La fiammella del mio torace si tramutò in rogo.
Inviai la conferma.
Come liberato da un qualche legaccio, mi concessi una visita oziosa del territorio che ora volevo possedere cognitivamente.
Affittai una vecchia auto americana, bianca con interni rossi, una sontuosa Eldorado degli anni 50.
Decapottabile.
Un bianco cappello a tesa larga, occhiali da pilota USAF e musica nella mente più potente delle lagne venezuelane che la radio, dal cruscotto, riversava nell'aria.
Euforia e leggerezza condizionavano il mio essere in quei giorni.
Frequentai assiduamente stamberghe e bordelli.
Un sorriso doloroso turbava il mio viso.
La figura di Gonzalo Almirante entrò a far parte delle mie conoscenze in una gita a Puerto de la Cruz.
Il nome altisonante apparteneva ad un uomo scuro di pelle, dalla magrezza nervosa, dinoccolato e sdentato e gli stava addosso, il nome, come la giacca da uomo ad un bambino.
Rapido d'intelletto e assai di più di coltello, era intervenuto in mio aiuto in un tentativo di rapina che aveva me come bersaglio.
Due "desperados" armati di machete nella penombra di un imbarcadero, avevano tentato di alleggerirmi dei dollari, che maneggiavo con troppa disinvoltura, e anche della testa, credo, giusto per divertimento.
Il cuchillo di Gonzalo era apparso, dopo un sibilo, infisso nella gola dell'assalitore più minaccioso.
Il secondo figuro si era dato alla fuga dimostrando, a mio parere, molto buon senso.
Dal buio era emerso il mio salvatore e si era presentato motteggiando i nobili spagnoli del passato, per poi riderci su sgangheratamente.
La sbornia, che fino ad allora aveva anestetizzato i miei sensi, si era dissolta, per ciò ritenni opportuno ripristinarla con la compagnia del mio nuovo buon amico Gonzalo Almirante, gran cavaliere dei pontili e patrono dei babbei, dato che tale mi ero dimostrato.
Portai con me, di quella notte, il fotogramma di un corpo malamente disteso sul pontile di legno, illuminato dal flebile cono di luce di un lampione opaco, lo sciabordio, indifferente, dell'acqua prigioniera tra gli scafi, e il gesto, crudo e pratico, di Gonzalo che appoggiato il piede, calzato in un vecchio sandalo, sulla testa del morto, sfilava dalla gola il suo pugnale, con un gesto secco.
Sin dal primo momento mi visitò il "dubbio" verso il mio buon amico, che da quella sera divenne la mia seconda ombra.
Il pensiero insistente che non fosse comparso per caso nella mia vita, mi rimase annidato nei sensi.
In qualche modo lo associavo al mio "mecenate" Manfred Ulrich, il simpatico Professore.
La cosa mi fece riflettere sulla natura del mio rapporto professionale.
"In guardia esimio prof. Carlo Uberti (il mio nome), in guardia e mutande di ferro!"
Questa riflessione mi spinse compulsivamente a chiedere al buon Gonzalo di procurarmi un'arma.
La cosa non lo sconvolse anzi, il giorno stesso ritornò al mio residence Vista de Mar portandomi un grosso revolver inglese ben unto e avvolto in un foulard a fiori rossi.
Nel momento in cui, nella veranda della mia stanza, ci scambiammo il fagotto rosso con due biglietti verdi da cento dollari, il blu del mare aveva raggiunto i miei occhi, provai una vertigine, seguita subito da un sussulto!
La mia mente aveva percepito una voce.
Una voce di femmina.
Il suono era mentale.
L'episodio mi convinse a morigerare l'uso del Cacique.
In capo a una settimana mi raggiunse una telefonata alla reception della mia residenza.
Mi annunciava l'arrivo dell'"emissario".
Il mio "amico" Gonzalo si palesò la sera stessa al mio appartamento.
Mi rivelò di essere uno dei procacciatori di reperti grazie alla sua professione di "commerciante" e navigante.
Mi illustrò le meraviglie della sua "nordizia", un barcone di ferro, motorizzato con un vecchio ma potente diesel di una draga.
Poi mi fece "l'occhiolino" .
Uscì sul mio patio e rientrò con un pesante zaino militare, con un po di sforzo lo collocò sul tavolo, con intimo gusto estrasse una serie di cartocci ibottiti di paglia e li dispose sul piano in modo ordinato.
"Mira profesor! Mira!"
Disse con entusiasmo.
Con una crescente curiosità principiai l'esplorazione di quei misteri.
Man mano che liberavo gli oggetti il mio spirito regrediva all'infanzia e alla Befana.
Manufatti di cultura Mochi, Incas, Maya e oggetti europei del 1600.
Tra tutti spiccava una piccola statuina intagliata nello smeraldo pallido, di foggia inconsueta e dal valore incalcolabile.
Mentre Gonzalo gongolava, io iniziai il mio lavoro con entusiasmo.
Presa carta, penna e lente d'ingrandimento iniziai la valutazione dei reperti.
Con buona professionalità redassi venti schede, una per oggetto.
A tarda notte ci concedemmo due sontuosi bicchieri di burbon con ghiaccio e li consumammo con calma guardando dalla veranda il cielo e il mare di notte.
Tra uno strascico d'onda e l'altro chiesi al mio socio, dopo un breve ragionamento, che fine avevano fatto i miei predecessori, Gonzalo mi guardò con sorpresa e disse con candore.
"Desparacidos!"
Strinse le spalle e allargò le braccia.
Presi atto spegnendo i miei pensieri con un:
"Domani è un altro giorno!"
Il giorno successivo, quattro ore dopo l'alba, sentii bussare con ferma gentilezza alla mia porta.
Mi alzai dallo sdraio dove avevo smaltito la stanchezza e non solo.
Fu in condizione disperate che aprii il mio uscio, capelli turbinosi, barba lunga, bocca impastata, occhi cisposi, a torso nudo e vestito di un paio di bermuda con vistosi pappagalli gialli stampati. Se non fossi stato abbronzato anche il "rosso vergogna" avrebbe fatto parte del mio abbigliamento.
