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Annie e Anna
Quasi tutti la chiamavano l'Americana. O Annina la matta.
Per pochi ancora restava semplicemente Annina.
Se ne andava in giro a tutte le ore, da sola, per le strade del paese, vestita in modo eccentrico e sempre con un cappello grigio in testa. Sempre lo stesso, estate e inverno, per quante estati e per quanti inverni visse ancora.
Era una donna di bell'aspetto e di bel portamento, nonostante i suoi settant'anni passati quasi tutti a spezzarsi la schiena sulla terra arida più dura della pietra dalla quale mieteva, insieme al marito e ai tre figli, allora tutti pelle e ossa, spighe di grano alte non più di un palmo, che sarebbero diventate pane scuro per tutta la famiglia.
Rimase vedova presto, Annina, e si vestì di nero. Mai cedette alle lusinghe di altri uomini perché nessuno era disposto a risposarsela con tutti i suoi tre figli. E quando si presentò don Alessio che prometteva "amore e avvenire ai tuoi figli pur di avere te", Annina si fissò sul finale delle parole del ricco pretendente e comprese in un baluginare rapido di pensieri che ai suoi figli sarebbe toccato sempre un secondo posto rispetto a lei a causa della sua bellezza di cui il riccone si era invaghito.
Fu un no deciso che le costò, unite agli enormi sacrifici che si preparava ad affrontare da sola, invidie e antipatie.
Ma che si permetteva di fare quella donna che non aveva neanche gli occhi per piangere!
Nessuno era riuscito a penetrare nel suo cuore puro, né lei si preoccupò mai di svelarsi e così avvenne che la sua profonda dignità passò per superbia. Da allora rigò dritta per la sua strada che diventava sempre più dura fino a quando Clementino, Nicola e Benedetto non si fecero, in mezzo agli stenti, giovani uomini pieni di salute e di forza.
Il primo si trovò una moglie tra le ragazze che lavoravano come lui la terra. Se la rimirava con gli occhi pieni di desiderio mentre erano tra i covoni di grano e nascondevano appena i loro tentativi maldestri di toccarsi le mani nude e sudate senza l'ostacolo del fazzoletto divisorio, secondo l'usanza di allora. Gli altri due, giusto in tempo prima di trovarsi una sposa, pensarono che quella vita non faceva per loro e così un giorno dissero alla madre che volevano tentare la via dell'America.
Lei li lasciò, senza ricatti, al loro destino.
Italia, 1912- 1915
Partirono che non avevano ancora vent'anni, senza una destinazione precisa, senza niente nella valigia.
Gli anni passarono sempre uguali. Annina andava ancora nei campi per poter permettere alla giovane nuora di accudire alla casa e di allevare la bambina appena nata, Anna, a cui anche lei riversava tutto l'affetto che le premeva il petto nei momenti della nostalgia..
Lo scoppio di una grande guerra, di cui non si chiedevano neppure le ragioni, come per tutti i dolori del resto, li trascinò ancor più nella miseria. Nella miseria ma non nella morte possibile, perché Clementino non partì soldato data una circostanza, incredibilmente vantaggiosa, che era quella di essersi ferito al braccio destro in modo piuttosto grave durante la mietitura.
Quando la guerra cessò insieme a tutte le altre sventure che da sempre l'accompagnano e la seguono, la famiglia, come tutte le altre, riprendeva la vita solita che ora appariva a tutti decente nella ritrovata tranquillità.
Fu questo momento di grazia che accese in Annina il desiderio forte di andare a trovare quei suoi due figli che erano emigrati da ormai più di vent'anni.
Allora, quando se ne andarono, giovani e belli, lei li baciò sulla fronte e li benedisse. Non li avrebbe, forse, mai più rivisti.
Le lettere, ogni tanto, arrivavano ed anche i pacchi pieni di cose buone arrivavano due volte l'anno. L'ultima volta era arrivato persino il latte in polvere per lei che aveva una capra e qualche pecora, ma non faceva niente, lo consumava lo stesso per far piacere ai figli anche da lontano. Quello era il latte americano. Quello lo bevevano Beniamino e Nicola. Lo sentiva buono e le faceva bene bagnarsi la bocca di quel dolciastro.
Intanto tirava da parte i pochi soldi del raccolto che le spettavano perché il povero marito le aveva lasciato un usufrutto; un giorno li unì ai dollari che le arrivavano da quella terra straniera e, visto che il suo gruzzolo era diventato una bella sommetta, pensò che era tempo di andare.
