racconti » Racconti d'avventura » Capodanno 2000 a Cuba, prima parte
Capodanno 2000 a Cuba, prima parte
Percorrere centocinquanta chilometri sull'Autostrada del Sole fra Reggio Emilia e Milano senza vedere un'auto? Fare tutta la tangenziale attorno alla città meneghina fino a Malpensa incontrando solo una decina di macchine... è possibile?
Quella di Paolo Pellico e Marcella Momo sembrava un'improbabile scommessa. La risposta, dopo un'attenta riflessione fu l'unica attuabile: solo all'alba del primo giorno dell'anno.
Paolo viveva nel suo ufficio sei giorni la settimana. Dalla finestra si vedeva solo il muro di un vecchio condominio, sul quale qualche graffitaro si era sbizzarrito in una composizione astratta di buon livello tecnico, ma tutto lì. Nemmeno un albero o una finestra qualunque nella quale sbirciare gesti umani. Sul davanzale appoggiava sovente delle briciole di pane per i passerotti che erano assidui frequentatori di quell'improvvisata mensa. La sola cosa viva, oltre ai suoi colleghi. I suoi colleghi... dopo cinque anni in quel posto non era nemmeno più sicuro che fossero vivi, forse erano finti. Come pure le piante erano finte, verosimili, ma certamente finte.
Marcella, la sua compagna di vita, lavorava in un laboratorio d'estetista. Tentavano assieme di trovare momenti di vita la domenica, ma finivano sempre incolonnati ai caselli autostradali, ai portoni dei musei, nelle tavolate di ristoranti agrituristici fra famigliole schiamazzanti con bambini maleducati e antipatici o sulle spiagge fra giovani e non più giovani impegnati a fare saltare palline, palloni, fresbee o cose d'ogni genere sulle pance dei bagnanti.
"Basta." Sbottò un giorno abbracciato a lei "Qui ci vuole un viaggio esotico, emozionante: un viaggio vero al di fuori da tutto questo. Un viaggio fra culture lontane con forme e odori differenti... e a costi contenuti."
"sì però fra gente allegra e festosa", aggiunse lei. In una parola: Cuba.
L'offerta più economica era alle otto del mattino del primo Gennaio 2000. Così si evitarono il traffico. Avevano prenotato il volo diretto per l'Avana.
Erano passati pochi mesi dalla visita di Papa Giovanni Paolo II nell'isola caraibica, Fidel Castro mostrava il suo nuovo volto internazionale indossando abiti borghesi e girovagando per il mondo impegnato in una nuova campagna diplomatica, volta al rilancio dell'immagine di Cuba.
Sul Malecon dell'Avana si diceva fossero scomparse le prostitute ed era stata avviata una serie di massicce ristrutturazioni del vecchio abitato eletto patrimonio dell'umanità dall'Unesco.
Paolo e Marcella arrivarono all'Avana in un soleggiato e ventilato mattino.
Avevano come riferimento in città un nome e un numero di telefono fornito loro da una coppia di amici che avevano visitato Cuba due anni prima ed erano rimasti molto soddisfatti dell'ospitalità e degli alloggi della signora Rosa.
Marcella non parlava spagnolo e Paolo non conosceva che qualche parola imparata leggendo Tex Willer da ragazzino o ascoltando musica sudamericana, poca cosa, ma si dichiarava sicuro del fatto suo e della sua spigliata dote di comunicatore.
Alessandro, l'operatore dell'agenzia in cui prenotarono il viaggio fornì, oltre ai biglietti aerei, una serie di utili suggerimenti, come salire solo su taxi ufficiali e non privati: si riconoscono dal colore e da una targhetta appiccicata al parabrezza e non si rischiano spiacevoli sorprese.
Appena fuori dal terminal furono subito travolti da uno sciame di tassisti o simili, di tutte le forme e colori. Alcuni vestiti in modo più o meno credibile: taluni sembravano usciti di casa in fretta e furia con la camicia mezza fuori dai pantaloni. Altri con abiti pieni di buchi. Altri ancora in canotta sfoggiavano petti villosi e pance così gonfie da aver paura a farci pressione sopra. La vasta gamma di auto adibite a taxi variava dalla berlina semilusso occidentale o giapponese, fino alle più improbabili e scassate utilitarie dell'est Europa. Ovviamente, immancabili a Cuba, anche le vecchie fuoriserie americane degli anni cinquanta rimaste incastrate là dalla rivoluzione.
