Prologo
Al tempo in cui si svolgono i fatti appresso narrati, una periferia romana dei primi anni cinquanta del secolo scorso, la popolazione di sesso maschile, dimorante nella città eterna, indossava due tipologie di pantaloni, corti, da bambino, fino alla pubertà e poi, lunghi da grande, fino alla tomba. C'era, ancora, un terzo tipo di pantalone, detto alla zuava, che veniva indossato dagli adulti in occasioni particolari, prevalentemente sportive, e dai ragazzi non più bambini ma non ancora abbastanza grandi, come una sorta di intermezzo tra quelli corti e quelli lunghi. Questi pantaloni, furono, proprio in quegli anni, soppiantati dai blue jeans, pantaloni ribelli di provenienza americana che si accompagnavano al rock che si andava affermando, come il pane con il burro e la marmellata.
Capitolo I
Quella mattina Mario ce la stava mettendo proprio tutta, le note della fanfara dei bersaglieri salivano dal cortile con il loro ritornello: "taratà tà tà".
Apro la finestra e grido: "Arrivo!" Mario, soprannominato Caccola, continuava, però, imperterrito a fischiare il passo di carica, finché non lo raggiunsi in strada.
Ci avviammo svelti. Frequentiamo entrambi la quinta classe nella vicina scuola elementare delle suore. Per strada incontriamo altri ragazzi che indossano la nostra divisa, il grembiule nero ed il colletto bianco. Poco più avanti, si affannano Emidio e il fratello Claudio, superiamo Franca e Nadia che, come al solito, chiacchierano tra loro fittamente, senza nemmeno respirare e arriviamo, finalmente, nel viale della scuola, mentre la campanella comincia a trillare. In classe, la maestra ci accoglie con un'occhiataccia prima di iniziare la preghiera.
Caccola, nell'intervallo, ci racconta di aver incontrato, il giorno prima, Tex, il capo della banda rivale che si riunisce di là della piazza, che ci sfida in una gara di formula uno, intimandoci, per non perdere tempo, di dichiararci vinti a tavolino.
Max, il capo, commenta che loro hanno le macchine più veloci e la gara è pure pericolosa, si tratta di lanciarci giù per la via del colle, che, come ricorda il nome, scende ripida dalla collina e con un ampio curvone s'immette nel viale affollato di auto, inoltre le nostre monoposto sono da riparare, se accettiamo la sconfitta ci classifichiamo secondi che è un buon risultato, è una medaglia d'argento.
"Ma che cavolo dici, secondi significa ultimi e ci facciamo pure la figura dei cacasotto", interrompo, alzando la voce, "dobbiamo batterci". "Hai ragione! Giulio, cosa credevi che io dicessi sul serio?" Replica Max, dopo un attimo di esitazione, "volevo metterti alla prova, non si può abbandonare senza combattere. Ti nomino capo della gara e tu", indicando Caccola, "vai da Tex a dirgli che la vittoria se la può giusto sognare perché noi vinceremo".
Il locale dello zio di Pino era molto spazioso, appese al muro su assi di legno riposavano le nostre auto nell'attesa del bel tempo, ad una prima verifica sembravano in condizioni migliori del previsto, due erano soltanto da pulire ed ingrassare e la terza, il muletto, da riparare dopo che era finito contro il bordo di un marciapiede che aveva piegato il perno dello sterzo e danneggiato la ruota anteriore.
Incaricai Pino di trovare da suo zio il perno e la ruota. Le nostre "formula uno" erano degli slittini con ruote basse, di forma triangolare, sul cui vertice anteriore era assicurato, per mezzo di un perno, il volante, formato da una barra orizzontale montata su una ruota.
Il pilota guidava sdraiato sulla pancia impugnando la barra di guida mentre con il piede destro azionava il freno, un asse posteriore, trattenuto da una molla, che, pigiato, produceva attrito sulle gomme.
L'auto, alla partenza, doveva essere spinta da un compagno robusto, per acquistare velocità, poi la pendenza e la bravura del pilota facevano il resto.
Chiesi a Pino di portare anche un barattolo di vernice rossa per colorare a nuovo le nostre Ferrari.
Giunse maggio e le suore, organizzarono una imponente processione in onore della Madonna cui avrebbero partecipato il Vescovo, autorità civili e politici d'area cattolica.
Gli alunni, in divisa, aprivano la sfilata, le ragazze coprivano il capo con fazzoletti bianchi e sembravano delle novizie. Suor Blandina che marciava loro accanto, le aveva avvertite di tenere gli occhi bassi, di stare unite e, soprattutto, di non guardare gli atei, sulla cui identità non volle dare altre spiegazioni. Sapevamo, però, che la processione sarebbe passata due volte davanti alla locale sede comunista che trovammo presidiata da una lunga fila di camionette della "Celere".
Il primo passaggio avvenne al canto di "Noi vogliam Dio che è il nostro re", gli spettatori risposero con fischi e intonarono: "Avanti popolo", il secondo, alla fine della cerimonia, quando eravamo ormai stanchi ed affamati, al canto di "Avé avemo fame". La suora più vicina cercava di coprire gridando a tutto volume "Mariaa" mentre i rossi sghignazzavano.
Entrammo in chiesa per la messa con le suore schierate in difesa delle pecorelle di sesso femminile, mentre noi maschi eravamo invece sui lati della navata. Mi ritrovai con alcuni compagni dietro una colonna. Cominciammo a spiare i presenti e ci prese la ridarella finché non fummo zittiti, poi, in preda alla noia, cominciammo ad imitare il sacerdote celebrante. Quando si giunse all'elevazione, mentre io fingevo di alzare il calice e Pino, da retro, manteneva sollevato il mio grembiule, fummo aggrediti a cordonate da una suora inviperita che ci rincorse fino all'uscita, fra i lazzi dei presenti.
La settimana successiva pioveva e i tuoni rotolavano tra le nuvole con colpi sordi. In classe era buio e faceva freddo, le gambe, lasciate scoperte dai pantaloni corti, inguinali, erano diventate rosse peperone. Caccola racconta che Tex ha accettato la sfida e propone di gareggiare la prossima domenica alle nove del mattino, quando il traffico è minore. Accettiamo, le nostre auto sono pronte, verniciate di rosso con i numeri bianchi sui lati.
La mattina convenuta, il cielo era ancora nuvoloso ma aveva smesso di piovere. Eravamo tutti sulla collina, Tex e Max controllano il percorso, ispezionano le macchine, Tex dice che lui e Marco guideranno le loro Maserati, Giulio ed Emidio le nostre Ferrari, risponde Max, l'altro chiede come mai lui non gareggi, poi, con i suoi, intona l'inno: "chi sfugge la lotta è un gran figlio di mignotta!"
Sospinti dai compagni, al "via!" Di Max, partiamo di gran carriera, raggiungiamo l'inizio della discesa e nel momento in cui perdiamo il contatto con quelli che spingono, ci appiattiamo sulla vettura cercando di superare gli avversari.
Precipitiamo a valle, velocissimi, lungo gli archi dell'antico acquedotto, storditi dal fischio delle ruote e sballottati dalle asperità della strada lastricata a pavé.
All'inizio della curva infilo Tex sulla destra e lo supero, Emidio piega largo e si rovescia a causa di una buca piena d'acqua che spezza il perno dello sterzo, io, invece, superato il curvone, punto dritto verso il traguardo, ma, all'improvviso, trovo la strada sbarrata da un camion che sta attraversando, mi appiattisco e ci passo sotto e sfilo proprio tra le ruote posteriori e un secchio appeso ad una catena.
Arrivo primo, davanti alle auto di Tex e di Marco. Loro protestano perché non dovevo passare sotto il camion, la gara deve essere ripetuta, secondo noi, invece, è chiaro che la gara è stata vinta almeno per due motivi, uno perché sono arrivato primo e due perché sono stato il più coraggioso. Torniamo a casa cantando: "avemo vinto".