Voleva andare là dove i suoi figli si erano fatti uomini e avevano formato famiglia.
Voleva andare a vedere con i suoi occhi quello che non riusciva più a figurarsi da sola.
Sotto sotto, era curiosa anche di vedere l'America.
Napoli, primavera del 1919
La partenza, l'incontro, l'arrivo
Fu suo figlio Clementino ad accompagnarla al porto per prendere il legno.
Vado, ma ritorno! gridò Annina agitando tutte due le braccia dal pontile del bastimento che iniziava a fare le manovre tipiche di ogni partenza sul porto di una Napoli bellissima e illuminata da spezzarti il cuore. Clementino sventolò un fazzoletto in risposta e annuì con il capo, nella ferma convinzione che, come prevedeva sua moglie, mamma Annina sarebbe di certo tornata e non troppo tardi da quell'America che era curiosa di vedere con i suoi occhi.
Il fischio gracchiante e prolungato della nave che iniziava a muoversi la trovò già seduta su una panca di legno accanto ad una signora di mezz'età che sistemava sopra una reticella posta in alto il cappellino che si era appena tolta dal capo. Forse era là perché non aveva trovato posto nella prima classe.
Intanto la nave si animava di persone, di passi, di voci, di odori.
Un organetto diffuse le note di Reginella ed un vecchio si mise a cantare.
Un iniziale di dove siete, signora? favorì in Annina una loquacità appena mascherata da una certa soggezione per la dama col cappellino e che si articolò in una narrazione lunga quanto la durata del viaggio, i cui dettagli venivano incasellati su richiesta nella trama che fluiva tranquilla come un torrente in primavera.
Rosemarie era di Chicago e agli inizi del secolo aveva fatto la cantante lirica nei teatri. Ora, che aveva un'età matura, vinceva la noia girando il mondo e questa volta ritornava in America dopo un viaggio in Europa la cui ultima tappa era stata Napoli.
Le due donne, incuriosite l'una dell'altra e attratte dalle loro diversità, al termine della traversata, per il gran parlare che avevano fatto di sé e delle loro storie, quando si lasciarono si comportarono come due buone amiche che si salutano con baci e abbracci.
L'incontro lasciò però ad Annina una sensazione strana. Nei suoi brevi spostamenti intorno ai piccoli paesi vicini al suo, aveva conversato con persone che avrebbe in qualche modo rivisto e soprattutto con persone del suo stesso stato sociale che si manifestava nel modo di parlare, di vestire, di gesticolare..., eppure, in una situazione così diversa, si era trovata bene con la signora, anzi l'aveva ammirata molto soprattutto per i modi gentili, per le mani delicate che toccavano ogni cosa con garbo, per la grazia con cui si tolse e si rimise il cappellino. Allo stesso tempo pensava di aver avuto un'avventura particolare e unica per una semplice donna di paese qual era lei che, non appena si fosse trovata in casa dei suoi figli e avesse ritrovato il mondo di sempre, quello più ordinario che conosceva già, avrebbe ricordato per un po' e poi dimenticato. I suoi figli, del resto, sebbene americani da qualche lustro, non potevano che essere quelli di sempre. Anche le nuore erano italiane di origine. A questo pensiero si sentì tranquilla e agitò le mani in aria per lanciare l'ultimo saluto alla compagna di viaggio che andava a scomparire nella folla. Uno sguardo indietro come per salutare anche l'oceano, il segno della croce per ringraziare Iddio della buona traversata, una lieve rassettata al bustino nero che le fasciava la vita, un tocco di dita alle forcine che le tenevano le trecce attorcigliate sopra alla nuca, poi gli occhi volti a rintracciare i due figli che dovevano essere già lì ad accoglierla.
Quando finalmente riuscì a vederli, si stupì nel provare lo stesso senso di soggezione che aveva sentito per Rosemary e lo stesso smarrimento che solo da poco l'aveva abbandonata si impadronì di lei. Non le sembravano i suoi figli, i suoi ragazzi... Erano due uomini ormai. E quale eleganza! Le parevano, Beniamino e Nicola, due signorotti, al pari di don Alessio quando era giovane, di quelli che in paese si salutano con l'inchino. No, non poteva figurarsi tanto...
E lungo la via di casa Ben e Nic, ormai qui ci chiamano tutti così, rivolgevano domande una dietro l'altra alla mamma e l'abbracciavano e la baciavano sul viso e sulle braccia come mai i suoi figli, tutti i figli delle donne di Manaforno che conosceva, avevano osato.