Bella!
Gelida!
Europea!
Una luce, che solo i veri biondi emanano, la circondava.
"Puon ciòrno! Her!? Her Uberti?"
Bella!
Gelida!
Un metro e ottanta di hostess lufthansa con i tacchi.
Balbettai:
"Lei è? ... l'emissario?"
Non capiva, o lo dava a vedere.
Guardandomi con le "acque marine" delle sue pupille, con evidente disprezzo, si presentò come collaboratrice del professor Manfred, disse di chiamarsi Gretha, di dover ritirare alcuni oggetti.
Mi mise in mano un capace borsone della compagnia aerea.
Lo riempii con cura maniacale, vi inserii una busta con le schede e le polaroid dei reperti, sempre seguito dai suoi occhi algidi e severi.
A lavoro finito prese il borsone, senza alcun sforzo, e mi consegnò una polposa busta da lettera commerciale ben sigillata.
Con la durezza della lingua germanica si accomiatò rimandando il rito all'occasione seguente.
Non trascorsero che pochi minuti e il buon Gonzalo bussò alle persiane della veranda.
Magnificando la sua solerzia aprii la busta sotto i suoi occhi
Consegnai a lui cinquemila dollari e ne tenni duemila per la mia prestazione.
La cosa lo soddisfece e fu un'altra scusa per una sontuosa bevuta.
In cuor mio non ebbi il coraggio di dire a Gonzalo che il valore dei reperti superava di molto i duecentomila dollari.
Il giorno seguente, come avevo previsto, mi giunse una telefonata dove il caro professore si compiaceva e mi diceva dell'esame superato.
Bastardo!
Ero dunque assunto.
Trascorsero altri dieci giorni e mi giunse un voluminoso pacco, al suo interno carte geografiche, appunti, alcuni libri e un pacchetto con altri diecimila dollari.
La passione è come una immane cornucopia che s'apre in un monte, ne scaturisce a cascata enerigia vitale, che motiva ogni prodezza, stordisce il buon senso e riscalda il giudizio.
Quelle carte erano sussurri intriganti, seduzioni di sirene di mondi remoti e fascinosi;
parlavano di tesori, di navi dai nomi di donna o di santa, in spagnolo, francese, olandese, inglese e portoghese.
La loro lettura produceva in me slanci di immaginazione e ispirava un prepotente desiderio d'avventura.
Capii di far parte di una missione di recupero di un tesoro perduto, ma non fui convinto che lo scopo fosse quello dell'oro.
Altro covava sotto la cenere dell'apparenza.
Alcune notti dopo, nonostante la mia inconsueta condizione di sobrio, nel remoto del mio sonno, trovai una flebile via musicale.
Mentalmente la seguii, con crescente interesse e man mano che mi avvicinavo alla fonte sonora, capivo la sua natura di voce.
Un canto dipanato dolcemente modulava il mio sentire.
Con intimo piacere mi immersi in quella laguna di parole cantate con voce di donna.
Compresi il senso di alcune che dicevano del cuore del mondo, del respiro del mare, di tempeste dei sensi e moti di passione.
Un brano mi colpì per la nitidezza, parlava con soave spagnolo de "el corazon verte".
Via, via i giorni scivolavano abbacinanti di sole, colorati di celeste, leggeri di rhum e conditi di coscie di femmine.
Dopo tre carichi di routine, con l'occasione del quarto, scoprii un Gonzalo strano nel comportamento.
Aveva un'aria pensosa e i modi nervosi.
"Profesor!"
Esitava, girando lo sguardo intorno.
"Voy a dar esta "
Dal solito zaino trasse quello che appariva come un tronco di legno segato e lasciato imputridire nel terreno, ma che al tatto risultò cristalizzato.
Stavo per deriderlo quando pulendo un'estremità mi accorsi che si trattava di un manufatto, del tutto inconsueto, ma opera umana.
Il sorriso furbo sul muso del sig. Almirante mi disse che la cosa aveva un prezzo.
"Quanto?"
Dissi e misi mano al portafoglio.
"Oh! Gratis el primer"
Gli altri sette mi costarono mille dollari.
Una frenesia incontrollabile si prese il mio stomaco.
Dentro di me una muta certezza generava pensieri bellissimi.
Quella sera mi sbarazzai della presenza di Gonzalo al primo buio, dissi al métré di non passare nessuna telefonata e che non avrei ricevuto nessuna visita.
Preparai un paio di litri di caffè e mi accinsi ad analizzare gli strani reperti.
Li pulii tutti e otto meticolosamente, per poi accorgermi che erano rivestiti di cera e resina indurite.
Misi a bollire un paio di litri d'acqua sul fornello in dotazione all'appartamentino.
Con un forte spirito di sacrificio, tenni i "tronchetti", uno a uno, sul vapore bollente finchè cominciarono a rammollirsi.
Con cautela, trepidando, lavorai alacremente fino a svelare la natura dei manufatti.
All'alba un esercito ordinato di fogli di corteccia occupava il tavolo ed il mio letto.
Nei fatti si trattava di un volume scritto, diviso in otto tomi.
I fogli di corteccia erano incisi nella faccia interna e le incisioni riempite di ocra rossa.
Quando mi decisi a leggere il contenuto del primo foglio mi si fermò il cuore:
"Hoy, 4 de junio del año de Nuestro Señor 1675,
I don Fernando Martínez Conde de Sierra Nigra, médico, hombre de ciencia, caballero de la Serenísima Majestad,
sobrevivientes de tres días de la Tierra Esmeralda, una gran flota de galeones..."
Ci volle un bel bicchiere di rhum con ghiaccio.
Determinato e affascinato continuai la traduzione ad oltranza trascrivendola su fogli da lettera.
Man mano che procedevo la mia ragione si intorbidiava lasciando efficente solo la facoltà di tradurre.
Quando, a sera, ultimai il mio lavoro mi accinsi, con gusto, a rileggerne il risultato.
Si trattava di un diario-resoconto di un naufrago.