Parlammo per giorni della gara, Max era orgoglioso di noi e raccontava che la vittoria era tutta merito suo, lui era riuscito a fare di noi dei piloti invincibili come Ascari e una banda temuta come quella di Jessy James.
Per festeggiare decise un safari, una caccia alla tigre del Bengala. Bisognava colpire Rosso, una belva di almeno dieci chili, terrore di tutti i gatti del vicinato che impazzivano dietro le femmine che in quei giorni erano in calore.
"Ma le donne quando vanno in calore?" domandò Pino. "A te che t'importa, visto che sei frocio, risponde Max, tu non puoi andare in calore, devi prima farti operare e adesso, ci fai vedere subito come piscia una femmina in calore".
Pino muove il culo e comincia a miagolare, poi sbottona i pantaloni e sempre ancheggiando, si china e, tenendo ben celato il sesso tra le cosce, orina a lungo nell'erba. Bruno dice che gli scappa pure a lui e subito anche agli altri che cominciano a battere i piedi per terra. "Oggi la faccio più lontana io", dice Max, ma Mario, invece, batte tutti e per secondo mi piazzo io. "Controlla se non ti sei bagnato i piedi" canzona Mario, "Bravo sfotti perché a me non scappava" risponde Max, "ti faccio vedere la prossima volta dove arrivo".
Nel cortile i gatti miagolavano in coro, per primo intona Grigione, che sembra un bambino, poi si aggiunge Nerone che copre il primo e a quel punto si unisce Rosso con un vocione che zittisce tutti. Accovacciati dietro un muretto carichiamo le fionde con biglie di vetro e cerchiamo di individuare la posizione di Rosso nascosto nell'ombra, poi, sentiamo il suo ruggito di battaglia e il fuggi, fuggi degli avversari, finalmente esce allo scoperto in direzione di Bianchina, che lo provoca alzando la coda e strusciandosi contro un palo del telefono.
Max bisbiglia di attendere che il gatto prenda prima la femmina e poi lo fulminiamo.
Rosso si getta sulla gatta che si sottrae e, mentre lui si pone in difensiva con le orecchie basse, Bianchina ricomincia a provocare. Di nuovo, il gatto si getta avanti e questa volta la gatta non si ribella e lascia che i denti del maschio l'afferrino sulla nuca. Il gatto trionfante, inarca la schiena e, soffiando, cerca di salire sulla gatta che mantiene asservita con i denti.
Prendiamo con cura la mira e lanciamo all'unisono. Rosso, colpito alla testa, crolla, lasciando la presa, Bianchina, raggiunta al fianco da un colpo, fugge con un grido. In un attimo, tutti i gatti si volatilizzano, noi corriamo per prendere Rosso che giace inanimato, Max ordina a Pino di legare bene il gatto che sarà portato all'albero della tortura.
Ci avviciniamo con cautela, con le armi cariche, ma, mentre Pino cerca di girare una fune attorno alle zampe posteriori della bestia, questa si riprende e spicca un salto portentoso e in un attimo è lontana inseguita dal nostro tiro che finisce nel vuoto.
Max ordina di cessare il fuoco, "torneremo e per lui sarà la fine", commenta.
Capitolo II
Gli anni passarono in fretta e la divisa delle suore divenne un ricordo, noi maschi, finalmente coprivamo le gambe con pantaloni alla zuava e calzettoni a quadri, le ragazze, invece, erano sempre uguali, indossavano ancora il grembiule e si capiva che erano cresciute soltanto dal giro fianchi e soprattutto dal rigonfio dei seni.
Frequentavo l'ultimo anno presso la locale scuola media statale e mi preparavo ad affrontare l'incubo, ormai incombente, degli esami.
Le aule della nostra scuola erano rigidamente divise per sesso e classe e anche gli ingressi esterni erano separati, quello dei maschi dal portone centrale e le femmine nel vicino vicolo.
Correvo, come tutte le mattine, per assistere all'entrata delle alunne, che avviene con un anticipo di dieci minuti dalla nostra. Spero di incontrare Nadia, è bionda, alta e magra, ha incantevoli occhi blu, non degna nessuno di uno sguardo, a me, però, piace un sacco e qualche volta ci siamo anche parlati
Lungo la via ci raggiunge Emidio che frequenta ancora la seconda perché ripetente, e Pino, soprannominato Pinocchio, oramai dichiarato omosessuale, suo vicino di banco. Emidio è cotto per Italia, sorella di Nadia che frequenta, dalle suore, la prima classe delle magistrali, è alta come la sorella, però castana con gli occhi scuri e con due belle tette. Ci affrettiamo perché è tardi.
Nadia è là, in mezzo alle compagne e sta ridendo, si china per tendere meglio le calze e, in quell'attimo, colgo, come il riverbero di un lampo, il suo sguardo proprio mentre lei s'incammina indolente, sospinta dal chiacchierio delle compagne.
Indossa un cappotto blu che lascia intravedere il colletto bianco del grembiule, ha i capelli biondi, raccolti in due trecce, sotto un basco rosso e blu come le calze.
Ci spingiamo verso l'ingresso principale dove Massimo, detto Max, ci attende, adagiato contro il muro della tabaccheria, fumando una "Camel" accanto a Bruno.
Sono entrambi ripetenti, Bruno indossa jeans e un giubbotto di pelle Max, invece, un cappotto di loden e calzettoni che lasciano indovinare la divisa di "boy scout". È biondo, ha i capelli un po' lunghi, pettinati con la riga.
Ci avviciniamo, lui ci punta di tre quarti, come fanno al cinema, lasciando spiovere i capelli da un lato, poi, sbuffando anelli di fumo, ci avverte che in pomeriggio è convocato il comitato per discutere delle prossime feste e dei botti di capo d'anno.
Mi chiede se ho visto Nadia, rispondo di no, lui approva e dice di lasciarla stare che le femmine sono stupide e stanno bene tra loro mentre noi dobbiamo essere pronti a fare la guerra.
Il suono della campanella ci spinge in classe.
La casa di Max si trova dentro un complesso di fabbricati delle Ferrovie, scendo le scale della cantina e busso alla porta, due colpi con le nocche e due di taglio, apre Bruno, poco dopo entra Pinocchio. "Bene, ora che è arrivata anche la signorina, ci siamo tutti", dice Max, "possiamo iniziare".
Attorno ad un vecchio tavolo, sediamo su cassette di legno della frutta. "Tra pochi giorni è capodanno, dobbiamo cominciare a preparare i botti che devono essere pronti prima di Natale, perché durante le feste c'è casino e sarà difficile vederci", ci dice Max, seduto in bilico contro il muro, il cappello rotondo un po' inclinato indietro, come lo portava James Dean, e la sigaretta in bocca. Ha il fazzoletto annodato attorno al collo e indossa i pantaloni corti della divisa.
Con aria sicura impartisce gli ordini: "Tu, Giulio", cioè io, "andrai a prendere con Mario il carburo alla centrale elettrica. Tu Bruno ti procuri dei tric-trac che ci servono per estrarre la polvere, Pino invece si fa dare da suo zio, l'idraulico, dei tubetti, per fare le chiavi esplosive, va bene Pinocchio? Se farai le cose per bene ti farò contento", conclude Max strizzando l'occhio. "Cosa mi vuoi fare?" chiede Pino, allarmato, "vedremo, tutto dipende se mi verrà duro", risponde il capo. "Adesso andiamo tutti a pisciare, perché chi non piscia in compagnia è un ladro o una spia".
"Facciamo a chi arriva più lontano", propone Bruno."Va bene", risponde Max, "però Pinocchio la farà come le femmine e deve nascondere bene il pisellino!"
Nel corridoio Pino arrotola pantaloni e mutande all'altezza delle ginocchia mantenendo serrato tra le cosce il sesso, mostra agli amici il boschetto del pube e scuote il sedere come immagina debbano fare le ragazze. Mentre noi ridiamo, lui si accovaccia. "Dai! La devi fare uscire dal culo", grida Max, "come le femmine". Pino preme l'uccello tra le gambe, rivolto indietro e lascia fuoriuscire uno schizzo d'orina sul pavimento. "Alza il culo", ordina Max, "schizza contro il muro".