Arrivò nella villetta in legno e muratura, bella tra gli alberi di un giardino che le apparve smisurato. Conobbe le sue nuore, due donne sorridenti e festanti e sua nipote, l'unica figlia di Nicola che era anche la nipote adorata di Beniamino che di figli non ne aveva avuti.
I suoi primi giorni trascorsero nello stupore. La casa, comoda, con tante stanze piene di mobili, con i tappeti sul pavimento e con i quadri alle pareti, non l'aveva vista neppure quando, una mattina della primavera passata, si era recata in casa del conte Agapito, il veterinario del paese, per pagargli la visita che aveva fatto al cavallo che si era ammalato per gli sforzi eccessivi e la biada scarsa.
Adesso vedeva che i suoi figli vivevano da signori. Lavoravano nelle ferrovie ed erano diventati capireparto in due settori diversi, dopo tanta gavetta e altrettanti sacrifici. Anche le loro mogli avevano un impiego e così la loro posizione economica era salda.
Sua nipote studiava all'università. Non capiva, Annina, che cosa studiasse e dove, ma intuiva, da un insieme di circostanze e di frequentazioni nella casa, che sua nipote si impegnava in qualcosa di importante.
La ragazza portava il suo stesso nome. Si chiamava Annie. Annie doveva essere il suo nome in americano.
Andava bene lo stesso, tanto c'era l'altra sua nipote, quella del paese, che si chiamava propriamente Anna, ed una le sarebbe bastata.
America, New Jersey, autunno del 1919
Le immagini
L'aveva lasciata da poco più di sei mesi, Anna, e ne sentiva la mancanza. Era stata lei che l'aveva salutata per ultima con un forte abbraccio, che le aveva raccomandato di scrivere, che le aveva portato il piccolo baule fino alla carrozza. Era stata lei che le aveva ricamato con il filo "Ancora" celeste una piccola "A" contornata di fiori in un angolo del fazzolettino da naso di pelle d'ovo che avrebbe usato in viaggio e che ora rigirava tra le mani.
Anna aveva vent'anni e li spendeva anch'essa nei campi. Aveva frequentato la scuola elementare solo per tre anni e nella sua pagella il voto più alto lo aveva riportato alla voce "lavori donneschi", dei quali era già esperta. In inverno, come le altre ragazze del paese, frequentava la Casa delle suore salesiane, dove una giovane suora venuta fin là da Torino, le insegnava a ricamare il corredo che sua madre, nelle sere d'inverno, le aveva tessuto con le proprie mani al telaio. Stava ultimando il lenzuolo da sposa, Anna, quando Annina partì. Non lo avrebbe visto finito, ma riconobbe nel disegno impresso nella tela candida dalla copiativa blu le due cifre maiuscole, una A e una S, racchiuse in un ovale di foglie e fiori. Ai lati e fino all'orlo, un nodo d'amore.
Si sentiva in età da marito, Anna e parecchi giovanotti le giravano intorno, ma i suoi pensieri erano tutti per Donato, il garzone del barbiere che quando la vedeva passare usciva dalla bottega con il pennello pieno di schiuma ancora tra le mani e che però, pur sospirando per lei, non riusciva a manifestarle altro che un acceso rossore delle guance e di tanto in tanto ad un timido dove vai, Anna, in chiesa per il rosario? cui lei rispondeva con un lieve cenno del capo già coperto dal velo di seta color grigio perla.
Queste immagini passavano per la testa di Annina mentre una musica assordante, che chiamavano charleston e che aveva visto ballare anche sulla nave, faceva intendere sì e no la vocina stridula e un po' nasale di Annie che, nella lingua per lei ancora incomprensibile, chiedeva con garbo qualcosa. Sua nuora passò con un piccolo indumento impalpabile tra le mani ed Annina riconobbe una sottoveste di seta simile a quella che aveva visto indossare una mattina a Rosemary. La ragazza, avvolta in un bianco cappotto di spugna, la prese con le sue piccole mani dalle unghie smaltate e richiuse la porta della sua camera dopo che un rapido "thank you" fece in tempo a farsi sentire.