Leggerlo è stato come viaggiare con la mente:
"Oggi, 4 Luglio dell'anno di Nostro Signore 1675,
Io, don Fernando Martínez Conte di Sierra Nigra, medico, uomo di scienza, cavalliere della Serenissima Maestà (Spagna), sopravissuto (naufrago) da tre giorni del gran galeone Tierra Esmeralda.
Qui scrivendo, a futura memoria, che la mia esistenza sia di ricchezza per i posteri.
Tutto ciò che vo scrivendo trovò il suo inizio con il racconto di un prigioniero delle celle del forte di Cumanà, condannato alla garrota, un tal capitan Keethon, un nemico della Spagna, un predone dei mari dedito alla pirateria con patenti olandesi e inglesi.
Catturato dopo una battaglia a largo delle coste ad oriente dell'isola di Ispagnola nel mare di Carribe, sotto tortura, afflitto dalla febbre delle paludi, dichiarò diverse sue colpe e alcuni segreti.
Tra i segreti il più misterioso mi fu rivelato, a fil di voce, dal prigioniero delirante, io, in veste di medico, raccolsi le sue parole e le celai a mia volta ai sensi dei più.
Nell'ispirato racconto narrò di come una razzia sulla terra ferma compiuta anni prima, a sud della gran penisola dello Yucatan, in quelle terre chiamate Belize, conducesse lui e i suoi accoliti, in un sito di antiche rovine appartenute alle genti Maya, popolo perduto nel buio della storia.
Il racconto proseguì descrivendo un bottino d'oro rapacemente accumulato in un luogo che era stato la città chiamata TIKAL e di come un selvaggio catturato parlasse dello "SPIRITO DELLA DEA ALAGHOM NAOM", lo stesso cuore della divinità, un gioiello dai poteri oscuri.
Il pirata riferì che le ricerche del manufatto furono rese inutili da eventi misteriosi, come il fare degli animali e delle piante della foresta che ostacolavano i bucanieri.
L'arrivo di numerosissimi selvaggi armati di archi e frecce obbligò la ciurma ad una fuga sanguinosa verso il vascello.
Disse che prima dell'attacco degli indios, dalla piramide centrale erta sulla gran piazza con sulla cima il tempio bianco privo di una delle quattro colonne quadre, improvvisamente si era alzato uno stormo numerosissimo di pappagalli variopinti che come una nube urlante aveva avvolto la sommità della grande costruzione a gradoni.
Io sono sempre stato avverso alle superstizioni miserevoli dei semplici, la mia scienza, più della fede, guida il mio giudizio.
Il racconto di un uomo morente, un uomo pratico e senza scampo, è una testimonianza attendibile in quanto scaturita dall'onestà dell'ineluttabile.
Le sue parole, benchè intrise, per certo, di travisamenti, di sogni scaturiti dalla sua mente avventurosa, restituivano alla mia ragione luminose e future verità.
Credetti ai suoi argomenti e lo graziai da una morte orribile sulla garrota dandogli pace con una copiosa coppa di vino aricchita con l'arsenico.
Ai frati misericordiosi lasciai quel che rimaneva della sua anima.
Nei mesi che seguirono raccolsi informazioni, leggende, mezze verità, completando un quadro generale.
Raggiunta la certezza necessaria concepii un piano usando tutta la mia arguta sapienza e le mie ascendenze alla corte di Re Filippo.
Costruito un falso resoconto della testimonianza del prigioniero, nel quale si descriveva un luogo prodigo di ricchezze, che solo con la mia presenza, che mi garantiva la decima del bottino, si rendeva possibile il recupero delle abbondanze nonchè il possesso del territorio.
Quando, dopo quattro mesi, giunse la risposta positiva da Madrid con la patente di corsa, richiesi tosto una nave e un equipaggio esperto.
Dopo altri due mesi, passata la stagione degli uragani, Giunse da l'Avana al porto di Cumanà un galeone possente e ben armato:
il "Tierra Esmeralda"
Quella nave in rada, con il candore delle sue vele al sole, appagò l'entusiasmo che ardeva nei miei desideri.
Si che mi dedicai ai piani di navigazione con il sostegno del Gran Capitan Isidoro de Gomera, comandante del Tierra Esmeralda.
Questi era un uomo di notevole prestanza fisica, dalla mente ecquilibrata e salda nel ragionamento.
Un suo bisogno arrecò vantaggio ai miei disegni di segretezza.
Mi pregò, vista la vicinanza, di allungare il viaggio verso il Messico facendo scalo a Martinica dove imbarcare una nobildonna promessa a lui in matrimonio.
Mi confidò che lo sposalizio era stato predisposto per procura tra la famiglia dei de Gomera e i conti francesi dei de la Rogue.
Tutto era motivato dal reciproco interesse in quanto le due famiglie condividevano la medesima valle aperta tra i Pirenei, la parte spagnola da i de Gomera e da parte francese da i de la Rogue.
L'atto avrebbe generato vantaggi notevoli in barba alla politica delle reciproche nazioni di appartenenza.
Resomi inquieto dai sospetti e dal timore di essere spiato, accettai di buon grado di assecondare il capitano, nessuno avrebbe sospettato o intuito la vera rotta del Tierra Esmeralda.
Le notti che vennero prima dell'imbarco videro la calma spiaggia dei miei sogni invasa da granchi d'ogni fatta.
Finalmente giunse il giorno e una gioia simile a quella che provai è data solo a chi, come me, ha avuto l'onore di concepire e attuare una spedizione avventurosa, poggiare i piedi sul ponte di comando e le mani sulla balaustra di una magnifica nave, con la nitida linea dell'orizzonte incisa nello sguardo.
Il breve tratto che ci portò alla Martinica fu un tranquillo preludio.
Giungemmo nella rada di Saint-Pierre, dinnanzi alla verde isola solitaria.
Sul mare calmo tracciò una leggera onda una lunga lancia con otto rematori che dalla riva si portò sottobordo del Tierra Esmeralda, dal riparo del parasole sbocciò una visione di donna bellissima.