Pino ubbidiente, solleva le natiche paffute e zampilla a lungo, poi si solleva e mantenendo l'uccello nascosto, si ricopre ancheggiando. Max applaude e, poi, sporgendo le labbra lo bacia sulla bocca, stringendolo alla nuca, noi gridiamo:
"Che schifo!" Bruno vince la gara, pisciando più lontano di tutti. "Come fai?" gli chiede Max, "è facile, lo scappello un poco e lo stringo, così arriva più lontano", risponde.
Di ritorno, faccio il giro lungo per passare sotto casa di Nadia, nella speranza di vederla giocare nel cortile. Lei non c'è, scorgo invece la sua amica Franca che gira sui pattini. Mi avvicino e lei comincia a fare la diva del ghiaccio, piroetta su se stessa raccolta ad uovo, poi inizia una fuga all'indietro seguita da un salto che le scopre le cosce. Mentre sfila lenta facendo l'angelo, la saluto, lei risponde, "ciao". "Sei sola?" le chiedo. "Non lo vedi?" risponde, "vuoi fare un giro? Ho i pattini di mio fratello". "Va bene, solo un giro che devo andare a fare i compiti, devo tradurre cinquanta frasi in latino e dovrei risolvere anche un problema, studiare storia e altro". "Anch'io sono messa male, posso stare ancora mezz'ora".
Infilati i pattini, cominciammo a girare, lei era più brava e ci teneva a dimostrarlo.
Eseguì una serie di figure tutte difficili e, sull'ultimo salto, scivolò, rotolando sul cemento. "Ti sei fatta male?" chiedo, aiutandola a sollevarsi. "Qualche graffio" dice lei ansante, scoprendo il ginocchio che sanguina.
Le tampono la ferita con il fazzoletto ed estraggo una scheggia di vetro poi, la guardo e, improvvisamente, mi trovo a fissare, fra le sue gambe, le mutandine di color rosa che, sul pube, s'increspano, aderendo a forme che cerco di indovinare. Lei avverte lo sguardo e subito chiude le gambe e mi fissa ed io, muto, affondo nei suoi occhi.
Recuperai la voce per dirle di disinfettarsi e coprire con un cerotto e, mentre le parlo, mi rendo conto quanto Francesca sia carina. Ha le trecce castane, gli occhi neri attenti e i denti che brillano come perle attraverso le labbra rosse che tiene socchiuse in un'espressione di dolore. Indossa una gonna a quadri, calzettoni e un golfino che evidenzia la vita sottile e i fianchi morbidi.
La sorreggo mentre si toglie i pattini e avverto la pressione dei seni, duri sulla mano. Lei raccoglie il cappotto che aveva appoggiato su una ringhiera, lo indossa e mi saluta. "Ciao! Grazie dell'aiuto, puoi tornare quando vuoi, mi faresti piacere, e, poi, t'insegno a cadere". Ride e corre via.
Strada facendo, continuo a pensare a lei avvertendo un dolore allo stomaco. La sera mi riesce difficile prendere sonno, la mente troppo occupata a ricordare il suo sorriso, le labbra rosse, la rotondità del seno e il rilievo tra le gambe su cui aderiva il tessuto.
Sabato nel tardo pomeriggio, al buio, raggiungiamo la centrale elettrica, da dove ci giunge nitido il ronzio dell'alta tensione. Dobbiamo avvicinarci alla montagnola delle scorie, che, illuminata dalla luna, s'intravede biancastra sul lato esterno del recinto. Solleviamo la rete attenti a non fare rumore, per evitare che ci senta il cane, una lupa di pelo nero di nome Fiamma che dorme nella sua cuccia.
Superiamo la barriera, ben appiattiti sul terreno, e raggiungiamo la collinetta che fortunatamente ci nasconde dal cane. Raccogliamo svelti alcuni pezzi di carburo ancora attivi, a giudicare dal tatto e dall'odore, e torniamo alla recinzione, proprio mentre Fiamma, fuori della cuccia, ci fissa con occhi di fuoco, superiamo la barriera di slancio e ci allontaniamo di gran carriera, inseguiti dai latrati della belva.
Al covo Max si congratula dell'azione compiuta e chiede particolari sul cane. "È stato facile!" rispondiamo, "è bastato grattarlo sulla testa e subito c'è diventato amico".
"Davvero? Mi sembra impossibile che il cagnaccio non vi abbia morso, siete stati fortunati che non c'era, altro che carezze. Andiamo allora a provare se il carburo fa gas sufficiente per provocare un bel botto".
Nel lavatoio, un locale ampio con una grossa vasca centrale che in passato era usato per fare il bucato, appoggiamo sul bordo un recipiente contenente un po' d'acqua nel quale poniamo un barattolo privato del fondo, forato sul lato superiore e sigillato con un pezzetto di carta.
Mario introduce nel recipiente una scheggia di carburo che, a contatto dell'acqua, sprigiona gas che in breve satura il barattolo. Pino avvicina una fiamma alla carta e il gas esplode, con una forte deflagrazione che spara il barattolo contro la volta che lo rimbalza dritto contro la schiena di Pino.
"Anche i muri sanno che sei finocchio", lo canzona Max, "adesso ci fai vedere come pisciano le femmine", "ma a me non scappa", frigna Pino, "come? Alle femmine scappa sempre, sforzati!".
Accovacciato riesce a farne un po'. "Adesso vieni qua e per festeggiare Natale me lo fai venire duro", ordina Max, seduto sul bordo della vasca. Pino si accosta e lo accarezza sulla patta dei calzoni, "ma è già duro!" esclama, "sono stato io?" "Sarai mica matto", replica l'altro, "io ce l'ho duro per i fatti miei. Anche gli altri eccitati tirano fuori le armi e cominciano a masturbarsi.
"Dai vediamo chi viene prima", dice Bruno e Mario pronto: "Io ho già fatto!" Max allontana Pino, "faccio da solo che è meglio".
Più tardi attorno al tavolo, fumiamo sigarette e beviamo una bottiglia di vermouth, Max propone di incontrarci il 27 dopo Natale per preparare le chiavi.
In chiesa, la notte di Natale, mi avvicino al banco delle ragazze che bisbigliano fra loro, Franca appena mi vede sussurra qualcosa all'orecchio di Nadia, che mi lancia un'occhiata, Italia sorride ad Emidio. Con aria distratta, mi appoggio alla colonna vicina al banco dove, inginocchiate, sembrano assorte in preghiera.
Hanno i capelli coperti sotto ampi fazzoletti annodati sotto la gola e Franca, mentre aggiusta il suo, sorride e mi saluta con la mano. Emidio, invece, coraggiosamente si siede accanto ad Italia e, quando cantiamo: "Tu scendi dalle stelle", le prende la mano, trattenendola fino alla fine della messa.
Il giorno dopo, Santo Stefano, ci rechiamo nel cortile con i pattini. Nadia si complimenta con me affermando che sono diventato bravo, Franca, invece, ci mostra un nuovo tipo di frenata che vuole insegnarci.
Il buio ci coglie, mentre giriamo veloci. Saliamo in casa di Franca a giocare a dama, la nonna che ascolta la radio ci prega di non fare rumore. Giochiamo seduti sul pavimento della sua cameretta, Italia si lamenta che perde sempre, prendiamo
le carte ed io propongo che chi vince imponga una penitenza agli sconfitti, Italia ed Emidio preferiscono guardare i fumetti. Io vinco il primo giro e chiedo alle ragazze di tirare a turno l'una i capelli dell'altra. La prima tocca con cautela i capelli biondi di Nadia che quel giorno è pettinata con la coda, che, a sua volta, strattona invece violentemente le trecce di Franca con entrambe le mani. Il gioco successivo è vinto da Nadia che comanda che io dia un bacio a Franca e quest'ultima mi restituisca un ceffone. Poi, vinco di nuovo e impongo che a turno una sculacci l'altra per tre volte. Si percuotono violentemente alzando una nuvola di polvere, "la prossima volta sarà meglio scoprire il sedere", propongo io. "Bravo furbo", risponde Franca, "sono certa che ti piacerebbe".
