TERZA LUNA.
Si dice che nell'attimo prima di abbandonare questo mondo, la vita intera sfili dinnanzi ai tuoi occhi. Rivedi le menzogne da attore consumato, le comparse nelle esistenze di chi ti sta accanto. Le manie di protagonismo, gli applausi, le espressioni di scherno o biasimo.
E miliardi di istanti compressi e dilatati sulla soglia dell'assurdo. "È impossibile che tu stia morendo davvero", sembra sussurrare basita la tua mente. Poi, eccolo, quell'insistente senso di vuoto che ti attanaglia il petto ti dilania sino a perderti nell'aria.
Quanto tutto ciò fosse vero, il pretuncolo lo imparò quella notte. Nel momento stesso in cui fissò i suoi occhi in quelle iridi ardenti nel buio, capì che il suo soggiorno sulla terra era giunto al termine.
"Dio, perdona i miei peccati..."
La morsa sulla gola si fece meno opprimente. Solo allora il prelato si accorse che qualcosa bloccava le sue labbra tremanti. E che, tuttavia, respirava ancora.
- Zitto.
Parlò una voce nuda e gelida come il duro terreno d'inverno. Un brivido gli si irradiò fino al capo.
Se Dio c'era, se Dio lo amava, che almeno finisse subito. Che non lo lasciasse, lì, a tremare come un agnello senza religione. O che mandasse qualcuno dei suoi arcangeli a liberarlo, a bruciare col fuoco della santità quell'aborto di natura.
E i suoi desideri furono esauditi.
Improvvisamente, una fiammella guizzò nell'oscurità. Ballando, descrisse un ampio raggio di luce, sole nella notte pregna di morte. Rivelò le pareti blande e i mobili spartani, lo scrittoio vuoto e il rosario.
Si posò sull'aborto di natura, sui suoi lunghissimi capelli corvini, sul volto del biancore della neve.
Doveva esserci senz'altro qualcosa di sbagliato. Quello non era un aborto di natura. Era il viso di una giovane donna, di una giovane donna dagli occhi stranamente cangianti.
- Zitto. - ripeté. Gli sollevò una mano dalla bocca, l'altra dalla gola.
Il pretuncolo si tirò su massaggiandosi la gola.
- Chi... - cominciò, osservando la ragazza che gettava uno sguardo fuori dalla finestra.
- Sono? - finì, torchiandolo con lo sguardo rubino.- Io sono l'inferno.
- L'in... ferno?
Annuì, ridendo. Le labbra perfette si curvarono mostrando la dentatura abbagliante. E due canini spaventosamente affilati.
- C... Cosa vuoi?
- Nulla. Io non voglio mai nulla.
- Sei.. stata... tu?
- No - ribatté secca. - È stato lui.
Sul letto del prelato atterrò rimbalzando. Una testa. Le stesse iridi rosse, gli stessi denti acuminati pietrificati.
Al pretuncolo mancò il respiro.
- Come hai fatto?
- È affar mio. Ora, tirati su da quel letto, scampana a festa e di' alle tue pecorelle che il lupo è morto.
- E.. e.. dove vai?- chiese, la paura ormai sciolta dalla luce rosata che alleggeriva la semioscurità.
- Dovunque. Dove vogliono che sia.
Il prete si alzò. - Chi sei, davvero?
- Il mio nome è Krestos.
Vibrò nell'ultimo istante di oscurità, quella parola, poi svanì, andandosene incontro all'alba.