Vestita con una semplice veste di lino bianco sulle belle forme, venne a bordo una femmina dai capelli neri, lo sguardo insostenibile, la bocca ingorda di delizie, con lei, dotata di egual bellezza, la fida domestica Eveline.
Era la promessa sposa del Capitan Isidoro de Gomera, Isabelle de la Rogue, lineamenti europei piacevolmente contaminati dal sangue creolo.
Da quel momento non vi fu più pace sul galeone..."
Sospesi la lettura, rabboccai il bicchiere di rhum, vi misi a galleggiare qualche piccolo iceberg, alzai quel profumato paesaggio all'altezza degli occhi e lo posi tra me e il mare mentre i primi chiarori dell'alba svegliavano i gabbiani.
Immaginai che il rhum fosse il caribe, immaginai la nave, vidi le vele ed il vento, baciai la bocca di Isabelle.
Immaginai!
Dunque ripresi la lettura in preda ad una calda malia.
"... Sfruttando un buon vento mettemmo la prua verso una rotta nell'apparente direzione di Ispagnola, tenendo visibile il profilo dell'isola Dominica, per poi, succesivamente, virare decisamente a ponente alla prima vista di Guadalupe.
La gran nave filava imponente senza alcuna incertezza.
Sul far della sera, circa un'ora prima della virata, ero intento a sperimentare il grand'oculare (o cannocchiale) spiando l'orizzonte, quando vidi un lontano bagliore dovuto ad un riflesso di sole.
Allertai il capitano che verificò il fatto usando il mio medesimo strumento.
Di poi ci consultammo anche con l'ufficiale in seconda, non v'era dubbio che qualcuno ci tenesse in occhio.
Di mia invezione apposi al gran oculare altre due lenti incassate in un cilindro di rame ad una esatta distanza tra loro, lenti che io stesso, amorevolmente, avevo lisciate dal vetro purissimo.
Cosi riscrutando l'orizzonte, in direzione N. N. E., vedemmo velatamente due sagome del color dell'ombra.
Il capitano, immediatamente, riconobbe in quei fantasmi uno sloop e una fregata.
Il dubbio divenne certezza: Corsari!
Il de Gomera ordinò immediatamente di anticipare la virata ad Ovest, vunuta la notte corresse la rotta verso O. O. S., imponendo che nessun lume fosse acceso, sia quelli di navigazione che altro qualsiasi.
Un senso di allarme si diffuse per la nave e tra l'equipaggio.
Il de Gomera fece distribuire ottimo rhum, della sua riserva personale, ed esortò la gente di bordo a cantare e suonare adducendo che il buio concigliava lo spirito.
Quella sera cenammo nella sua cabina con i drappi ben tirati sulle vetrate.
Intorno al desco ci ritrovammo, io, il capitano, il vice comandante, l'ufficiale degli archibugieri, il cartografo, il nostromo e lei Isabelle de la Rogue.
Il sollievo del cibo e del vino ben disposero gli spiriti e un che d'ineffabile si diffuse tra i commensali, e giurerei che l'odore sguisito della femmina dominasse sui cibi e il tabacco dei sigari.
Isabelle aveva in se una selvaggia forza che lottava con la avvenente dolcezza delle sue forme e lineamenti.
Inquietava e seduceva, si! Anche un uomo di scienza di di alto spirito, qual son io.
L'amenità del convivio fu avvelenata, ad un tratto, da una risata beffarda di Isabelle e dalle sue parole sibilline:
"Aucun pauvres d'entre vous ne seront jamais des terres!"
Un brivido percorse la mia schiena, conoscendo io il francese.
Colei aveva detto che non avremmo mai più messo un piede in terraferma.
Attribuimmo il suo comportamento agli effetti che il vino ha sulle donne e non vi pensammo oltre.
Il dubbio si era già insediato nelle nostre anime.
La mia inquitudine mi costrinse a nervosi passeggi sui ponti del galeone, uno sguardo alle stelle e uno all'orizzonte a vigilare.
Fu a notte fonda che un leggero bagliore di una lanterna cieca si riflesse sulle basse creste delle onde, chiamai l'ufficiale di guardia che confermò subito la mia osservazione.
Qualcuno usava una lanterna schermata per fare segnali, dunque un traditore era a bordo del Tierra Esmeralda.
All'alba che venne mi palesai nella cabina del comandante.
Mi ricevette scuro in volto e davanti ad un bicchiere di vino di Madera, io gli comunicai la mia scoperta e lui i suoi tormenti.
Dopo un lungo silenzio il De Gomera mi descrisse l'amarezza che gli sgorgava dal cuore a causa della sua promessa sposa, alloggiata in un altro locale a preservarne illibatezza, con la sola compagnia della serva creola Eveline.
Sentiva in lei un rancore feroce che a volte sfumava in odio, non ne capiva l'origine, pareva che un demone la possedesse.
Rimase assai turbato dalle mie rivelazioni dei fatti della notte trascorsa.
Concordammo discrezione e ragionammo su delle misure da porsi in atto per sopportare l'attacco dei "cavrones" dei mari.
Mi diede mano libera per l'uso di alcune mie invenzioni.
Affrontai la giornata con l'euforia di un bambino.
Convocai, nella mia cabina, il maestro armiere e il capo cannoniere, divertito dalle loro espressioni esterefatte, illustrai le meraviglie della mia scienza.
Approntammo migliorie alle polveri con l'aggiunta di potassio, tanto da aumentare la gittata dei proiettili dei cannoni di ben due volte.
Predisponemmo palle cave satolle di polvere arricchita, cinte da una catena trettenuta da una cuffia di cuoio bagnato, asciugato al sole e lisciato con il grasso.
Creammo una sorta di "brulotti" con delle botti calatafate tenute due a due legate con una lunga gomena sottile, inanellata di numerosi sugheri, nelle botti fu collocato fulminato d'oro attivato da inneschi di mia invenzione, agenti ad urto diretto.
Con gran trambusto furono posizionate quattro bocche da fuoco sul ponte di comando, due per ogni lato, orientabili con grande libertà verso i lati e verso poppa.
Le prove di tiro, per la grande efficacia, provocarono grida di gioia tra l'equipaggio ed entusiasmo nei cannonieri.