"È tardi", dice Nadia, "dobbiamo andare a casa" e chiama la sorella. "Anche noi dobbiamo andare" e salutiamo.
La sera ci trovammo al covo. Bruno ha portato i tric-trac e Pino i tubetti metallici e i relativi perni di chiusura. Bruno taglia gli involucri di carta e raccoglie la polvere in un contenitore, Pino, invece, ne introduce una dose in un tubetto che sigilla con una pallina di carta stagnola ben pressata. Decidiamo di fare una prova per verificare la carica. Andiamo nella sala grande del lavatoio e Max comanda a Mario di esplodere un colpo.
Inserito il perno che deve battere sulla stagnola, dentro il tubetto, Mario unisce le due parti ai capi di una funicella e poi rotea in alto l'arma, abbattendola contro il bordo della vasca. Esplode un colpo tremendo che rimbomba lungo le alte volte dello scantinato, il tubo si squarcia con una fiammata rimbalzando contro il soffitto. Max, terreo, ci rimprovera di aver caricato troppo e ordina di diminuire la dose di polvere. Torniamo nel covo e prepariamo venti chiavi.
Il trentuno, ultimo dell'anno, nel tardo pomeriggio, c'incontrammo sulla montagnola dove avevamo allestito la rampa di lancio.
"Salutiamo l'anno che se ne va con una scarica di Katiuscia", arringa Max, "al mio ordine facciamo fuoco, Mario, sei pronto? Fuoco!" I barattoli volano, uno dopo l'altro, verso il cielo con forti boati. Max ordina poi di esplodere le chiavi. Ne scoppiamo quattro all'unisono e poi altre quattro, il rumore è così forte che si aprono alcune finestre delle abitazioni lontane e una signora urla di chiamare i carabinieri. Ci dividiamo le chiavi superstiti e scappiamo a casa.
A casa, dopo cena, ci prepariamo a festeggiare il nuovo anno, mamma ha allineato i bicchieri e lo spumante, scartato il panettone e i datteri, riempito il cestino di frutta secca. Papà ha già caricato la rivoltella e fatica a tenere lontano mio fratello che vuole assolutamente impugnarla. Io chiedo di sparare un colpo e al suo rifiuto gli ricordo che me l'aveva promesso l'anno passato, lui promette per il prossimo.
"Dai", gli chiedo, "fammi sentire quanto è pesante", lui me la porge ricordandomi di non puntarla contro le persone, io, invece, la volgo immediatamente in direzione di mio fratello e faccio "bang, bang, sei morto!"
Verso mezzanotte la città sembrava ribollire, colpi di cannone echeggiano tra le case, la mitraglia subito risponde rabbiosa, poi ci sono i colpi isolati dei cecchini, razzi colorati si avventano verso il cielo.
Papà raccomanda di non affacciarsi dalla finestra perché è pericoloso. In quel momento la radio inizia il conteggio alla rovescia, dieci, nove, otto, mio padre toglie la sicura e porta il colpo in canna, prende di mira il lampione all'angolo, quattro, tre, apre il fuoco in anticipo, sparando due colpi contro l'anno vecchio, come per risposta, dalla finestra vicina due canne fanno fuoco e il lampione scoppia colpito da una rosa di pallettoni. "Bastardo!" impreca mio padre facendo fuoco a ripetizione contro l'altro lampione che centra al terzo colpo, il fucile completa l'opera vomitando una grandine di piombo.
Apriamo lo spumante e il tappo rimbalza contro la parete. Suonano i vicini per gli auguri, portano dei dischi per ballare.
L'euforia del momento m'infonde coraggio, telefono a Franca, mi risponde qualcuno che me la passa, schiarisco la voce e dico: "Auguri! Come stai?" "Grazie", risponde, "ci speravo, stavo pensando a te, sei stato proprio carino". "Ci vediamo domani?" azzardo. "Non posso, vado a pranzo dagli zii, però ci possiamo vedere dopodomani", "va bene", balbetto, "allora buon anno e a presto" "e un bacio", lei sussurra, e chiude. Poggio la cornetta bagnata di sudore.
Il mattino del primo dell'anno vado con Mario a raccogliere i petardi inesplosi.
Percorriamo le vie invase dai rifiuti. Troviamo vecchi lavandini, piatti rotti, un giradischi e qua e là razzi caduti dal cielo inesplosi, tric-trac e petardi anneriti. Ne raccogliamo una decina ancora buoni che trasportiamo nel covo per estrarre la polvere.
Il giorno seguente corro da Franca, ma nel cortile non la vedo, in compenso Nadia e sua sorella s'inseguono sui pattini. "Franca non c'è?" Chiedo. Lei, con aria dispiaciuta, m'informa che è ammalata, "che le è successo?". "Ha preso freddo la sera di capodanno", risponde, "puoi rimanere con noi, se vuoi e più tardi andiamo a trovarla". Nel frattempo arriva anche Emidio. Pattiniamo un po', poi Nadia si ferma perché è stanca. Ci sediamo su un muretto mentre gli altri si allontanano rincorrendosi. Lei mi chiede se sono fidanzato, io rispondo di no e lei, guardandomi fisso con i suoi occhi color del mare, scuote la testa e afferma che non è vero, ma, se non voglio parlare della cosa sono fatti miei. Italia nel frattempo chiama perché la mamma le vuole. Anche Emidio deve rincasare. Io, invece, salgo da Franca.
Mi apre la nonna, mentre lei chiama dalla sua camera di andare di là. Mi saluta dal letto, è pallida e ha gli occhi lucidi. Mi chiede di sedere accanto a lei. "Come ti senti?" chiedo, "ho la febbre e il mal di gola".
Le prendo la mano, è calda, mi chino e ci baciamo, lei mi fa sentire la lingua e cerca di forzarmi le labbra.
La nonna dall'altra camera, chiede se vogliamo il the, poi m'invita ad andare via perché Franca deve riposare.
Giunto a casa, mi precipito in bagno per dare sfogo alla voglia. A cena non ho fame e sento male alla testa. Il mattino successivo mi svegliai con la febbre.
Il dottore, chiamato con urgenza al mio capezzale, scrutandomi la gola scuote la testa, poi prescrive una scatola di antibiotici da somministrare mattino e sera.
Al telefono confesso a Franca di condividere la sua malattia che, dico, ci unisce, lei sussurra parole dolci e manda baci.
Ero impegnato nella lettura di Pecos Bill, quando mia madre mi avvertì che di là c'era Max, lui saluta dalla porta, "ciao!" dice, "non mi avvicino per non ammalarmi, ce la fai a tornare a scuola domani?" "Penso di sì", rispondo, "non ho più febbre e la gola è guarita". "Allora nel pomeriggio ci vediamo al covo, ora devo proprio scappare perché la signora mi ha chiesto di accompagnarla per compere e non posso evitarlo".
"Mi dispiace che tu non abbia un buon rapporto con tua madre", interviene mamma. "Lei non è mia madre, mamma è morta", risponde lui. "Scusa, non volevo dispiacerti", riprese mia madre, "ma questa donna è sposata con tuo padre e tu le devi rispetto e poi, sono certa, che lei ti vuole bene e vuole aiutarti". "No lei mi odia e cerca di mettermi contro mio padre. Lei, per sua fortuna, non la conosce e quindi non può giudicare, però la ringrazio dell'attenzione". Poi rivolto verso di me, saluta, portando la mano tesa alla fronte ed esce.
Bruno propose di sfidare la banda di Tex alla gara di lippa, che si svolgeva, solitamente in quel periodo su uno sterrato lontano dalle abitazioni.
Tex accettò e al solito ci chiese di riconoscere subito la nostra sconfitta per evitare, in caso di vittoria sul campo, d'essere anche picchiati, noi rispondemmo che di sicuro avremmo vinto e a prenderle sarebbero stati loro.
