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Pioggia in coda
Sta diluviando. Nella mia auto in coda all'ennesimo semaforo della città, tamburello sul volante il motivo ora in onda alla radio. Nell'abitacolo accompagno il ritornello con la mia voce vagamente stridula ma pur sempre intonata, a mio parere. Stamattina è una di quelle giornate destinate a essere ricordate forse per sempre nella mia piatta vita condotta finora.
Un colloquio di lavoro, dopo mesi di disoccupazione vissuti non certo con il sorriso sulle labbra. E Roberta ne sapeva qualcosa. Teso e facilmente infiammabile più di una tanica di kerosene, il mio umore era al limite di una crisi. Cavoli, avevo sempre lavorato sodo, in quella fabbrica di mattoni, fino al suo tragico epilogo. La chiusura. E con altri venti operai, da quel giorno non ci furono più sveglie all'alba e le mani tornarono più lisce, senza quei nodosi calli: gli unici elementi positivi di quel licenziamento di massa che mi venivano rammentati fino alla nausea per evitare che facessi il pericoloso passo verso il limbo della disperazione. La mia dignità di uomo che protegge e mantiene la sua donna era minata pericolosamente. La mia compagna di vita, Roberta appunto, sapeva quanto fosse doloroso per me vivere col suo solo sostentamento economico. Peraltro appena sufficiente. Faceva la cassiera da MacDonald's, la catena americana di quel cibo rovina-viscere (così lei stessa lo definiva). Ogni mattina prima di andare al lavoro mi passava una mano tra i capelli e nello stesso istante mi accarezzava l'orecchio con il suo respiro che svaniva nel sussurro più dolce che un ragazzo di trent'anni avesse mai potuto percepire. Un "Ti amo" speciale. Erano le solite parole che si scambiano due innamorati. Ma Roberta ci metteva tutta la sua anima nel pronunciarle. E a me scaldavano il cuore infreddolito dagli eventi. Sapeva quello che stavo passando ed io apprezzavo enormemente quanto tenesse a me.
Ma quella mattina mi alzai prima io di lei. E quel suo procedimento amoroso, glielo rubai. Le dissi le due paroline forse in modo meno dolce, ma altrettanto sentite. Per un attimo la guardai mentre dormiva beatamente. Era veramente bella. Dio quanto l'amavo. Gli occhi miei si misero a luccicare e trattennero una lacrima. Era tardi, dovevo andare. Feci piano cercando di non svegliarla. Chiusi delicatamente la porta, salii in macchina e partii.
Fortunatamente sono partito con largo anticipo prevedendo che, con la pioggia incessante dalla notte scorsa, l'afflusso delle auto sulle strade sarebbe stato critico. Devo fare ancora venti chilometri di tangenziale. Ed ho due ore di tempo utile per compierli. Per ora non mi preoccupo. Alla radio lo speaker di turno, quello che per lavoro deve improvvisare discorsi che riescano a coinvolgere un pubblico ancora assonnato e difficilmente in vena di grasse risate, parla del traffico congestionato un po' su tutta la penisola. Il brutto tempo ha avvolto l'intero stivale e le precipitazioni stanno mettendo in ginocchio le grandi città. "Ho capito, devo comprarmi un ombrello nuovo" gli ribatto sonoramente come se il tipo con le cuffie dal viso sconosciuto fosse in auto con me.
Mi guardo intorno. Sono nella seconda corsia, quella che in condizioni normali sarebbe di sorpasso. Ma oggi è più lenta dell'altra. Affiancata alla mia auto, un pick-up giallo senape della manutenzione stradale, guidato da un tipo alquanto robusto in camicia a quadri e cappellino rosso, condensa dallo scarico della marmitta nell'aria bagnata un fumo azzurrognolo. Il suo motore sta bruciando olio, sentenzio col pensiero. Davanti a me invece, una berlina compatta giapponese (facilmente riconoscibile dalla "s" stilizzata sul portellone) color grigio topo. A guidarla, dalla sagoma che riesco a malapena scorgere, presumo sia un ragazzo. Alla sua destra credo ci sia una ragazza. Li fisso per un attimo. I due sembrano nel bel mezzo (oltre che di una coda lunghissima di auto che non accenna a ripartire) di un litigio forse amoroso. Vedo lui che gesticola nervosamente, cercando forse di farle capire, penso io, che quella sera con la sua migliore amica non ha fatto nulla. Noto che lei non ci crede. Per un attimo temo il peggio. Che i due possano venire alle mani. Santo cielo se dovesse accadere che potrei fare io per fermarli? Mi domando. Forse basterebbe illuminarli ad intermittenza con i miei abbaglianti. O forse sarebbe il caso che scendessi dall'auto, gli bussassi al finestrino e dopo avermi fatto insultare con parole irripetibili, tornare in macchina felice di aver fatto il possibile e di essermi preso un bel raffreddore formato famiglia. Mi scappa una risatina, più nervosa che sentita.