Le botti, nel numero di cinque coppie, furono collocate sulla lancia, posta a traino della gran nave.
Predisposi dei dardi da balestra con delle sacche in grado di produrre "fuoco greco".
Costruimmo piccole zattere che incendiate avrebbero prodotto un vasto fumo denso, per queste inventai un innesco chimico, tale che due sostanze messe a contatto generavano combustione e una vivida fiamma.
Gli archibugieri adottarono le medesime polveri dei cannoni, con effetti entusiasmanti.
A notte il "Tierra Esmeralda" era una fortezza.
Quella sera la cena fu disertata, la tensione era forte sulla nave.
Il capitano si unì a me e appostati sul ponte di comando, fumando le pipe di schiuma, attendemmo la replica di ciò che era avvenuto la notte precedente.
Nell'ora seconda, nel buio, lampeggiò un raggio di luce proveniente da una cabina con la vista a poppa. Una e più volte il raggio spezzo il buio del mare, il suo orientamento era verso la probabile direzione delle navi corsare.
Ci precipitammo, silenziosamente, negli alloggi, il capitano, con furia inusitata, sfondò la porta della cabina incriminata e il sospetto che entrambe covavamo si rivelò esatto.
Bella e feroce come un felino a cui si vuole sottrarre la preda, Isabelle, lasciata la lampada, si era lanciata sul De Gomera con tutta la furia di cui è capace una femmina, imitata, di slancio, dalla serva Eveline, complice devota.
La mole del capitano resse come una roccia l'assalto delle onde, reagì con un solo gesto sprezzante del braccio che scaraventò Isabelle nell'alcova ed Eveline sul pavimento, poi con sordo rancore, il De Gomera, estrasse uno stiletto, io mi parai tra lui e le donne ormai inermi.
Allo sguardo cupo del capitano io opposi la "ragione" delle idee richiamandolo all'onore e ricordandogli l'utilità di conoscere i motivi di tale fraudolente comportamento.
In preda a un furore mal celato De Gomera ordinò che si montassero due gabbie nella cabina delle donne e con evidente voglia di umiliarle ve le rinchiuse indifferente ai graffi e morsi di Eveline e Isabelle, che una volta chiusa urlò con rabbia parole di fuoco in francese.
Io le tradussi e così capimmo ciò che era mistero.
I corsari che ci seguivano erano guidati da un tal Robert de la Rogue cugino e amante di Isabelle, fu rivelato che lei gli aveva proposto di liberarsi del controllo della famiglia e all'unisolo di catturare il "Tierra Esmeralda" come dote di nozze.
La rabbia si impossessò di noi e giurammo vendetta istigati da tanta perfidia.
All'alba la flotta corsara non era ancora nella vista delle vedette.
Il capitano De Gomera ordinò un'adunaza di guerra di tutto l'equipaggio sul ponte di manovra.
Arringò la gente della nave istigandola alla battaglia, poi con grande intelligenza, illustrò un coraggioso piano d'azione.
Disse che grazie alle modifiche apportate alla nave e usando una sperduta isola di sua conoscienza, battezzata l'Isla de Aves, avremmo avuto ragione dei nemici, illustrò alcune tecniche che avremmo usato.
Al fine la nave, nella sua interezza, tese i muscoli.
Il Tierra Esmeralda fece rotta verso il luogo dove preparare lo scontro.
Giunti che fummo alla piccola isola sbarcammo quattro pezzi di grosso calibro, vennero piazzati a sud, mimetizzati con cura e protetti da un plotone di archibugieri e alcuni falconetti.
L'isola si presentò allungata sull'asse nord-sud, è separata, a nord, da una grande secca per mezzo di un canale di buon pescaggio, fu li che piazzammo due brulotti in modo che la fune galleggiante lo attraversasse per intero.
Altre tre mine eguali furono poste a nord della secca, sempre ancorate precariamente al fondo.
A mezzo miglio a est dell'Isla de Aves, su un fronte di tre quinti di miglio, fu creata un una barriera di venti zattere fumogene saldamente ancorate sul fondo e collegate tra loro con una fune a scorrere che strappata da una prua di nave avrebbe determinato l'incendio chimico simultaneo di tutti gli ordigni.
La trappola era pronta.
Il capitano ordinò rotta sud.
Il Tierra Esmeralda navigò per circa due ore in quella direzione, poi invertì la rotta procedendo a vele spiegate per nord-nord-est.
La manovra ebbe successo, le vele nemiche vennero viste con buon anticipo grazie ai miei prodigiosi oculari, cosi che la nave mutò nuovamente direzione verso ovest, verso l'Isla de Aves.
Il capitano ordinò di ridurre il velaggio per favorire l'aprossimarsi degli inseguitori.
L'osservazione dei nemici ci mise in sgomento, la fregata con la sua mole aveva nascosto l'entità della flotta corsara, ben quattro sloop.
Una simile forza avrebbe certamente avuto ragione del galeone, ben cinquecento uomini si preparavano all'arrembaggio.
Ma la mole e la determinatezza del gran capitan Isidoro De Gomera ci rassicurò tutti, per cui ci concentrammo ai nostri compiti.
Rimasi ammirato dall'acume di quell'uomo che incarnava in se doti di intelletto e di carattere formidabili.
Fece in modo che la flotta corsara si portasse a una distanza utile per i cannoni posti sul ponte di comando, per la maggior gittata data dalle mie polveri, tenne a bada le cinque navi inseguitrici.
Come previsto, la flotta si divise in due gruppi per preparare l'abbordaggio, tre sloops in parallela a nord e la fregata con uno sloop in parallela a sud.
Fu dato ordine d'ipavesare e tutte le vele possibili si riempirono di vento.
I calcoli del De Gomera si rivelarono esatti e tutto si svolse con epica precisione.
La prua del galeone investì la fune delle zattere fumogene poco prima di rimanere sotto il tiro dei corsari.