Ci mettemmo al lavoro di buona lena e in pochi giorni preparammo gli attrezzi, segando il manico di scope e scopettoni di casa tra schiaffi ed improperi delle mamme. Il gioco consisteva nel far saltare con un colpo deciso un legnetto appuntito, nelle due estremità e quindi percuoterlo al volo con forza e precisione, per mandarlo il più lontano nella direzione prescelta dal direttore di gara.
Il giorno stabilito ci ritrovammo tutti sulla spianata. Un campetto di terra battuta, in cima ad una collina, utilizzato per giocare al calcio.
Nel cielo si rincorrevano le rondini e in distanza, nella foschia si stagliavano, come giganti pietrificati, i palazzoni di Cinecittà.
Con noi, erano presenti anche Franca, Italia, Nadia e una loro amica di nome Matilde. Max, irritato, lamentava che le ragazze portano male, "contro la jella e la corrente non si può far niente", disse.
Tex, ridendo, rispose che invece erano la nostra fortuna perché loro avrebbero vinto e grazie alla presenza delle ragazze, forse, non ci avrebbero picchiato.
I capi concordarono la linea di tiro e la direzione di lancio, poi dettero il via. Ognuno avrebbe avuto diritto a tre tiri tenendo per buono quello migliore.
Le ragazze gridavano e saltavano scoprendo le gambe, incitando un po' tutti, senza fare distinzioni di parte, attratte più dal fisico dei ragazzi che dal gioco e da questo punto di vista i capi ottenevano il maggior successo.
Max indossava pantaloni di flanella e un pulloverino di cashmere color canarino che s'intonava con i capelli irrequieti che gli spiovevano sul viso, Tex, invece, si atteggiava a tenebroso ribelle in blue jeans.
La gara fu vinta dalla banda di Tex, sulla base del totale dei punti guadagnati, ma il mio tiro fu il migliore. Ci ritirammo cantando tutti "avemo vinto".
La domenica mattina, Mario ed io andammo in Piazza Dante a scambiare libri e fumetti. C'incontriamo alla fermata del tram con le cartelle piene e, nella piazza, cerchiamo la bancarella in mezzo alla confusione del mercatino. Il signor Bruno, il proprietario ci chiede, con la sigaretta in bocca, cosa abbiamo portato. Noi rovesciamo le cartelle e lui comincia a scuotere la testa. "La fantascienza n'a vò nessuno", commenta alla vista dei libri di Urania, "i gialli che vanno sò solo quelli violenti, ve posso cambià i vostri con lo stesso genere, tre contro uno. Se invece volete quelli boni ce mettemo d'accordo".
"Quali sono i libri buoni?" chiedo incuriosito. "Té guarda questo", dice, con la voce resa afona dalle troppe sigarette, presentandomi un libretto nero, "vale na sega a pagina". "Di che parla?", chiedo, "de cazzi e figa, se lo vuoi me dai dieci dei libretti tua oppure due piotte". Mi grattai la testa, pensoso e poi accettai. Nel frattempo Mario inguattava non visto un po' di libri.
Per la strada ci divertiamo ad imitare Bruno, "aoh, quanti libri avemo fregato ar farabutto?" chiedo a Mario. "Na decina", risponde, "je sta bbene ar fijo de mignotta, i libri bboni sò solo li sua".
Franca mi chiede di salire da lei che è sola con la nonna che ascolta la radio.
Mi accoglie, sulla porta, con indosso una vestaglietta abbottonata e subito mi spinge in camera sua. "Chiudi la porta che ti faccio vedere una cosa", sussurra civettuola. "Cosa vuoi farmi vedere?" chiedo. "Guarda", dice lei sbottonando la vestaglia e, sporgendo una gamba piegata, poggia il piedino sul letto, "non è bellissima?" "Hai messo le calze di tua madre", esclamo, "no, sono le mie, sono un regalo di papà per il mio compleanno, ha scoperto che sono ormai grande, non indosserò più i calzettoni". "Hai anche il reggicalze?" chiedo. "Certo, nero di pizzo, altrimenti non starebbero su", "fammelo vedere", la imploro, lei maliziosa, serra la vestaglia in vita e poi la apre lentamente, muovendo il bacino. "Guarda", dice, "non sembro Audrey Hepburn, in "vacanze romane"?"
"Se non togli la sottoveste, somigli di più alla Magnani, Audrey, sopra il reggicalze, indosserebbe soltanto una pelliccia", le rispondo.
"Sei proprio antipatico", dice lei facendo il broncio, "non ti faccio vedere nient'altro" e chiude la vestaglia. "Guarda che scherzavo", le dico, "Tu mi piaci di più di Audrey che è vecchia e racchia, dai fammi vedere il reggicalze". "Sei matto? Non te lo farò vedere mai, non siamo mica fidanzati noi due". "Ah! Così non siamo fidanzati, e quindi i baci tu li dai a tutti quelli che passano". "Che cosa significa? I baci per ora li do a te ma potrei cambiare idea, sai quanti ragazzi mi guardano, anche quelli più grandi".
La stringo tra le braccia e la bacio, lei risponde. Quando ci separiamo, ha gli occhi che brillano e i capelli scomposti, mi chiede di andare via, poi, salutandomi, mi dice, con un sorrisetto, di coprirmi che ho un bel succhiotto sul collo.
Una sera nel covo sentimmo provenire da lontano il verso di un gatto, che sembrava quello di Rosso. "Zitti", ordinò Max, "avete sentito? Ecco, di nuovo, è quel figlio di puttana, com'è arrivato qua? Armiamoci e andiamo a scovarlo!"
Prendemmo due pile elettriche e un bastone e c'inoltrammo per il corridoio principale in direzione del lontano miagolio. Superata la sala del lavatoio, infiliamo il corridoio che gira ad angolo, in direzione delle cantine del vicino condominio, il lamento del gatto proveniva proprio da quella direzione. Trovammo una porticina di legno a sbarrarci la strada, era chiusa con una catena e un vecchio lucchetto, i cardini erano però spezzati e quindi bastò spingere il lato che doveva essere fissato contro il muro, per penetrare nella vicina cantina.
Il buio era totale, nelle vicinanze si udiva lo sgocciolio di qualche rubinetto mal chiuso, la cantina puzzava d'umido e il pavimento era coperto di terriccio molle. Puntammo una luce verso il soffitto di mattoni rossi, lungo il quale correvano tubature sospese da ganci di ferro arrugginito.
Il miagolio tornò a farsi sentire più vicino, Max che ci precedeva di un passo, lanciò un urlo e cominciò a scalciare, era finito dentro un'enorme ragnatela, ordinò a Bruno di precederlo. Bruno avanza dietro la luce della torcia che, improvvisamente, illumina l'ingresso di una cantina aperta e una catasta di scatoloni.
Entriamo e ne apriamo uno, è pieno di libri, sfogliamo curiosi, ci sono testi di anatomia, diritto e tanti romanzi, molti scritti in francese. Ci sono libri di De Sade, Aretino, Mirbeau, Bataille, Apollinaire. Prendo di quest'ultimo un libro illustrato con scene di sesso intitolato Les onze mille verges, che, dico, "me lo tengo, mi servirà per migliorare il francese". "Certo", canzona Max, "quando leggi ricordati che in francese il reggitette si chiama "soutien gorge" e le mutande "calzon"". Pino, intanto sfoglia un testo di ginecologia, "per vedere se somiglia alle femmine", commenta Max, poi, incuriosito, prende un contenitore di vetro collegato con un tubo di gomma munito di rubinetto, "carino", dice, "ci faremo il clistere a Pino".
Bruno, intanto, illumina altri scatoloni, Pino apre quello più vicino e si accorge con orrore di essere osservato con odio da una coppia di topi neri.
Al suo urlo fuggiamo tutti di gran carriera e piombiamo dentro un groviglio di ragnatele che si attaccano ai capelli, giriamo impazziti e poi, finalmente, troviamo la porticina e il corridoio che ci riporta al nostro covo.
