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Maria Velaska
Varsavia (Polonia), 1910 - Montagne d'Abruzzo (Italia), 1943
Il tocco battuto con forza sulla porta dall'esterno coincise con l'ultimo ritoccare e aggiustare della cuffia da notte da poco calata da Irene sul volto di Maria Velaska, distesa sul letto di foglie di granturco e coperta da una pesante coltre di panno blu orlata di giallo, gli occhi chiusi, la fronte madida, il colorito perlaceo.
Avanti! gridò il padre di Irene, dopo aver mandato giù d'un fiato il bicchiere di vino rosso che aveva ben fermo tra le mani secche e nodose di contadino abituato a ogni stento.
Allo spalancarsi dell'uscio, dieci orme fangose di grossi scarponi militari disegnarono macchie informi sul pavimento di cemento grigio della vecchia stanza, dopo che lo scalpiccio forte dei passi aveva rotto un silenzio greve.
Irene continuò il suo pianto che sembrava essersi interrotto da poco, fatto di brevi singhiozzi e di grosse lacrime che le scorrevano fino al petto, mentre le sue piccole mani magre accarezzavano il volto cereo di Maria Velaska.
Il colpo di tosse secca del padre di Irene si sovrappose improvviso al suo singhiozzare e per un attimo le labbra di Maria ebbero un fremito leggero. Poi tutto si fece più normale. Anche il pianto di Irene fu meno convulso e le lacrime riuscirono ad essere contenute dalle palpebre arrossate.
Vino! urlò uno dei militari rosso di capelli e di carnagione, girando gli occhi troppo piccoli per il suo faccione su Irene. Una rapida occhiata al vecchio e la ragazza si affrettò a riempire una grossa giara di coccio che i cinque soldati, grossolani nell'aspetto e nelle voci, avvolti ancora nei loro pesanti pastrani gialloverdastri dall'odore acre di sporco, si passarono dopo avervi affondato il viso.
La ragazza era tornata a sedersi accanto a Maria rigida e quasi immobile nel suo enorme letto.
Il padre di Irene cercò di spiegare con una gestualità spicciola, accompagnata da parole incomprensibili, che sua figlia era molto affezionata alla vecchia zia da mesi paralizzata nel letto in attesa di una morte che pareva ormai prossima. I soldati, quasi distratti e seminebetiti, si erano avvicinati intanto ad un sacco pieno di noci, ne ruppero alcune con un grosso sasso che era poggiato là accanto e ne mangiarono a volontà. Ogni volta che uno di essi batteva con forza il sasso su una noce, le palpebre di Maria Velaska vibravano in un debole sussulto.
Irene si voltò verso i militari ed interpretò alcuni gesti delle loro mani, con i pollici rovesciati in giù, come una nuova richiesta di vino. Tornò a riempire la giara di coccio e la porse al rosso.
I militari, d'un tratto, sembravano essere diventati allegri, ridanciani nei volti rubicondi, nei piccoli occhi lucidi ed ebeti, nel loro vociare concitato. Apparivano, pensava Irene ormai più calma, come tutti i giovani del paese quando sono un po' brilli, spensierati e in buona compagnia... quando:
Maria Velaska!! L'urlo improvviso spezzò l'aria, tolse il respiro e cancellò i pensieri alle due donne e al vecchio e andò a conficcarsi come un pugnale nelle loro teste.
Tutto era di nuovo immobile e fermo nella grande stanza. Non un sussulto. Non una parola ancora. Il soldato dai capelli rossi tracannò l'ultimo goccio dalla giara che poggiò con forza sul tavolo posto al centro della grande stanza, sollevando gusci di noce e frantumandone altri.
Poi Irene, trascinando il suo corpo esile e snello verso di lui, cercò di comunicargli con gesti, sguardi e larghi movimenti delle braccia verso l'esterno, di non capire, di non intendere, di essere estranea a quel nome gridato.