Nel mentre si alzava una densa cortina di fumo, il galeone, appena superata quella barriera, virò bruscamente verso sud e appena in assetto, attraverso il fumo, fece fuoco di linea a volontà. La sorpresa e le bordate obbligarono la fregata e lo sloop a virare a sud ed essendo avvantaggiate e più veloci si trovarono in anticipo rispetto al Tierra Esmeralda ed è per ciò che emersero dal fumo proprio in bocca alla batteria di cannoni al capo sud dell'isola, la bordata investì il veloce sloop e lo troncò dell'albero maestro così lo espose, impotente, a una bordata di venticinque bocche da fuoco del galeone che sopraggiungeva.
Le palle di mia invenzione, mostrarono tutta la loro potenza, lacerando lo scafo e spazzando la coperta come un'onda di fuoco, passandogli a tiro di balestre lo bersagliammo con fuoco greco, era spacciato.
Il Tierra Esmeralda da preda si trasformò in predatore e si pose alla caccia della fregata, per merito dell'efficacia dei miei ordigni la nave corsara subì danni tali da ridurne la velocità, quell'equipaggio disperato tentò una reazione che provocò una decina di vittime tra le nostre fila, ma fu tutto inutile, senza tregua, colpo su colpo, bordata su bordata riducemmo la veloce nave in un cimitero galeggiante, anche su questa le balestre lanciarono fuoco greco a volontà tutto lo scafo si trasformò in una fornace che si spense affondando.
Nel frattempo i tre sloops aggirarono il fumo a nord e si trovarono davanti alla vasta secca, tra urla e strepiti della ciurma, il primo scafo entrò inconsapevole nel canale a nord dell'isola.
Appena la chiglia prese la fune con i galeggianti, le due botti liberate dall'ormeggio, si schiantarono ai lati della nave, l'esplosione fu impressionante, il battello si impennò e ciò che resistette si arenò sulla spiaggia dell'Isla de Aves.
Delle due supertiti una, a sua volta, incappò in una delle mine poste a nord della secca, le esplosioni fecero detonare anche la Santa Barbara e nessuno scampò.
Un solo battello rimase illeso, ma s'avvide di ritirarsi, a tutto vele, facendo rotta a nord.
Dai resti dello sloop arenato ne venne una quarantina di uomini, alcuni feriti, inferociti, mossi dal desiderio di vendetta si diedero all'assalto della nostra batteria a sud dell'isola, gli archibugi e i falconetti, grazie alla maggior gittata e all'assenza di vegetazione dell'Isla de Aves, fecero strage tra i pirati subendo solo il ferimento di due archibugieri.
Circa quaranta corpi furono cibo per gli uccelli marini.
Il De Gomera, indifferente al giubilo della ciurma, portò sul ponte la femmina Isabelle e la obbligò a rendersi partecipe della strage.
Alla vista delle fiamme, dei morti, dei relitti e alla notizia dell'affondamento della fregata lascio fluire dalla gola un alto grido di disperazione per poi accasciarsi ed entrare in uno stato di muto dolore.
Il capitano, per nulla intenerito dalla prostrazione di colei che gli era stata promessa, la ricondusse, con evidente spregio, nella cabina e la richiuse nuovamente nella gabbia.
Isabelle de la Rogue pareva svuotata di anima, ma ciò non la privava di una bellezza magnetica che cominciò ad insinuarsi nei nervi della nave come se il suo spirito fagocitasse quello del Tierra Esmeralda.
Benchè io uomo di scienza, fui colpito da questo fenomeno al limite del stregonesco, al punto di divenirne partecipe poco a poco mentre il galeone gonfiava le vele verso la meta agoniata..."
Il sole alto mi sorprese.
Dal mio alloggio si allungava una vista oltre la vetrata aperta, oltre il patio ombroso, oltre la sola fila di palme le cui ombre nitide, come disegnate con la china, ornavano a merletto la prima sabbia della spiaggia bianca, fino a culminare, più oltre, con il vivido azzurro del mare.
Di impulso feci mio "l'oltre" e, vestito dei soli bermuda con pappagalli, mi conquistai una nuotata ristoratrice resistendo al desiderio di bere tutta quella bellezza.
Giorno di visioni quello!
Sul bagnasciuga era apparsa, come uscita da un raggio di sole, una siluette bionda, la spiaggia deserta giustificò ai miei occhi la sua appetitosa nudità, e con sorpresa ammirai Gretha, che come una Venere-inversa, condivideva con me l'acqua frizzante di spuma.
Raggiuse la mia espressione interrogativa, e senza una sola parola pose le sue labbra tedesche sulle mie italiche.
A volte la vita rivela la forza della sua dolcezza e ringrazio il creatore per quel giorno.
Fu strano, quasi a sera, risvegliarmi da solo sotto la zanzariera del letto senza la presenza di miele di Gretha.
Uno sguardo, dalla posizione supina, alle pale rotanti del ventilatore del soffitto generò la nascita di un sospetto.
Balzai giù dal giacilio e controllai le pagine di corteccia, capii subito che erano state maneggiate, la mia memoria fotograrica individuò tutta una serie di discrepanze, da chè ebbi conferma del mio dubbio su Gretha, inoltre la mia dote produsse in me la certezza che i dattiloscritti della traduzione non erano stati trovati, visto che li avevo celati nel frigo dentro una scatola di biscotti in compagnia dell'ultima pagina di corteccia.
Sorrisi compiaciuto scoprendo che era stato cambiato il nastro della maccina da scrivere, sorrisi perchè prima di farmi attirare dal mare lo avevo già sostituito con uno vecchio.
Come dicevo! : ".. mutande di ferro Carlo, mutande di ferro!"
Mi ristorai di crostacei alla baracchetta di Francisco, sulla spiaggia, divorai, a tratti ridendo, tutti quei doni saporosi del mare.
Tornai al mio patio con indolenza "caraibica", giuntovi, ripresi la preziosa lettura, confortato dal fido bicchiere di rhum.
"... il mare si apri alla prua solcante del gran galeone vittorioso, a bordo euforie insidiate dal presagio; non avemmo più ostacoli sino alla nostra destinazione.
Un solo episodio mi turbò profondamente.