Sulla strada del ritorno, Emidio m'informa che Italia compie gli anni e la sorella vuole organizzare una festa per la prossima domenica, mi va di andarci? Rispondo che di sicuro ci verrò con Franca.
Arrivai alla festa in ritardo, suonai mentre Paul Anka implorava Dyana, aprirono Italia ed Emidio.
La casa era affollata, la luce soffusa. Il tavolo da pranzo era stato accostato alla parete ed era coperto di vassoi di tartine e dolci, di bottiglie di vermut e caraffe di spremute. Io avevo portato una bottiglia di spumante che fu subito allineata con le altre.
Al centro della sala ballavano, guancia a guancia, Franca e Tex. Lei aveva la camicetta sbottonata e il reggiseno in mostra, la gonna a campana, calze di nylon e sotto, di sicuro, il reggicalze nero. La visione mi colpì come una mazzata, cercai di farmi vedere e lei, alzando lo sguardo, per risposta si strinse di più al suo cavaliere che chino su di lei la baciò sul collo e poi sulle labbra.
Mi voltai per uscire, ma fui fermato da Nadia che mi porge un bicchiere di spremuta e una tartina. Bevvi di un fiato e mangiai, lei mi chiese di ballare. La presi tra le braccia mentre I Platters singhiozzavano "only you".
Spensero le luci e io mi ritrovai a stringere Nadia che restituiva la pressione. Respirando il suo profumo, l'abbracciai più stretta, poi, improvvisamente avvertì nitido il suo ventre che spingeva duro contro il mio sesso che, rintanato nel buio dei pantaloni, alzò la testa, mentre lei, come risposta, cominciò a premere a piccoli intervalli contro l'erezione crescente, poi, sempre ballando, mi spinse nella camera vicina e chiuse a chiave la porta.
Ci baciammo a lungo ed io le cercai le tette. Tornammo di là, mentre Franca mostrava le gambe nella foga di un rock di Elvys.
Regalai a Nadia il libro che avevo preso nella cantina, lei si mise subito a sfogliarlo, incuriosita, soffermandosi sulle illustrazioni, disse di essere capace di leggere il francese e mi ringraziò felice, poi, andammo al cinema a vedere un film che la interessava, io invece volevo fare altro e allora, per tenermi buono, coprì le gambe con il soprabito e senza distrarsi dalla pellicola iniziò un veloce va e vieni che provocò l'immediato risultato, tamponò con il fazzoletto, chiuse la patta e continuò a vedere il film.
Più tardi, sulla strada del ritorno lei cominciò, invece, a farsi venire la fregola e a cercare smancerie, ci fermammo dietro un portone ma a me era passata la voglia.
Qualche giorno dopo, Nadia mi chiese di andare a cercare altri libri, le spiegai che la cantina era pericolosa: "ci sono ragni velenosi e topi neri grossi come gatti". Lei rispose che ero un fifone e che "una topina non aveva mai fatto del male a nessuno", così decidemmo di andare insieme il giorno successivo.
Penetriamo nello scantinato senza farci vedere, percorriamo i corridoi senza problemi e giungiamo nella cantina. Illuminiamo gli scatoloni e guardiamo il contenuto, apriamo una scatola più piccola e cominciamo a sfogliare libri di autori sconosciuti, ma tutti di soggetto erotico sado-maso, c'era De Sade con "Justine" e "le 120 giornate di Sodoma", A. P. de Mandarguies con "Il castello dell'inglese", di Pierre Louys le "Figlie di tanta madre" e altri ancora, tutti in edizioni illustrate. Sotto un primo strato di libri, trovammo, anche, molte riviste e fumetti dello stesso genere con storie di fruste e catene, giovani streghe e vergini martiri che pativano tormenti inflitti da boia vestiti di pelle.
In fondo trovammo una foto di una ragazza bionda che ci fissava con occhi languidi, era nuda, teneva le braccia sollevate sopra la testa trattenute da una fune che la costringeva sulla punta dei piedi; una cintura spessa la strozzava in vita e le punte dei seni erano strette da due mollette di metallo. La foto ipnotizzò Nadia che la volle per sé.
Aprimmo un nuovo scatolone più leggero dei precedenti dove trovammo della biancheria intima particolare, bustini con stecche e merletti, reggiseno senza coppa destinati ad offrire senza coprire, reggicalze, un frustino da cavallo e una frusta con il manico intrecciato da carrettiere. Prendemmo libri, fumetti, alcuni indumenti, il frustino e riguadagnammo l'uscita.
Le belle giornate invogliavano ad uscire. Con la scusa di andare a fare i compiti dagli amici, Nadia ed io ci ritagliammo qualche ora d'intimità. Uscivamo, tenendoci per mano, stringendoci nella panchina più nascosta, nell'ultima fila del cinematografo e, alla peggio, dentro i portoni senza guardiola.
Il quattordici marzo, giorno onomastico di Matilde fummo invitati a casa sua. Abitava in un grande appartamento nel centro di Roma che raggiungemmo per mezzo di due tram.
La casa aveva un enorme terrazzo attrezzato con poltrone e sofà di vimini. La festa era già iniziata, lei stava ballando avvinghiata ad un ragazzo che aveva il pullover annodato attorno al collo e i capelli pettinati con la riga. Il tavolo era pieno d'ogni ben di Dio, bigné e cannoli, torte e crostate, panini, tartine e tante bottiglie di vermut e champagne. Mi versai una dose generosa di bollicine e mi lanciai nelle danze.
Nadia mi solleticava le gengive con la punta della lingua mentre a me girava già la testa.
Dissi che dovevo andare in bagno, lei mi venne dietro ed entrò con me.
Il bagno era più grande della stanza da pranzo di casa mia. Ammiravo marmi e specchi, quando Nadia con un sorriso si accomodò sul wc e arrotolò le mutandine a metà delle cosce, poi, tenendo il sedere ben alzato, per non toccare la porcellana, zampillò a lungo, si asciugò con un tovagliolino e mi chiese di farla a mia volta. "Io mi vergogno", risposi, "non ci riuscirei mai". "Perché? Io l'ho fatta, fra fidanzati non esiste vergogna, dai non ti guardo, prova!" Estratto il pistolino, che, in quel momento, non poteva chiamarsi in nessun altro modo, mi sforzai, cercando di non pensare a niente e finalmente cominciai ad orinare.
Le note di "smoke gets in your eyes" e la voce dei "Platters" ci raggiunsero in bagno, mentre lei si prendeva cura del mio soldatino. Nadia non impiegò molto per metterlo a nanna, lei era ormai esperta nel calmare gli animi agitati e godeva nell'esercitare il suo potere.
Rientrammo nel salone seguendo una voce che sussurrava: " at the end of the river". Ballammo stretti, poi prendemmo un piatto di tartine e due bicchieri di spumante e andammo a sederci in un angolo nascosto del terrazzo su un basso divano.
Tony Dallara ripeteva per l'ennesima volta " ti dirò che tu mi piaci" e Nadia, si stringeva più forte e con la lingua vellicava il mio velo pendulo, mentre io, risalivo le sue cosce in direzione nord, quando toccai il bordo delle mutandine, lei mi prese la mano e la guidò fra le gambe sussurrandomi di fare piano, la sua voce implorava nel mio orecchio: "Si! Di più, più svelto, così non ti fermare, sì, sì, ecco, è bello". Poi, con aria soddisfatta, mi chiese: "perché non assaggi la patatina, dai! Lecca il dito, annusa, ti piace?" A me non piaceva, però risposi che era buona, lei allora mi confessò che aveva assaggiato il mio liquido che le era piaciuto.
"Com'è che la chiami patatina?" chiesi. "Perché come tutte le patate, lei ama il buio e il silenzio", rispose con un sospiro, "e come le patatine i baci e le carezze".