Finalmente uscì dalla sua camera elegante in un perfetto stile anni venti e quando Annina la vide ancora sistemarsi con grazia un cappellino grigio sul visetto imbellettato, provò un certo sbigottimento nel pensare a quel raffinato figurino come a sua nipote. Forse Rosemary poteva avere nipoti così moderne, così americane... ma lei.. ... avrebbe voluto incontrarla di nuovo, Rosemary, chissà dove, chissà quando, in un posto qualsiasi di quella grande America per continuare il racconto di una storia che ora si svolgeva in un modo tanto differente dall'altra, da quella che lei stessa conosceva fino ad allora, perché le storie non vanno raccontate a metà.
A meno che l'altra metà non si sia palesata neanche al narratore, il quale, come Annina, ne veniva a conoscenza solo quando la trama aveva continuato a svolgersi a sua insaputa e senza che lei stessa potesse interferire neppure con un pensiero o con una parola.
Annina era, adesso, parte della storia.
L'anziana donna non riusciva ad avere pensieri precisi in merito, ma un groviglio di idee inusuali la estraniava, ogni tanto, dalla storia americana.
Allora le apparivano le case povere di Manaforno e le donne vestite di scuro e le ragazze con le gonne lunghe arricciate con il giacchettino chiuso da tanti bottoni fino al collo e gli uomini giovani che sembravano vecchi e i vecchi con gli occhi opachi immobili seduti al sole davanti alle case e i bambini sporchi che giocavano a scavare i vermi dalla terra e a mostrarli a quei vecchi che non ci facevano caso. E le case tanto piccole con poche stanze strette e con tanta gente dentro. E Anna. Vedeva la sua Anna povera come mai lei ci aveva fatto caso e magra e mal vestita e mal pettinata, eppure con un volto bello e con gli occhi più neri del carbone e più lucenti delle stelle e con un sorriso sempre uguale che le illuminava le guance color della rosa. Annina sentiva un nodo in gola, ma poi veniva rassicurata da quelle immagini che conosceva, da quella storia che poteva sempre raccontare, magari con qualche aggiunta che le sembrava, ora, possibile.
New Jersey, 1919- 1921
Una storia che si va componendo
I mesi passavano ed anche il primo anno di permanenza in America lentamente passò. Questo tempo l'aveva sentita dire ok yes please good bye e tante altre parole americane che degeneravano in suoni appartenenti ad alcuna lingua ma utili per chi gradualmente cerca di andare oltre le prime righe e di entrare almeno in un capitolo di quella storia. Quel tempo l'aveva vestita di vestaglie fiorate di giacche molto americane di patetots di lana lunghi fino ai piedi calzati di comode scarpe di buon pellame. Quel tempo aveva permesso che una mattina di una domenica qualunque, prima che la famiglia al completo uscisse per la messa seconda di mezzogiorno, una delle sue nuore le appoggiasse sui capelli bianchi ben pettinati e messi in piega e senza più trecce un cappello grigio e l'accompagnasse verso lo specchio della camera grande. Dove il cuore le sobbalzò, perché vide, nitida come una foto scattata in piena luce, l'immagine di Rosemary e si coprì il viso contratto in una smorfia.
Ma la storia, quella piccola storia fatta di cose sagge e insensate e strane che ruotava intorno a persone e a oggetti e a cose in ogni parte del mondo, doveva andare avanti e Annina lasciò che si facesse.
Anzi, incominciò a recitare la parte che il destino le aveva assegnato con quel certo piacere che prende gli attori quando si calano nel personaggio.
Passeggiò per le avenues di Manhattan, entrò in negozi dove potevi vedere in un sol piano più di tutto quello che era gridato nella fiera di settembre del suo paese o in quella più grande di Santa Lucia del paese vicino. Una mattina le fecero attraversare in carrozza il ponte di Broocklyn ed un pomeriggio le mostrarono la meraviglia delle meraviglie, il Flatiron, un building che tutti chiamavano "il ferro da stiro" per la sua base triangolare. Ma soprattutto vide e conobbe un'umanità varia di cui non sospettava l'esistenza neppure durante l'ascolto del fatto biblico della torre di Babele che una volta un monaco predicatore infervorato aveva raccontato in chiesa in occasione delle Sante Missioni. Occhi allungati a mandorla, carnagioni giallognole o completamente scure, capelli crespi e modi di parlare ancora differenti e diversi da quello degli americani.
Sono i cinesi, le spiegavano, oppure i neri o i creoli o i meticci...
Annina osservava questo strano mondo incuriosita e riponeva incredula ogni immagine dentro di sé.
New Jersey, 1921
Una storia interrotta da raccontare
Un giorno, al compimento del suo terzo anno trascorso in America, scrisse a suo figlio Clementino che era giunto il tempo di mantenere la promessa fatta sul pontile della nave a Napoli.