I due turisti italiani si liberarono a fatica di quella folla a bracciate come se nuotassero nel catrame fuso. Sulla porta di un ufficio campeggiava il simbolo di un telefono pubblico. Volevano prendere contatto con la signora Rosa poiché non era stato possibile farlo dall'Italia.
La temperatura di Gennaio a Cuba era gradevole, con una leggera brezza fresca che veniva dal mare. Questo non impediva ai cubani di tenere al massimo i loro vecchi e rumorosi condizionatori. L'ufficio telefonico era cella frigorifera. All'interno, una grassa signora di colore con la divisa dell'aeroporto, senza staccare gli occhi dalla sua lettura, indicò il telefono appeso in un angolo.
Battendo i denti per il freddo Paolo componeva il numero mentre Marcella sorreggeva il notes con il numero bene in vista e le valigie strette fra le gambe.
"Pronto? Senora Rosa? Jo quiero afitar..." Paolo scoprì subito che il suo spagnolo era molto al di sotto delle sue aspettative e dopo alcuni minuti di tentata conversazione, con i gettoni che cadevano a pioggia, l'unica cosa che gli riuscì di ottenere fu un appuntamento presso la sua casa e un indirizzo, ma non capì se c'erano alloggi disponibili. "Ma come, non sapevi un po' di spagnolo?" Obbiettò lei mollandogli un cricco sul naso.
Salutarono la donna in divisa che rispose con un monosillabo gutturale. Si rituffarono nella bolgia dei tassisti. "Taxi amigo?" "Senor un Taxi?" "Taxi!" "Taxi para aqui!" Lui sì aprì una breccia fra la folla, lei non perdeva di vista le valigie.
"Bastaa!" Sbottò con gli occhi di fuori.
Con un'occhiata a ventaglio, Paolo riuscì a identificare un taxi ufficiale. Mostrò un foglietto con su scritto un indirizzo.
Il tassista indicò di seguirlo. A quel punto gli altri colleghi fecero largo brontolando e uno azzardò protestare "C'ero prima io...". Altri si accapigliarono per contendersi il diritto di precedenza.
Caricarono i bagagli e partirono solo dopo aver trattato la cifra del servizio (un altro consiglio utile di Alessandro).
La città distava qualche chilometro. "Da dove venite? Che bella l'Italia! Ho un amico che ci è stato, ho un parente laggiù, Firenze, Roma, Del Piero... " Esordì il tassista.
Chiese loro masticando un italiano scondito se avevano già una camera. Paolo rispose pronto di sì, anche se non era del tutto vero. Il tassista dalla sforzata simpatia insisteva che aveva una camera giusto nelle vicinanze e con una piccola deviazione, compresa nel prezzo potevano vederla.
Vittime della sua insistenza e della stanchezza del lungo volo, accettarono. Si trattava di pochi minuti.
Era nella periferia della città. Finirono in un quartiere di vecchi e trasandati palazzoni condominiali tutti uguali, tutti ugualmente brutti.
Si fermò davanti a uno di quelli. Diede tre colpi di clacson regolari e guardò in alto sporgendosi dal finestrino. Scambiò un labiale con qualcuno alla finestra e cocluse "Bueno."
Invitò i suoi ospiti a scendere dall'auto. I dintorni erano come i palazzoni, brutti e sporchi. Ragazzini vestiti di stracci continuavano a giocare senza toglier loro lo sguardo.
Marcella li fissò con il naso appiccicato al finestrino poi alzò gli occhi ai palazzi avviando in sincrono il sollevar dello sguardo e l'apertura della bocca. "Io in questo schifo non ci entro nemmeno morta" sentenziò incrociando le braccia e assestandosi sulla poltrona con una pressione dei glutei.
Il tassista sorrise impacciato a Paolo e insistette "non bada all'apparenza, amigo."
"Amigo?" S'infastidì lui. Lo seguì mani in tasca masticando alla James Dean.
