per la notte, lo trovò seduto sulla sua poltrona, nella terrazza, a prendere il fresco della sera che che la brezza dell'oceano regalava in quell'ora densa dei profumi arsi della salsedine. Gli porse una morbida coperta di lana bianca e scivolò via discreta.
Rimasto solo, sentì un lenimento che gli addolciva i pensieri e i propositi.
Era l'ora nella quale poteva varcare ancora quella sottile linea di confine.
Vide il Palazzo affollato, udì voci mai udite prima e voci note che ripetevano parole già usate, lise e desuete, che promettevano quanto già promesso e che rimbalzavano le une sulle altre secondo ritmi accelerati, perfette nel loro essere fini a se stesse.
Vide la sua Corte con i suoi cortigiani attillati in abiti grigi come i loro pensieri. E le cortigiane vestite con l'impeccabilità della finzione.
Vide sconosciuti, che ridisegnavano rapporti e alleanze, stringersi in nuovi abbracci.
Vide nuove liturgìe.
Il piacere melenso di allora fece largo, con l'aiuto del distacco, al dolore.
Balzò in piedi di scatto davanti alla poltrona che oscillava forte dietro al peso del suo corpo.
Provò a ripetere, come un mimo, un gesto che gli era proprio.
Strinse il suo busto in un abbraccio, lentamente, facendo in modo che le sue mani, chiudendosi appena, contenessero i suoi possenti gomiti, mentre il suo corpo dondolava appena da un lato verso l'altro.
Fu invaso allora da un senso d'impotenza scaturito dalla consapevolezza del ridicolo che gli suscitava quell'abbraccio e quelle immagini rivisitate, vuoti, l'uno e le altre, di ogni significato, seppure estraniati da un contesto che li conteneva insieme ad altri cerimoniali.
Una nobile ironia ritrovata lo salvò per un momento e lui, morbido, scivolò nel sonno breve di un'alba africana.
E come taluni sostengono, forse per suffragare certi desideri inconsci che vorrebbero immaginare avverati, i sogni dell'alba sembrano essere veritieri o almeno, a detta di talaltri più equilibrati, abbastanza vicini alla verità.
Il Presidente si abbandonò così al suo sogno, al sogno dell'alba.
Era lì, aveva la sua stessa faccia e la sua stessa voce, il Primario in camice bianco della clinica di lusso per pazienti ricchi. Intorno, i collaboratori, giovani apprendisti anch'essi in camice bianco, che gli facevano ala nelle processioni tra le sale e le corsìe.
La sua équipe si occupava di una ricerca su campione che aveva lo scopo di sconfiggere una malattia ormai diffusa e in crescita, prodotta da un disagio socioeconomico e ambientale, mediante la messa a punto di un farmaco già sperimentato altrove e che aveva raggiunto, secondo quanto affermato dai comunicati ufficiali, obiettivi minimi ancora poco soddisfacenti.
Tutto sembrava andare per il verso giusto. Il successo arrivò incontrastato.
Il Primario intervistato dalla stampa e dalle TV. Il Primario sulle copertine dei magazines più prestigiosi. Il Primario confortato dal consenso che gli organismi scientifici internazionali mostravano in favore della ricerca.
Improvviso, qualche impercettibile elemento di contrasto, prodotto inevitabilmente secondo alcuni dalla notorietà, andò a interferire su quel crescendo di positività quasi consolidata e ne alterò gli esiti conclusivi.
Il vice primario e i più fidi collaboratori incominciarono a gettare sguardi di sospetto verso colui che li aveva messi in luce e che ora li offuscava, mentre continuarono a mostrare atteggiamenti benevoli in ogni occasione pubblica che li vedeva uniti.
Il Primario percepì.
Mirò, mentre il crescendo delle ostilità malcelate attentava al suo prestigio, a fare della ricerca un suo personale successo. Le sue scelte, mai apparse così libere, erano pericolosamente inficiate dal peggiore dei condizionamenti. Quello della sfida.
Il suo divenne un pericoloso gioco d'azzardo che lo portò verso il totale isolamento dall'équipe che invece fingeva di approvare.
La ricerca era ormai se stesso. E lui, il Primario, diventato la star tra i guitti, calcava il palcoscenico che sapeva essere tutto suo con un'interpretazione che andava oltre il copione.
Se il Presidente si fosse svegliato a questo punto, si sarebbe in parte sollevato dalla pesante malinconia che lo aveva accompagnato fino al suo assopirsi.
Ma questo non avvenne. Il sogno, perciò, si avviò a proseguire.
Una mattina il Primario entrò, in tutto il suo incedere sussiegoso segnato dal rumore secco dei passi sul marmo del lungo corridoio, nella stanza principale del laboratorio.
La mancanza di ogni altro dato sonoro e il vuoto delle stanze sfuggirono all'attenzione che ormai riservava solo a se stesso e gli permisero di iniziare il suo solito quotidiano discorso di comunicazioni formali che nessuno ascoltava più.
Il rumore delle sue parole pareva rimbalzare dalle pareti sterili al pavimento candido agli oggetti rari e tersi in cui andavano ad infrangersi ancora in un tonfo secco.
Non comprese. Si agitò. Corse per le stanze vicine in cerca di qualcuno. Si avviò verso le corsìe con i loro letti bianchi ben rifatti, che trovò vuote di persone.
Attese. Attese che un evento qualsiasi rompesse quel silenzio e quei vuoti.
Finalmente dei segnali annunciarono che qualcosa stava per cambiare.
Ma erano dei segnali nefasti che si materializzarono rapidamente in una violenta aggressione di strani figuri vestiti di blu che irruppero per abbattere svellere frantumare distruggere...
La sua ricerca... la sua ricerca!!
Li invocò disperato come un bambino a cui si spezza il giocattolo preferito. Nulla. La violenza impazzava, selvaggia e crudele in lanci di oggetti e di insulti.
Poi si scoprirono il volto, gli strani figuri. Erano loro. C'erano tutti. Il vice primario, l'aiuto, i fedelissimi... c'erano tutti!
Le sue membra ebbero un sussulto.
Raccolse le sue forze. Si sollevò dalla poltrona di midollino chiaro che iniziò a dondolare vuota del suo peso, lasciando che la leggera coperta di lana che Fulvia le aveva portato, salutandolo per la notte, ciondolasse dal bracciolo.
Afferrò il grande cappello di panama e lo calzò come sempre usava fare.
Controllò lo stato del suo abito che aveva ancora addosso, assestò dei piccoli colpi ai revèrs del collo della giacca, volse uno sguardo intorno, poi un altro verso la porta chiusa della stanza di Fulvia.
Sostò per un istante.
Poi uscì dalla terrazza che volgeva sull'oceano.
Guadagnò, a passi felpati, l'ingresso secondario e raggiunse la spiaggia sottostante.
Ammirò le strisce di lunga seta gialla che il sole lanciava sull'acqua e faceva dissolvere nella sabbia. Ammirò l'ultima luna piena che impallidiva nei colori del mattino che si annunciava splendente.
Il Presidente, liberato dal suo sogno dell'alba, incominciò a camminare lungo quel filo di schiuma bianca.
Lo cercarono per giorni e mesi. Con tutti i mezzi di cui disponevano. Qualcuno, in cerca di notorietà, lo segnalò ora in un posto ora nell'altro.
Ma c'è chi giura di vederlo, all'alba di ogni giorno che si annuncia splendente, nell'ora in cui il sole e la luna si contendono il cielo, camminare tranquillo su quel sottile filo di schiuma bianca.
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