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Acherontia atropos (seconda parte)
A questo pensavo quando risalii in camera e mi spogliai per entrare nel letto. Nonostante fossi stanco morto, trascorsi la notte in uno stato di estrema agitazione. Mi ero addormentato pensando al nonno, così, passando dal dormiveglia al sonno la sua presenza non mi abbandonò. All'alba, quando misi i piedi giù dal letto, sapevo cosa andava fatto. Scesi dabbasso e trattenendo il respiro mi avvicinai al tavolo. In cuor mio speravo che non ci fosse più nulla in mezzo alle pagine. Ma lei era ancora lì. Con un certo ribrezzo la afferrai delicatamente e la avvolsi in una pezzuola che infilai nella tasca della giubba. Nell'altra tasca misi un pezzo di pane e presi dal ripostiglio gli attrezzi da pesca del nonno. Il temporale era passato e il sole stava emergendo dalle nebbie della notte. Attaccai il cavallo al calesse e mi diressi verso il fiume. Il livello dell'acqua era salito e la corrente vorticosa trasportava detriti di ogni genere. Così dovevano averlo visto i miei per l'ultima volta. Assicurai il cavallo ad una pianta e mi diressi verso un'insenatura dove il fiume formava un larga e profonda pozza. Era quello il posto dove il nonno era solito pescare. Mi portava con sé e io mi accoccolavo sulla riva e lo osservavo senza parlare. "Non bisogna farsi sentire dai pesci" e io, obbediente, lo ammiravo muto mentre manovrava con destrezza la sua lunga canna. Aveva però smesso, dopo la disgrazia. "Il fiume non è più mio amico", diceva. Estrassi dalla tasca la pezzuola con l'insetto. Apertala, trafissi il corpo della sfinge con l'amo più grosso che trovai nella cassetta delle lenze. Non la toccai però, la tenni attraverso la stoffa, per paura che mi contaminasse. Armai la canna da pesca. Non sono mai stato molto abile nei lanci, ma oggi c'era qualcuno che guidava il mio braccio. L'esca compì un lungo arco e finì al centro della pozza. Rimase a pelo d'acqua qualche istante, poi scomparve in un ribollio di flutti. La tensione spasmodica del filo e l'energico strattone alla canna mi fecero capire che avrei dovuto lottare a lungo con quel pesce. Alla fine, con le mani segnate e la fronte imperlata di sudore, potei contemplare la lucente preda che si dibatteva sulla ghiaia della riva. Era veramente un gran bel pesce: un luccio di notevole peso. Era il più grosso che vedevo in vita mia. Lo finii con il mio coltello a serramanico e lo avvolsi in uno straccio bagnato. Prima lo liberai dalle interiora, conservando però cuore, fegato e sacco del fiele, che misi in quella stessa pezzuola che aveva contenuto la sfinge. Riposi tutto sul calesse e mi diressi in paese. Mi sentivo più leggero e fiducioso, tanto che mi misi a canticchiare sommessamente. Smisi quando fui di fronte al camposanto. Quel luogo conservava i ricordi e i rimpianti di tutta la mia vita presente. Mi fermai davanti alla pietra con il nome del nonno. L'aveva trovata arando un campo e durante lunghe sere d'inverno vi aveva inciso il suo nome. Senza date, niente. "La nascita e la morte non sono ne' un principio ne' una fine", mi disse. Mi inginocchiai sulla tomba e con il coltello scavai in profondità nella terra resa molle dalla pioggia Mi fermai quando sentii il legno della cassa: vi deposi il sacchetto del fiele, il cuore e il fegato del pesce. Richiusi con cura la buca. Risalendo sul calesse gettai un'occhiata all'involto che conteneva il pesce. Il camposanto si trovava appena fuori dal paese. Rammentavo che mia madre mi portava con sè in visita ad una delle ultime case. C'era una specie di ospizio per vecchi, poche persone che non avevano più nessuno, curate da una brava donna. Kate, mi pare si chiamasse. Le portava sempre qualcosa dalla fattoria. Quando raggiunsi la casa, fermai il calesse in strada, presi il pesce e mi diressi sul retro. Vi era un cortile, da cui si entrava nella cucina. Era lì che un tempo lasciavamo le provviste. C'era una ragazza dai capelli rossi che stendeva i panni al sole. "Cerco Kate- le dissi- ho portato questo per voi." "È morta l'anno scorso, era mia madre - mi scrutò intensamente - ma tu sei Toby? Non mi riconosci? Sono Sara!" Era passato parecchio tempo, ma poi ricordai quella bambina buffa con le treccine, il nasino all'insù e il volto picchiettato di efelidi con cui giocavo mentre mia madre sbrigava le sue faccende in paese. Le consegnai il pesce. Andò a riporlo in cucina, poi tornò da me in cortile e mi prese entrambe le mani, stringendole forte senza dire nulla.
È passato del tempo e io ho continuato a lavorare duro nei campi. A volte è andata bene, a volte meno bene. La vita della fattoria è sempre stata così. Stanotte ho nuovamente sognato il nonno. Era da allora che non succedeva più. Il suo corpo era ben dritto e gli occhi chiari sfavillavano di luce. Mi tendeva le mani, le lunghe dita distese. Sembrava cercasse di abbracciarmi, ma poi è svanito senza dirmi niente. Io ho capito lo stesso. L'amore non ha bisogno di parole. Mi sono svegliato. Non era ancora mattina e una piccola luce rischiarava l'altra parte del letto. In silenzio sono stato ad osservare Sara che allattava al seno la creaturina dai capelli rossi che porta il nome del nonno.
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