Vado, ma ritorno!
Era pronta per ripartire.
Non ne comprendeva le ragioni, ma era giunto il momento di rientrare là da dove era venuta.
Il personaggio che interpretava, così diverso eppure sempre meno lontano dai tanti altri variopinti personaggi di quelle piccole storie che una grande America scomponeva e ricomponeva, incominciava a tentarla ora con mille lusinghe.
Doveva andare, Annina. Doveva andare. Adesso o mai.
Riaprì il baule. Trasse la gonna nera e il busto rigido, li indossò senza guardarsi. Tirò i capelli sulla nuca e li riannodò con le forcine.
Era arrivata per lei la fine della storia americana, della narrazione che doveva uscire dalla sua bocca come un torrente in primavera una volta rientrata nella sua casa di sempre...
Italia, 1921...
... dove aveva ritrovato tutto come aveva lasciato. Là il tempo non era passato o se era passato nessuno sembrava essersene accorto.
Ogni oggetto era rimasto al posto di sempre. Ma le appariva più consumato.
Le facce che aveva davanti erano sempre arse dal sole che le bruciava durante i lavori in campagna. Ma le apparivano più arse e più bruciate.
Anche la casa era quella di sempre. Ma le appariva più stretta, più scomoda, più fredda.
Quel busto nero che era tornato a cingerle i fianchi le toglieva il respiro, così ogni tanto tentava di allentarne le stringhe o di slacciarlo.
Era arrivato il momento della narrazione, ma che poteva raccontare se le parole non venivano!
Tutto era così strano e lei si scoprì ogni tanto a sognare l'America.
Rientrava inconsapevole ma determinata nel personaggio che aveva interpretato ma non amato. Adesso, che non figurava più nel copione, lei lo ricercava. Non riuscì a dire niente neppure ad Anna, che era stata sempre presente nei suoi pensieri e nei suoi discorsi quando era lontana.
Annina, ma ci vuoi dire com'è l'America?
Non lo so, non lo so com'è l'America... come ve lo devo dire che non lo so..
In America ci devi stare... non la devi raccontare...
... e ancora...
Una mattina, quando tutti erano usciti per andare nei campi, Annina riaprì il baule che aveva riportato stracolmo degli abiti che le erano appartenuti in quei tre lunghi anni. Scelse il più bello e lo indossò. Le mani frenetiche rovistarono tra tutti quei rossi quei blu quei gialli delle stoffe e trovarono il vecchio elegante suo primo cappello. Dal fondo trasse un paio di scarpe in pelle marrone con il mezzo tacco. Andò verso lo specchio che la ritraeva in parte. Rise e pianse.
Rosemary, eccoti finalmente! Ti ho ritrovato, Rosemary... Andiamo fuori che ti faccio conoscere il mio paese e tutta la gente di Manaforno che vuole sapere dell'America. Tu sei americana e puoi raccontare l'America... Che dici, non vuoi venire? Se non vieni tu non ci vado neppure io. Io, io non so raccontare...
Si mosse e anche l'altra si mosse.
Uscirono insieme. Passeggiarono come vere signore davanti alle case là attorno.
Annina parlava... parlava... Riaffiorarono gli ok, gli yes, i good bye...
Poi, un lieve cedimento, la vista offuscata, nelle orecchie tanti fischi.
Tra quelli, come un'eco lontana... Annina, l'Americana, è impazzita... Sì, è Annina, correte, chiamate qualcuno... Ma sono tutti in campagna... Venite a vedere, è impazzita.. parla da sola, dice parole strane... oddio.. oddio...
Anna la trovò accasciata su una sedia che avevano tirato fuori da una casa là vicino.
Era pallida, coperta di sudore, gli occhi persi nel vuoto. Un filo di voce. Annie, che fai qua così ridotta... vedi come sono elegante io... io stavo raccontando... l'America... perché Annina non la sa raccontare...
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PIERO il 12/07/2012 23:10
Vedendo che questo bellissimo racconto ha avuto vergognosamente finora solo un commento, non mi lamenterò mai più dei pochi commenti alle mie povere scribacchiate...
- Mi piace chi scrive senza farsi condizionare dalla lunghezza, magari con l'idea che se troppo lungo lo leggeranno in pochi. Un racconto può essere una... sciabolata, ma può anche avere bisogno di accelerate e rallentamenti, di passaggi sospesi, di costruire situaioni. Tu questo lo sai fare.
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