racconti » Racconti brevi » Una storia
Una storia
Quando il buio scende sulla strada di casa e la cancella dalla vista, nessuna luce di nessun nuovo giorno può aprirti il cuore.
È solo vuoto dentro e un paesaggio pieno davanti ai tuoi occhi.
Tante navi c'erano quel giorno, nel porto, e tanti uomini che correvano a comando portando casse enormi con dentro chissà cosa. Io li guardavo, con uno sgradevole peso a opprimermi il petto.
Come potevano non guardarsi indietro, come potevano nell'affettazione per un ordine ricevuto da qualcuno che nemmeno conoscevano, essere dimentichi di ciò che avevano lasciato qualche miglio o migliaia dietro di loro?
Io ci provavo, ma inevitabilmente ogni urlo dell'ufficiale in amido e tela verde era una schioppettata nell'anima che finiva per sanguinare di nostalgia e paura.
Solo qualche ora e già il castello di cristallo crollava. L'immagine di galloni e gloria, di nemici che cadevano senza colpo ferire, di loro burattini atterrati, così, dalle nostre nobili fucilate, di noi militoni elevati al rango di eroi, del cielo che ci arrideva irrorandoci di raggi di sole... di tutto quanto speravamo e immaginavamo, non c'erano che le ceneri di una fantasia devastata.
E devastato era anche il nostro io più profondo, quando capivamo che alla beffa si aggiungeva la vera guerra.
L'autunno arrivò e passò come un'ombra che si spenga nel crepuscolo. E poi fu l'inverno.
A Castella, in quella che ormai mi pareva un'eternità prima, d'inverno la campagna si faceva dura e silenziosa. Il terreno si ricopriva di cristalli di ghiaccio, e alla mattina presto se uscivi e ti addentravi in qualche macchia per cogliere le castagne, ecco che potevi diventare spettatore di qualche spettacolo di brina.
Al mezzodì non si mangiava tanto, ma i carboni scaldavano le membra intirizzite e la compagnia il cuore intristito. E non c'era una radio che gracchiava e si faceva pregare per sputare qualche parola, e nemmeno l'urlo disumano delle bombe che speravi finissero lì accanto senza farti nulla.
Ma soprattutto non c'erano le mani a brandelli che ti piombavano sulla testa ed erano di chissà chi.
Non era di certo il rancio che ti teneva su, quando le montagne dell'Albania si velavano di nebbia.
Non era nemmeno la pallida imitazione di normalità che ci ostinavamo a mandare avanti come un film su un cinematografo rotto, nemmeno l'adrenalina che esplodeva con una mitragliata improvvisa nel cuore della notte.
Cosa era, invece?
La semplice disperazione di vivere. Vivere a tutti i costi. Quasi aggrappandosi alla vita come un'abitudine logorata dall'uso degli anni e troppo cara per abbandonarla.
Lo capii nel giro di qualche decina di mesi, quando le sferragliate si fecero ritmo di martello nelle mie orecchie.
Quando il tempo iniziò ad aprirsi, mi capitava di ritrovarmi abbracciato al fucile a ripescare i ricordi di Castella. La primavera si sarebbe fatta sentire di lì a poco, ma faceva sempre qualche comparsa improvvisa in una dolce giornata di sole.
Erano giorni in cui si andava cercare asparagi e a fare all'amore nei boschi.
Stringevo Vittoria fra le braccia in mezzo ai fiori e rimanevamo lì fino alla sera, col profumo dell'erba che le ornava i capelli bellissimi.
Ricordavo lei, e stringevo le braccia, e trovavo solo la punta dell'arnese a guardarmi arcigna.
Nessun sorriso.
A parte quando un tipo strano, il Foggi, inciampò sugli stivali del capitano che stava là seduto e fece una caduta da foto. Allora sì che ci fu da ridere, e per la prima volta la trincea rimbombò di qualcosa che non era d'armi.