Avvenne per puro caso, dovendo io chiedere un aggiornamento della rotta. Arrivai con foga alla cabina del capitano aprii la porta e la trovai deserta. Dall'alloggio attiguo, dove erano recluse in due gabbie distinte le prigioniere, venivano ansimi e mugolii. Forse per distrazione non era stato messo il paletto all'uscio, così entrai nella penobra e potei vedere una scena che corruppe la mia serenità. Tre lanterne illuminavano l'ambiente e la luce infiammava tre corpi nudi rinchiusi in due gabbie, nella prima riconobbi la mole del De Gomera in postura di monta, similmente ad una bestia, piegato sul corpo indifeso della bella serva, la femmina mugolava e malediva sotto lo sguardo allibito della padrona, chiusa nell'altra gabbia.
In me il turbamento si accompagnò al disagio; consapevole, com'ero, di quanto possa essere pericolosa la febbre della passione, di odio o amore che sia, in quanto corrompe il limpido pensiero della ragione.
Un condottiero non può permettersi di perdere la propria integrità e controllo, pena la sventura e la rovina.
Tenni per me quanto avevo visto.
Trascorsero sette giorni e vedemmo le linee di costa del Belize.
Sapevamo della presenza, in quelle terre, di un presidio di corsari inglesi.
Gettammo l'ancora dinnanzi a una barriera di isole coralline distanti due miglia dal continente, in tal modo lasciammo fuori vista il Tierra Esmeralda.
Sbarcammo su un isolotto con molta vegetazione e vi creammo un fortino armato con colubrine e baliste poi procedemmo alla costruzione di sei grandi zattere messe in acqua nella laguna che divide l'isola dalla terra ferma.
Sbarcammo venti cavalli dal galeone, nonchè alcuni muli e dieci falconetti con ruote da campagna.
Trascorsi sei giorni avevamo costruito una solida fortificazione di appoggio protetta a mare dai cannoni del galeone, a sua volta utile per proteggere una spedizione in terra di Belize.
Lasciati dieci uomini a reggere il fortino, con l'aiuto della notte sbarcammo in forze sulla spiaggia, che battezzammo "riva de tabacco".
Trascorsero altri due giorni di intensi lavori che videro la creazione di un campo trincerato tenuto da quindici armati con sei falconetti e due baliste, su ogni zattera in attesa una colubrina.
Giunse, infine, il momento tanto atteso, consultai le carte con gli ufficiali e finalmente alla testa di una colonna di trentacinque soldati con venti cavalli, quattro falconetti e provviste su dieci muli ci inoltrammo nella foresta intensa e profumata del nostro destino.
Ci facemmo strada seguendo alcuni corsi d'acqua come indicato dalle note che io avevo segnato su una accurata mappa, facendo tesoro delle mie informazioni.
Avevamo l'impressione che la natura ci guardasse.
In vero il nostro ardimento era alimentato dalla bramosia, ed era per ciò potente.
Nessun timore, dunque, si affacciò nei nostri animi.
Il bagliore del sole riflesso dalle corazze, dagli elmi e dalle alabarde, illuminava, a tratti, il verde scuro della foresta.
Similmente ad un serpente di metallo la nostra colonna violava la femminea natura del luogo.
Nei primi momenti vi furono alcuni accidenti con serpi e ragni che ci gravarono della perdita di due compagni, ma con grazia di Dio giungemmo, dopo otto giorni di cammino, nel luogo chiamato Tikal ed io fremevo di impazienza e timore.
Il respiro ci si interruppe nella gola alla prima vista dei castillios a gradoni e l'immensa piazza che incorniciavano.
Tikal!
Il nome incuteva timore e riverenza, l'umore del luogo era cupo come la corona d'ombra che circondava la grande città, o quello che ne rimaneva.
Solo pietre ordinate in costruzioni imponenti soffocate dal verde; uccelli e scimmie padroni di tutto.
Creammo il campo con il metodo a doppio quadrilatero compreso uno nell'altro con al centro la batteria dei quattro falconetti, usammo la vasta piazza perchè utile al tiro di fucileria e dei cannoni.
Trascorsa la notte, alle prime luci, tenemmo consiglio dov'io rivelai i luoghi ove trovare gli ori e le gioie che tutti bramavano.
Le informazioni, che avevo estorto in vari modi al prigioniero lasciato sepolto sotto le mura della fortezza di Cumanà, riguardavano i tesori che al sopraggiungere dei selvaggi erano stati nascosti dai corsari fuggitivi.
Per mio conto, ben altra cupidigia motivava i miei atti.
Mentre i miei compagni procedevano, con gaudio, ai loro fortunati uffici, io scrutavo il cielo al di sopra delle fronde arboree alla ricerca di un preciso segno, e alla ora decima una nuvola chiassosa di pappagalli si alzò sopra un punto, verso ovest, non lontano nella foresta.
Era il segno.
Scortato da due ignari armati mi recai verso quel fenomeno, vi giunsi ansioso.
In un improvviso slargo, privo di alberi, una piramide ben conservata, il cui tempio era privo di una colonna, era alla base della colorata nuvola.
Lasciata la mia scorta a guardia alla base della erta gradonata, la salii fiducioso.
Con imprevedibile fatica raggiunsi il livello del tempio, accesi con l'acciarino la torcia che mi ero portato appresso. Impulsivamente estrassi la spada e mi avventurai sotto il padiglione, dove raggiusi una scala interna in discesa le cui pareti erano riccamente decorate da misteriosi dipinti su intonaco. La mia prudenza mi salvò dall'assalto di un grosso e agressivo serpente nero, infierii su di lui con la lama finch'è un liguido verdastro ne uscì mescolandosi al suo sangue.
La fiaccola diede fastidio ad un gran numero di pippistrelli che si diedero alla fuga in un caos di strilli acuti, volando scompostamente.
La mia determinazione si nutrì di ogni difficoltà.
Giunsi, alfine, dinnazi ad una porta di pietra dov'era effigiata una divinità femminile dipinta con colori verde, verde-smeraldo.