La fronte gelida e bagnata di Maria Velaska che la pesante cuffia non riusciva più a scaldare e ad asciugare era l'unico elemento di paura tangibile in quell'istante. Il soldato, che pareva tuttavia non percepire nulla di quanto stesse accadendo, urlò ancora quel nome, con la stessa intensità di voce, con lo stesso tono metallico, che tradiva lo scrupolo di un militare alle prime armi che sa di dover eseguire, preciso, un comando. Poggiò poi il suo berretto sul letto coperto dalla pesante coltre di panno blu orlata di giallo, come se volesse rimanere ancora là, quando una inattesa risata fragorosa del vecchio esplosa nell'aria, quasi una risposta al nome urlato dall'altro, accompagnò i soldati verso l'uscio.
Poi la voce ritrovata del vecchio..."ma che volete, che volete ancora... girate...".
Il rosso si avvicinò a Irene e mescolando suoni disarticolati con la parola fraulen, sembrò ringraziarla del vino e scusarsi dell'equivoco. La ragazza sorrise facendo vibrare le sue labbra ormai calde in un timido addio e il rosso ne approfittò per affondarvi le sue lordate dal vino e da piccoli pezzi di noce.
Poi la trascinò contro i mattoni ruvidi e la malta grossa del muro esterno con il suo pesante corpo che le ansimava addosso.
Irene, un mucchietto di stracci scoloriti e insudiciati, tornò dentro la stanza e si accasciò in un angolo buio.
Il vecchio pianse.
Maria Velaska sentì il sangue che le si scioglieva nelle vene e la fronte quasi asciutta al tocco delle dita ancora fredde e rigide.
Si accorse, ormai vigile, del berretto del soldato poggiato ai piedi del suo letto e, nel voler cancellare ogni presenza residua nella casa, gridò d'istinto verso la porta "Ciapka! Ciapka!". Poi con le mani si coprì la bocca compressa in una smorfia e ridiventata di ghiaccio.
I militari si fermarono di colpo sul vialetto. Irene crollò sull'uscio tra le braccia del padre.
Il vecchio bestemmiò.
Maria Velaska! Maria Velaska! Irruppero nella stanza.
L'urlo del soldato dal volto sempre più rosso e dagli occhi ancora iniettati di sangue trafisse il soffitto, passando per le teste ancora vuote di pensieri.
Maria Velaska allora aprì i grandi occhi rotondi e azzurri, sollevò la pesante coltre di panno blu orlata di giallo e, con movimenti decisi, si tolse la cuffia che le stringeva la testa, liberando i lunghi capelli che le scendevano ora morbidi e biondi sulle spalle. Vi appoggiò un largo cappello color tabacco, calzò scarpe di lucertola dello stesso colore e della stessa tonalità, avvolse con grazia intorno al suo corpo snello e slanciato un mantello di lana bianca che era piegato con le altre cose in una vecchia scatola di cartone pressato.
Dal fondo trasse un piccolo menorah*che era appartenuto alla sua famiglia. Aveva rischiarato i loro momenti di preghiera, di attesa, di paura. Aveva scelto di portarlo con sé ed ora era lì ad accenderlo.
Quando le sette fiammelle arsero fioche tremolando sui visi attoniti di ognuno, Maria si annodò il mantello sul lato sinistro e, eccomi, parve dire con voce ferma, avviandosi verso la porta con passo deciso.
I soldati muti l'affiancarono dopo aver imbracciato i loro fucili. Lei indietreggiò. Baciò Irene e il vecchio ciascuno per tre volte.
Andò.
Un colpo sordo, dopo pochi istanti.
Poi un altro e un altro ancora.
Venivano dal boschetto dei gelsi, da dove era apparsa dopo un lungo camminare per le montagne, in mano una sola scatola di cartone pressato, appena due settimane prima.
Dentro, sul tavolo, tra gusci di noci e bicchieri vuoti, sette piccole luci arsero ancora nel buio della notte e fino al mattino.
Il ner tamid, il lume della fiamma perpetua, rimase acceso solo in una Sinagoga lontana.
La bellissima ebrea polacca vive da allora nel racconto che la vecchia Irene ha fatto ai suoi figli prima, ai suoi nipoti dopo e che ancora va ripetendo, impoverito di un dettaglio che la memoria pietosa le ruba, sempre con le stesse parole, sempre con lo stesso sguardo velato, sempre alzando la voce a tentare un forte grido che le muore in gola per dire di Maria Velaska, tradita da una ciapka.
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