Spesso tremava nelle urla di qualcuno preso da un proiettile, di tanto in tanto gemeva per i compagni che uscivano a senso unico. E chi tornava, se quando e come tornava, ti dava l'impressione di essere un fortunato, un eletto.
Toccò a me, al fine.
Dovevano essere gli inizi di marzo. Ricordo comunque che era un'alba gelida, che la trincea sembrava un'offesa alla piattezza della landa.
Il capitano mi chiamò. Messaggio urgente, campo a sud, camionetta, pericolo. Guadando come si muovevano i baffi neri, mi attanagliava la voglia di chiedergli "Posso rifiutare, secondo lei?".
E così ci andammo. Eravamo io e Mario, uno che conoscevo da poco.
Mi chiese se volessi guidare, ma risposi che di quelle cose io non ero pratico. Cominciammo a parlare di casa, a raccontarci aneddoti e a commiserarci un po'. In fondo, sono le cose di cui noi soldati preferiamo parlare. Forse le uniche di cui siamo capaci di parlare.
Il caso fa cadere i frutti dagli alberi. Il caso salva gli uomini.
Il caso quel giorno scelse di far conficcare il proiettile sparato da chissà dove nella giugulare del Mario, ma di evitare la mia. La freccia mi trapassò la pelle all'altezza delle narici e fuoriuscì, dal caso sempre deviata, al di sotto dell'orecchio.
Ricordo sangue, il volante viscido di sangue, e nel sangue la promessa lanciata all'Altissimo di non nominarlo più invano.
Quando il buio è sceso sulla strada di casa e l'ha cancellata dalla vista, nel momento in cui riapri le palpebre dopo un lungo sonno, l'unica cosa che ti apre il cuore è la speranza che la luce sia quella del sole del paese tuo.
Convinto, mi sollevai di scatto nelle lenzuola grigie. Ma la delusione che mi mandò di nuovo disteso bruciava più della ferita sotto la fasciatura.
Capii subito che non potevo essere morto, perché dopo quella promessa Dio non poteva restare insensibile. E poi, metà del volto era un pezzo di dolore rovente. A meno di non essere sceso all'inferno, arrostito un po' e di li strappato per opera di qualche angelo, non potevo essere morto.
Alzai una mano per valutare la gravità dei danni e tastai la cosa che mi ingombrava. Era molto morbida, non poteva essere la mia pelle.
- Non la tocchi.
All'inizio non distinsi bene la sua figura. Poi si spostò, e andò ad armeggiare vicino la finestra, così la luminosità mi rese possibile capire chi fosse.
Le infermiere non sembrano angeli ai soldati che si svegliano da un lungo sonno. Sembrano semplicemente macchie di neve parlanti, poi donne che nei giorni finiscono per assomigliare alla tua Vittoria. Donne come non ne vedevi da mesi.
Chiuso tra metri di terra e maschi, mi sembrava di aver dimenticato quanto una pelle possa profumare, quanto il respiro affannarsi per qualcosa che non sia il correre al riparo da un'esplosione. Quanto le labbra dissetarsi da qualcosa che non era acqua sporca.
E d'improvviso capii che non era mera abitudine alla vita ciò che mi aveva fatto tirare avanti nella polvere e nel gelo. Era desiderio di tornare alla vita, passare la guerra e la morte e i feriti e i gemiti e risorgere dal bozzolo che ero diventato.
Ma Mario pure, lo voleva, eppure era stato lui a cadere.
Forse lui l'aveva capito, e il caso aveva scelto di farlo capire a me lasciandomi in quel letto piuttosto che sul sedile di quella camionetta.
Commentate senza alcuna pietà... critiche e consigli sono graditissimi... grazie mille!!
123
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- il finale è carino, abbastanza denso, ma sembra un racconto parallelo rispetto al resto. In alcuni passaggi mi sembra di respirare Ungaretti e la cosa mi piace. Scrivi bene, hai le idee chiare, ma ogni tanto ti perdi in qualcosina. Niente di irrecuperabile
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0