Quella sera al covo, Max lamentava che le femmine stanno minando la nostra amicizia, c'incontriamo di rado ed è da parecchio che non si organizza un'azione ben fatta. Rispondo che non è vero, io vedo Nadia solo nei ritagli di tempo, la verità è che ormai gli esamii sono vicini e il tempo lo trascorriamo a studiare. Lui, risponde che, prima della fine della scuola, vuole fare una gita al mare per festeggiare le vacanze. "Sempre che ci promuovano", rispondo, "la vedo dura". "Allora è deciso", insiste l'altro, "il primo venerdì di giugno andiamo al mare!"
Nadia mi attendeva al solito posto, la presi per mano e ci avviammo al cinema. Nel buio della sala la stringo e le apro la camicetta, sotto indossa il reggiseno dello scatolone che le solleva il seno lasciandolo scoperto.
Amoreggiamo per tutta la durata della proiezione e usciamo senza ricordare nemmeno il titolo del film. Poi ci fermiamo ancora qualche minuto nella nostra panchina, nascosta dietro una fitta siepe, ci lasciamo che è ora di cena.
Trovai mia madre in cucina che osservava alcune fotografie custodite dentro una scatola di cartone.
Guarda come stavo bene il giorno del battesimo di Pierino", mi dice porgendomi una foto di mio fratello, in braccio alla madrina e al padrino, due miei cugini grandi.
Ci sono anch'io, accanto a mia cugina con aria annoiata, mentre papà e mamma, agghindati per la festa, sono vicini ad una signora bionda che sorride. Guardo meglio e riconosco la ragazza delle fotografie, sono certo che sia lei con qualche anno di più. "Chi è questa signora?" Chiedo. Mamma risponde che è la signorina Angela, l'ostetrica che l'aveva aiutata a mettere al mondo il pupo. "E dov'è ora?" "È morta giovane", risponde mia madre, "non aveva ancora quarant'anni, per colpa di un male incurabile". "E dove abitava", chiedo ancora. "Nelle case delle ferrovie insieme alla dottoressa Ludovica Neri, una ginecologa che mi presentò l'ostetrica, quando aspettavo Pierino, sembrava che rischiassi un aborto, ma per fortuna andò tutto bene".
La dottoressa, mi disse, era stata anche l'insegnante di mia cugina Elisa che fa l'ostetrica condotta al paese. All'epoca, fu nostra ospite durante l'ultimo anno di studi e per preparare gli esami andava a casa della dottoressa Neri a prendere ripetizioni insieme con altre allieve.
All'università dove insegnava, la dottoressa, anni prima, aveva stretto amicizia con una sua allieva, Angela, che di cognome faceva Ferri e che divenne ostetrica e, in seguito, decisero di vivere insieme. "Insomma, le due erano lesbiche", commentai. "Ma che dici? che razza di parole usi? Le due erano bravissime persone, la dottoressa visitava le ragazze povere gratuitamente. La poveretta rimase talmente addolorata dalla morte della sua amica che finì in una clinica per malattie mentali, dove dovrebbe essere ancora ricoverata".
"Ti faccio vedere le foto di tua cugina con la dottoressa e la signorina". Rovesciò la scatola delle fotografie e dopo una veloce ricerca mi presentò una foto nella quale mia cugina compariva con altre ragazze, tutte con il grembiule bianco, insieme alla dottoressa che indossava il camice da medico, con i capelli corti, sembrava un maschio. In un'altra foto era invece ritratta accanto alla Ferri, bellissima con i boccoli, che le cingeva con il braccio la vita. Nell'ultima, due ragazze inviavano un bacio, con la bocca a cuoricino, all'invisibile fotografo, che immaginai fosse l'anziana prof.
"Allora, anche mia cugina poteva aver posato per le foto erotiche", pensai.
Quella notte non riuscivo a prendere sonno, impegnato a ricordare mia cugina che, quando era nostra ospite, la sera si toglieva la gonna e le calze in mia presenza, mentre parlava con mia madre.
Improvvisamente mi tornò in mente un frammento di conversazione che avevo udito, quando lei raccontava al telefono che avevano provato tra loro le palpazioni del seno e, poi, ricordai ancora che, in un'altra occasione, Elisa, aveva detto ad una compagna che sulla sedia c'era la signorina Angela che, a turno, avevano visitato, loro, che invece erano vergini, potevano essere controllate solo da dietro.
I ricordi, man, mano che affioravano nella memoria, eccitavano la mia immaginazione e solo dopo un lungo lavoro riuscì a quietare l'erezione che mi tormentava e prendere sonno.
Sabato pomeriggio, ci ritrovammo tutti al cinema della borgata, il locale era conosciuto come "il pidocchietto" e in programma c'era un film di vampiri. Comprammo patatine e bruscolini e ci sedemmo in galleria controllando accuratamente lo strato di sporcizia prima di poggiare le natiche.
Mentre il vampiro succhiava goloso il collo di una ragazza bionda della Transilvania, Bruno gonfiò il sacchetto, ormai vuoto delle patatine, e lo scoppiò, con un colpo fragoroso, che ci attirò invettive da parte degli spettatori.
Nell'intervallo notammo che, in un lato della platea, sedevano un gruppo di vecchietti che si divertivano a fare rumore nei momenti di tensione della storia.
Max, sputò nel buio il guscio di un bruscolino e poi ordinò a Pino di andare in bagno a preparare la bomba, una busta piena d'acqua. Poi, aspettammo il momento buono che arrivò, quando il vampiro coperto dal nero mantello e con i denti affilati, si avvicinò alle spalle del protagonista, in quel momento distratto da una ragazza scollacciata.
I vecchi cominciarono ad agitarsi cercando di avvisare l'ignaro del pericolo. Nel momento in cui, i canini aguzzi stavano per chiudersi sulla giugulare del malcapitato, lanciammo la busta che, con un boato, piombò sugli spettatori che subito, levarono urla e invettive agli autori dello scherzo e ai parenti defunti, mentre noi guadagnavamo l'uscita.
Al covo, Max è fiero dello scherzo, "era tanto che non ci divertivamo così", osserva, "dobbiamo stare di più tra noi, senza pensare alle donne che ci fanno perdere tempo, avete visto come stavamo bene? Adesso per concludere la serata Pino ce lo fa diventare duro a turno. Dai comincia da Giulio che frequenta troppo le ragazze, fagli vedere che tu sei più bravo, fagli quella cosa che hai fatto a me ieri".
"Io, invece non mi sono divertito", rispondo a Max, "anzi mi sono vergognato degli scherzi da bambini che ti divertono tanto, tu che sei un Boy Scout non dovresti aiutare i vecchi ad attraversare la strada? Poi, se devo essere sincero, preferisco farmelo venire duro con una ragazza".
"Hai visto? Avevo ragione che le femmine rovinano l'amicizia, dice Max, allora non sei più dei nostri, al cinema ci andrai con la fidanzata, che poi ti presenterà ai suoi amici e noi saremo dimenticati". "Non ho detto questo, adesso mi sembra che esageri, me ne vado che è meglio".
Ancora in collera a causa della discussione, per la strada telefono a Nadia. "Ciao! Puoi scendere? Sono sotto casa tua, sono nella cabina all'angolo, dai trova una scusa che voglio vederti". Lei risponde di andare nello sgabuzzino del portinaio dove mi avrebbe raggiunto subito.
Poco dopo, lei arrivò vestita con una vestaglietta da casa, "non ho potuto cambiarmi", si scusa. Ci abbracciamo e subito le apro l'abitino.
Ci baciamo appassionatamente, mentre lei s'inarca alle carezze e con la manina strattona veloce lo scettro fino a raggiungere l'effetto desiderato, asciuga con il fazzoletto, poi sussurra, "devo andare, porto via il pupo con me", appallottolando il fazzoletto.
Nel covo, Max avverte che il giorno della gita si avvicina e che occorre procurarci del denaro per il viaggio e per il cibo, e per bere, puntualizza Mario. Ricordiamoci, anche, di portare dei panini per il viaggio, così poi ci basta una pizza e la birra e non vi strafogate la sera prima.