Mi accorgo che sto cercando in tutti i modi di non pensare a quello che tra poche ore dovrò affrontare con tutto me stesso. Non un semplice colloquio di lavoro. Ma IL colloquio. Dovrò risollevar le sorti della mia vita. La cosa importante ora è questa. Otterrò quel posto di bidello vacante e il sole tornerà a splendere. Sono convinto più che mai a far ritorno a casa con quell'impiego nella saccoccia. Nel frattempo la coda avanza di poche decine di metri. Dietro la mia auto noto due fari molto grandi. Un camion. Sulla carena verticale sotto l'alto parabrezza campeggia a caratteri cubitali la scritta "Lasonil". Accidenti l'ultimo tubetto di crema che cura le contusioni l'ho finito la scorsa settimana, mi dico pensando. Quello spigolo del comò aveva lasciato la sua sagoma sulla mia anca destra procurandomi non poco dolore. Chissà se l'autista di quel bestione farcito di unguento miracoloso ha qualche campione omaggio da distribuire ai fortunati possessori di comò come il mio. La coda nella corsia parallela alla mia, quella del pick-up giallo senape ora è più scorrevole. Lo vedo passarmi a fianco lasciandosi dietro la nuvola di fumo azzurrognolo ora più denso. Ci fermiamo nuovamente. La mia auto adesso ha per compagna laterale una utilitaria mezza sfasciata. Dal finestrino posteriore fa capolino il visino delizioso di una bambina con le treccine, ancora mezza addormentata che fissa con gli occhioni spalancati l'enorme pozza d'acqua formatasi sull'asfalto. La madre alla guida vedo che le sta parlando e ogni tanto sembra guardare nello specchietto di cortesia rivolto ai sedili posteriori per trovare riscontro di quanto detto sul suo visino.
Ma lei, a parer mio, non se la fila più di tanto. Appena nota che la sto guardando, dal vetro mi sorride e accenna ad un timido saluto con la mano. Le rispondo anche io, sorridendole a mia volta.
Il mio parabrezza accoglie le innumerevoli lacrime di pioggia che si posano senza ordine formando disegni astratti. Poi gonfie come perle percorrono la discesa del vetro lasciando una scia appena velata. Alcune investono altre gocce appena posate e se le trascinano nel loro percorso accennando un lieve zig zag. Nel frattempo l'auto dei fidanzatini litigiosi davanti a me ha percorso un altro tratto di strada, allontanandosi dalla mia vista. La pioggia scrosciante limita la visibilità. Mi sono distratto pure con le gocce di pioggia, mi dico fra me ingranando la prima e premendo l'acceleratore per raggiungerla. Forse la coda si sta esaurendo, visto i metri guadagnati da chi mi precede.
A quel punto sento un boato sordo. Faccio ancora una decina di metri e in lontananza davanti a me noto l'auto dei due litiganti posta di traverso rispetto al senso di marcia con gli indicatori di direzione accesi. Accidenti penso. Vuoi vedere che litigando lui si è distratto ed ha tamponato l'auto davanti. Cerco di darmi una spiegazione di quel colpo tremendo e mentre lo faccio noto che la parte anteriore della loro auto è accartocciata. La lamiera lucidata dall'acqua sembra un foglio spiegazzato. Ora dalla parte di guida si apre la portiera. Forse è meglio che scenda per accertarmi che stiano bene. Lui dapprima barcolla un attimo e poi tendendo la mano cerca di far scendere anche lei. Io allungo la mano dietro il mio sedile, agguanto l'ombrello da mandare in pensione e apro lo sportello per scendere. In quel momento un bagliore illumina la scena del presunto tamponamento. Ormai fuori dall'auto mi giro di scatto verso quella luce che proviene da dietro. I miei occhi non hanno tempo di comunicare al cervello di scappare. In un batter d'ali il rimorchio di quel camion in coda dietro di me si intraversa e il mio sguardo impietrito riconosce i caratteri sempre più vicini e più grandi della nota marca di unguento. Non faccio in tempo a notare altro, se non uno stridulo rumore di gomme e ferraglia.
I seguenti furono attimi tremendamente scioccanti. L'autista dell'autoarticolato a causa dell'asfalto reso viscido da pioggia e olio (perso probabilmente da un pick-up con problemi al motore) nella frenata perse il controllo e il mezzo si mise di traverso travolgendo numerose auto tra le quali, prima fra tutte la mia. I ragazzi davanti a me, non poterono più litigare. La mamma con la bimba sull'utilitaria rimasero gravemente ferite ma se la cavarono. Il pick-up, fonte di questo tragico epilogo, fu tamponato violentemente dalla stessa utilitaria. Il conducente con la camicia a quadri entrò con la testa (non aveva la cintura di sicurezza allacciata) nel parabrezza, tingendo di rosso il suo cappellino già rosso. Quel berretto gli salvò la vita. Subì lesioni gravi, ma non fatali.
Ed io, giovane trentenne destinato ad essere il primo a perire sotto quel bestione gommato, mi salvai. Il mio risveglio all'ospedale fu famigliare. Roberta con le lacrime agli occhi mi accarezzava dolcemente la testa, facendo scorrere fra le sue dita i capelli ancora umidi di quella pioggia che continuava a scendere copiosa sulla città. Accennai qualcosa, ma non riuscivo a parlare. Lei si avvicinò a me, e come tutte le mattine, mi sussurrò quelle parole magiche, quelle parole che mi davano forza, speranza. E stavolta ne avevo veramente bisogno. Più che mai.
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