Sulle scale bivaccavano fossili di sporcizia. I vetri, quando c'erano: erano rotti. Il corrimano: meglio non toccarlo.
Il tassista continuava a guardare Paolo sorridente mentre salivano le scale ondeggiando sul suo grosso culone, sbuffava per l'affanno come una vecchia locomotiva. Sventolandosi col berretto ripeteva "Verà senor que lindo."
Si fermò al secondo piano davanti ad una porta socchiusa, prese fiato e la spinse con la mano.
<Si fece loro incontro una vecchia grassa signora dall'aspetto cadente che rideva troppo. Mostrava una parata dentale da dipendenza da liquirizia.
Apparve dietro di lei un'altra più giovane, forse la figlia, anche lei sorridente, si teneva pudicamente la mano davanti alla bocca: forse per timidezza, pensò Paolo. Era grassa pure lei. Il tassista si comportò da vero padrone di casa, cacciò una gran manata nel fondoschiena della giovane che gli rispose con un sorriso privo di qualche dente, poi guardò Paolo con fare complice, quasi volesse strizzargli l'occhio. Gli mostrarono la camera.
C'era un letto combinato alla meglio con vecchie lenzuola lise sotto una coperta color forse. Stava al centro di una stanza popolata da un'accozzaglia di mobili dall'incerto utilizzo.
La miseria non era solo nell'aria in quella casa ma era scritta in ogni elemento che la componeva.
Era un appartamento umanamente triste. Il luogo ideale in cui ritirarsi prima di togliersi la vita.
Loro s'impegnavano a presentarlo quasi fosse la suite di un grand hotel cercando di evidenziare gli apetti più civettuoli di taluni soprammobili: come un orologio in plastica rossa a forma di cuore con tanto di angioletto armato di arco e freccia, che dondolando da sinistra a destra scandiva i secondi. Oppure un attaccapanni a parete dotato di un piccolo specchio per rimettersi a posto i capelli dopo aver tolto il cappello.
Magnificarono la vista dalla finestra su un cortile simil contenzione...
E sempre continuando a ridere e sorridere a ridere e sorridere quasi fosse certa la risposta. Paolo, ammutolito, cercava dentro di sé un pretesto per uscire da quella situazione... Poi venne il turno del bagno.
Avevano lasciato la luce spenta con un pretesto per non farglielo vedere. La poca illuminazione veniva dalla debole lampadina del corridoio Paolo cercò nella penombra d'identificare il water.
A fianco della tazza c'era un bidone di plastica ricoperto da un patina dai colori violaceo marroni. Serviva da scarico una volta riempito d'acqua.
Il water, crepato alla base, non aveva l'asse e lo smalto che lo ricopriva portava evidente il segno del passaggio degli anni.
Sparsi sul pavimento della stanza mucchietti oscuri di tessuti buttati là, sembravano ratti dormienti.
Appesi ovunque c'erano indumenti più o meno intimi delle padrone di casa.
L'odore che ne usciva era indescrivibile un misto di dolciastro e umanamente stantio, la somma di pessimi deodoranti e... meglio non pensarci. Paolo perse la cognizione della poesia e dei piaceri della vita in meno di un istante. Una vertigine agroacida gli salì dallo stomaco.
Resistette ai conati e guardò con gli occhi inondati di disagio i tre individui che gli stavano di fronte.
La somma di quel luogo, di quelle due donne sciatte che sorridevano e di quel tassista maiale che sfacciatamente ammiccava alla giovane sdentata fu la "cascata" che fece traboccare il vaso.
Scuotendo la testa vomitò una mitragliata di NO NO NO NO.
Prese l'uscita con passo deciso. Il tassista lo guardò sorpreso.
Scese le scale ad ampie falcate trattenendosi dal toccare il corrimano.
Il tassista lo seguiva pesante e goffo ripetendo che se non gli era piaciuta quella camere ne aveva altre da mostrargli.
Al quel punto Paolo s'arrestò. Lo fissò negli occhi severo, gli puntò l'indice e gli ordinò perentorio di portare lui e la sua compagna all'indirizzo concordato, punto e basta.
L'uomo scosse il capo con rassegnazione mettendo le labbra a fischietto ed eseguì.
Continua...
12345
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0