"Hai ragione!" Esclamò Pino, "ieri ho mangiato un sacco di pizza e oggi non ce la farei a fare bella figura". "Ah, così hai la pancina piena?" Domanda Max, "conosco il giusto rimedio, so cosa ti serve". "A me non serve niente", risponde Pino, sospettoso, "mi basta mangiare di meno questa sera a cena".
"Io invece ti farei un buon clistere, cosa dite, ragazzi? Abbiamo pronto tutto l'occorrente, ora riempiamo il vaso e ti lucidiamo il budello.
Su facciamo presto, pisciamoci dentro, che giusto mi scappa e poi ci divertiamo".
A turno riempimmo il vaso e anche Pino versò la sua parte, poi, calò i calzoni, tra gli applausi, ancheggiando, come fanno le donne, e, mantenendo il sesso ben celato tra le cosce, piegò la schiena, sporgendo bene i glutei paffuti. Max poggiò il vaso in alto, sullo scaffale, per dare una bella spinta al liquido, e chiese a Pino di leccare bene la punta di bachelite e di mantenere divaricato il solco delle natiche.
"Guardate come s'introduce bene, i froci sono avvantaggiati, hanno il buco più elastico, per poco non c'entrava anche il rubinetto. Su che ti fa bene, è bella calda, vedi come scende veloce, muovi il culo che entra tutta. Bravo, adesso tolgo la cannula e tu stringi il buco per non perdere una goccia del prezioso liquido.
La prossima volta la dovrai bere come cura per lo stomaco". "Non la reggo", grida Pino, "devo farla". "No, devi tenere ancora", ordina Max. Pino comincia a zampillare, "vai fuori, che schifo questi froci, hanno tutti il culo rotto".
Nei primi giorni di giugno, andai a trovare mia zia che mi offrì the e biscotti. Meravigliata della visita, lei chiese notizia della salute dei miei. La rassicurai e le chiesi in prestito i soldi per pagare la foto di classe che avevo dimenticato di farmi dare. Intascai il denaro e la salutai. A casa, chiesi anche a mia madre i soldi per pagare la foto, racimolando così i fondi necessari per la gita e il mattino del giorno stabilito, uscii da casa di buonora. Il tempo era bello e il sole già alto quando ci trovammo nel negozio del signor Pietro a farci fare i panini.
La circolare ci condusse alla piramide, dove ci aspettava Max. "Avete preso un panino anche per me?" Ci chiese. "Sì, ce ne sono per tutti, andiamo a fare i biglietti, altrimenti perdiamo il diretto e al mare ci arriviamo domani", risposi, avviandomi alla biglietteria della stazione.
Il treno era affollato e tutti i posti a sedere occupati. Ci accampammo nello spazio della porta d'uscita dove poggiammo le cartelle con le nostre cose. Max chiese se avevamo i costumi e l'asciugamano, Pino, per fare lo spiritoso rispose che lui aveva portato il bikini, ridemmo tutti e Max ricordò ai presenti che la gita non prevedeva la presenza di ragazze e quindi Pino sarebbe stato lasciato per la strada.
"Ma no", intervenne Bruno, "è meglio portarlo con noi per metterlo a battere, mentre noi facciamo il bagno, così ci guadagniamo i soldi per la pizza". "Mi sembra una buon'idea", rispose Max, "Pino farà le pompe ai camionisti e si farà pagare bene". "Io non voglio fare niente ai camionisti", interrompe Pino con voce stridula "e poi non sono frocio".
"Ah questa è proprio divertente, siamo arrivati alla rivolta delle checche dopo quella degli schiavi.
Spartaco fu crocefisso per molto meno, tu comincia subito a muovere il culo e dì ad alta voce, che devono sentire tutti, che sei frocio e contento".
"Io, invece propongo di smetterla e di mangiarci un panino", intervenni, mentre Pino con le lacrime agli occhi, mi guardava implorante.
Max, irato, sbottò contro di me, "da quando frequenti le puttane sei diventato un cretino! Non si capisce più da che parte stai, hai rotto i coglioni". "Sei tu che li hai rotti a tutti", risposi, "ed è ora che cresci e magari ti fai fare i pompini dalle ragazze anziché affliggere Pino e costringerci ad assistere alle tue prepotenze sui più deboli". Dopo la mia sparata non ci rivolgemmo la parola per il resto del viaggio.
Il mare era calmo, la sabbia calda e il sole splendente. Ci spogliammo e cominciammo a farci scherzi. Max saggiò l'acqua con il piede e poi, pensoso, assicurò che era fredda. Bruno, invece prese la rincorsa e si gettò, invitando gli altri a fare altrettanto, in breve fummo tutti in acqua.
Nuotammo verso il largo, Pino, rimasto in dietro, gridava di aspettarlo, ci fermammo e cominciammo a saltare l'uno sull'altro per tirarci a fondo. Max mi afferrò alle spalle, con l'intenzione di farmi bere.
Cominciammo una colluttazione subacquea, io lo colpii con un pugno sul viso, lui mi spinse di nuovo a fondo ed io gli sferrai un altro pugno, poi nuotammo verso riva.
Sulla spiaggia riprendemmo il litigio e ci rotolammo avvinghiati finché ci separarono. Max cominciò allora ad inveire. "Celeste fa la puttana e Nadia scopa con il primo che passa", gridava, "lo sanno tutti tranne te che sei un fesso e poi tu sei pure un traditore e uno stronzo perché te la fai con Tex che va con Franca, quella gran mignotta amica di Nadia".
Riuscì a liberarmi e gli saltai addosso, sentivo nei suoi confronti un odio mortale, cominciai a colpirlo con pugni e calci mentre lui invocava aiuto. Fummo nuovamente separati, ma ormai la furia mi era passata. Max frignava perdendo sangue dal naso, io andai a sedere al sole con Pino e, via, via con gli altri che avevano abbandonato Max da solo.
Più tardi, in pizzeria, Max sembrava distratto e sulle sue, mentre noialtri scherzavamo, bevendo birra e spuma.
A casa trovai mia madre in compagnia della signora, la matrigna di Max che mi chiese dove ero stato e se avevo notizie del figlio.
Risposi che ero andato a scuola e poi a fare i compiti a casa d'amici.
Mia madre interrompe, affermando che sono un bugiardo che a scuola io ero assente, come pure Max e altri amichetti, minaccia di non darmi più soldi e di informare mio padre che di sicuro me ne darà di santa ragione e poi mi manderà a lavorare, altro che diploma!
Confessai che eravamo andati al mare.
Durante la discussione la "signora" ci rivela d'essere la vera ed unica mamma di Max e avverte, che se lui lo avesse dimenticato, gli farà subito tornare la memoria a colpi di bastone.
A tavola per la cena, mio padre, fortunatamente, minimizza sostenendo che sono tutte ragazzate e che lui ha fame e non vuole sentire storie.
Il giorno dopo Max è assente e anche in quelli successivi, finalmente la prof c'informa che il nostro compagno si è ritirato per presentarsi come privatista presso un istituto religioso.
La sera, raccontai a mia madre le novità su Max e lei rispose d'averle già sapute da parte della mamma del ragazzo, con la quale aveva parlato al telefono, per cercare i motivi che lo spingevano a fingersi orfano, probabilmente per rendersi più interessante, lui, contrariamente alle apparenze, soffre d'insicurezza che cerca di nascondere. In futuro sarà seguito anche da uno psicologo.
Decidiamo con gli amici di incontrarci in riunione a casa mia. Il giorno stabilito Bruno avverte che Max non verrà e suggerisce al resto della banda di nominarmi nuovo capo, gli altri acconsentono.
Ringraziai e proposi di trasformare la banda, ormai superata, in un moderno club, del quale sarei stato il presidente, che avesse lo scopo di organizzare gite e divertimenti. Faremo viaggi e feste, anche a pagamento per finanziarci. L'associazione sarà, naturalmente, aperta alle ragazze. Tutti furono d'accordo e passammo a redigere il nuovo statuto.
123456789101112131415161718192021