Come guidato da un intuito superiore, inserii con sicurezza la lama della mia spada in una fessura nella porta adornata con fiori di orchidea dipinti in modo stilizzato, sentii un contatto di ferro su ferro poi uno rumore sordo e un cigolio, la porta si arrese e si socchiuse.
Un suono ritmico e profondo mi accolse nel santa-santorum all'unisolo di una luce smeraldina pulsante.
Tutto proveniva da un enorme pietra di smeraldo a forma di cuore umano, per quanto grezzo. La preziosa era incastonata in sorta di massiccio tripode d'oro ben ancorato ad un altare di marmo. Mi resi conto immantinente dell'impossibilità di asportare il supporto aureo per cui agii con la spada, con il timore in petto, rimossi la meravigliosa gioia, che mi parve viva, l'avvolsi in un panno e la misi in un tascapane.
Valutai il suo peso in dieci o dodici chilogrammi.
L'istinto urlò in me l'urgenza di fuggire da quel luogo.
Mentre scendevo la cran scalinata della piramide, avvertivo un calore intenso provenire dal tascapane, questo pareva darmi forza inusitata e nuova agilità a i miei movimenti.
Ad un tratto il cielo si empì di migliaia e migliaia di uccelli bercianti, erano pappagalli ciarlieri. Produssero una gran nuvola sulle teste, mia e della scorta, il loro turbinare su di noi ci mise in altissimo allarme.
Nel mentre, a cavallo, ritornavamo al campo al centro di Tikal, sentimmo un vociare d'urla nella lontananza della foresta.
Con sollievo m'avvidi che tutti i miei compagni erano già in armi ed in possesso di molto oro in manufatti.
Ordinai alla truppa di caricare i cavalli e i muli e di prepararsi alla battaglia.
In cuor mio sapevo bene cosa ci aspettava.
Era già l'ora quindicesima del giorno e vedemmo la morte in tutta la sua bellezza.
Dal limitare della foresta, distante da noi circa mille metri egualmente da ogni lato, vedemmo uscire da nord, da ovest e da sud, un'orda di guerrieri adornati di bellissime piume e con i corpi dipinti in colori vivaci.
Noi eravamo pronti.
Li facemmo avvicinare per circa trecento metri, dunque i falconetti iniziarono un fuoco con proietti esplodenti ad un ritmo sovraumano, i colpi aprirono varchi notevoli tra le necmiche schiere, ma questo non arrestò la loro corsa, giusero cosi a tiro degli archibugi che ben brandeggiati non perdevano un colpo.
L'orda non parve desistere finchè giunta a una distanza di centocinquantametri, si trovò a tiro della trappola che avevamo saggiamente disposta.
Furono lanciati alcuni dardi con le balestre, i dardi erano incendiati.
Le fiamme appiccarono fuoco a canalette empie di melassa di "fuoco greco" che s'avvampò creando due barriere di fiamme altissime a nostro vantaggio.
Le prime linee dei nostri assalitori si trovarono così prigionieri e perirono orrendamente.
A quel momento l'assalto si spense e la fiera armata ripiegò decimata dai falconetti e gli schioppi.
Non lamentammo nessuna perdita e gridammo la nostra gioia vittoriosa.
Capimmo immediatamente che il secondo assalto sarebbe stato fatale per le nostre sorti, si chè al far della notte, incendiato tutto l'incendiabile, iniziammo a ripiegare prestamente verso la costa.
Ordinai al più temerario della truppa di anticipare l'arrivo della colonna ai difensori in attesa sulla "riva do tabacco".
Ci inoltrammo nella foresta sulle nostre orme.
Ordinai, con la mia supervisione, di approntare svariate trappole, esplosive, incendiarie, buche con punte accuminate sul fondo, e altre che per brevità non stò a descrivere.
La via del ritorno parve più agevole dell'andata, ma la detonazione della prime trappole ci disse della distanza dei nostri inseguitori, decisi per ciò di abbandonare i falconetti e il carico superfluo e accellerrare la nostra andatura.
In breve la nostra fuga durò quattro giorni nonostante noi fossimo a cavallo e i nostri nemici a piedi, in vista del mare le loro prime pattuglie ci raggiusero, li uccidemmo tutti ma perdemmo cinque valorosi, due muli e due cavalli.
Arrivammo al campo trincerato giusto in tempo per unire le nostre armi a quelle dei difensori e ricacciare un primo assalto.
Eravamo esausti e col primo buio facemmo carico sulle zattere e dopo aver predisposto a che il campo nostro apparisse pieno di armati, attraversammo il mare basso fino all'isola dove ci attendeva l'ospitale fortino.
Allertammo il "Tierra Esmeralda" ed iniziammo all'unisolo le operazioni di imbarco che già albeggiava.
Il fuoco delle colubrine del forte ci fecero volgere il capo verso la "riva do tabacco" da dove un innumerevole flottiglia di canoe si faceva strada verso la nostra isola.
Come quidato da i nostri desideri il galeone manovrò arditamente e si fece più prossimo alla riva, grazie a ciò la gittata dei suoi cannoni potè superare le nostre teste e giungere in mezzo a quei selvaggi temerari per farne una gran strage.
Trascorsero alcune ore tumultuose, con gravoso affanno, l'ultima scialuppa si staccò dall'isola e noi potemmo finalmente gioire e ristorarci del sonno e della fame.
La grande quantità di oro e gemme portò alle stelle l'umore dell'equipaggio, si che nessuno sospettò del mio ritrovamento.
Veleggiando verso sud verso Maracaibo, la vita di bordo rivelò alcune nequizie createsi durante la mia assenza.
La gente della nave, superata l'euforia della nostra avventura, coltivava la mala pianta della calunnia nei confronti del nostro capitano.
Si vociferava di cose pagane fatte da il De Gomera e le sue prigioniere, cose che muovevano il desiderio più triviale degli uomini, già troppo digiuni del piacere dato dalle femmine..."
Sospesi la lettura, così vidi il buio della sera padrone del caribe.
Mi rinfrescai con una sontuosa doccia.
Mangiai del pollo fritto e del chili; un buon caffè italiano lasciò il suo sapore nella mia bocca.
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