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La risposta
Io lo guardo senza dire una parola.
Flavio ha gli occhi chiusi, ma so che in realtà è sveglio. Guardo la flebo di morfina. È quasi finita.
Tutto è quasi finito, penso.
Mi volto verso la finestra e vedo che piove. Che sta quasi diluviando, che il cielo è nero ma squarciato ogni tanto da lampi che risplendono terribili in quell'oscurità.
Nessuno dovrebbe andarsene così, con questo tempo, penso.
Flavio apre gli occhi e abbozza un sorriso. Stanco, ma è pur sempre un sorriso bellissimo.
E io non capisco il perché, ma mi viene da incazzarmi. Mi verrebbe da gridare "Ma che cazzo c'hai da ridere? Non lo capisci che stai morendo?".
Ma non dico nulla e gli sorrido di rimando. Ho il sospetto che fra i due sorrisi, quello del mio amico sdraiato in un letto d'ospedale del reparto di oncologia, sia l'unico sincero.
«Come va? », chiedo. Mi rende conto quasi subito dell'assurdità della domanda.
«Cioè no, lascia stare - cerco di sviare il discorso - lo immagino come puoi stare».
«Ah si? E come posso stare» dice Flavio.
«Bhe... insomma», bofonchio, ma non so cosa dire.
«Sto», dice semplicemente Flavio.
«Stai? ».
«Sto. E tanto mi basta. ».
Io annuisco, non convinto di aver compreso, ma contento che lui sia ancora lucido.
Flavio inclina la testa verso la flebo appesa al supporto vicino al letto: «Questa roba è favolosa. Davvero. Vuoi farti un giro anche tu? », dice, con un passabile entusiasmo.
«Grazie, magari dopo».
C'è una frazione di secondo in cui penso che magari si, un giro me lo farei anche, se servisse a non sentire tutto questo male. Ma so che non è un male fisico il mio, è qualcosa dentro che si sta crepando, come la superficie ghiacciata di un lago.
«Ti va di parlare? », domanda Flavio.
«Se va a te, e se non sei stanco».
«No, te l'ho chiesto io, no? ».
«Allora va bene. Di cosa vuoi parlare? ». Ma temo la risposta.
«Secondo te che cos'è la vita? ».
Non rispondo. Abbasso lo sguardo e mi fisso i piedi.
«La vita è come una donna stronza dalla quale non riesci a staccarti», dice Flavio.
«Già».
«Me la fai una promessa? ».
Io ho un groppo alla gola ma rispondo lo stesso: «Dimmi, farò quello che posso».
«Mi devi promettere che farai di tutto per essere felice».
«Mi chiedi una cosa complicata. Soprattutto adesso».
«Lo so che è complicata, per questo la chiedo a te. Perché so che tu lo puoi fare. Che sei l'unico che ci può riuscire».
«Non ti assicuro niente», dico io, passandomi le mani fra i capelli. Tremano e non voglio che lui se ne accorga.
«Perché tremi? Di cosa hai paura? », mi dice.
Ecco.
«Ho paura di non averti detto tutto quello che avrei potuto dirti. E che avrei dovuto dirti. ».
«Io ho ancora un po' di tempo. Se ti va ti ascolto», sussurra Flavio. Credo che la morfina stia terminando l'effetto.
Io non so cosa potrà uscirmi dalla bocca, ma per una volta non me ne frega nulla. Voglio solo aprire le labbra e lasciare che le parole scivolino fuori. Senza filtri e senza nulla che si ponga in mezzo tra le sillabe e la mia anima.
«Io lo so che è difficile incamminarsi quando il sentiero appare ombroso. Lo so perché ci sono anche io nella strada parallela alla tua».
«Le strade parallele non si incrociano mai».
«Si, Ma dal posto in cui mi trovo la riuscirò a vedere. E riuscirò a vedere te, dovunque sarai».
Flavio prende un respiro profondo e socchiude gli occhi.
« Bisogna avere il coraggio, la forza di contare fino a 10, per vedere che succede quando il cuore rallenta», dice riaprendo gli occhi. Fa una pausa. Poi: «Aspettare. A volte per agire bisogna aspettare. Perchè quando si fanno delle stronzate non sempre si esce puliti. Ci si incasina sempre di più, come un domino, un pezzo fa cadere l'altro, fino a quando non rimane più niente».
«E alla fine, cosa posso fare? », dico io, che non ho ben chiaro dove stia andando il discorso. Ma so che quello che sta accadendo è importante per me come per lui.
«Tu cosa vorresti fare? ».
«Dovremmo andarcene a bere. »
Ride.
«Ti avrei fatto bere fino a vomitare. Avremmo preso la macchina e ci saremmo imbucati in quale strada atea, in uno di quei vicoli dove l'amore non esiste, e avremmo gridato alle puttane, e avremmo suonato il clacson, con ancora in mano una Beck's».
«E poi? », domanda.
«Poi saremmo andati in giro tutta la notte, fino a fermarci a guardare l'alba, fumando una sigaretta; e ubriachi avremmo cantato, urlando, tutte le canzoni più stupide del mondo».
Lui reclina la testa da un lato. Con la voce bassa e rauca domanda ancora: «E poi? ».
«E poi forse finalmente l'avremmo trovata una risposta per tutto».
«E quale sarebbe la risposta? ».
«La risposta è amore. È la domanda che ti fotte».
Flavio si è addormentato di nuovo. Meglio così, non voglio che mi veda piangere.
Penso di non volere molte cose in realtà, ma spesso non ci è dato di scegliere.
Penso che mi ha insegnato che la felicità sta nel mezzo: non quando si passa la vita a cercare qualcosa che non esiste mentre ci si devasta il cervello e il fegato; né tanto meno quando si finisce chierichetti in qualche chiesa borghese del centro.
Penso che il suo respiro più grande, preso quasi in apnea, è stata la sua libertà.
Penso che talvolta per sopprimere il dolore bisogna farsi del male: sentire dolore per rimanere immuni. Sentirlo così forte da diventare insensibili.
Penso che prima o poi bisogna rinascere, amico mio. Non dimenticare che prima o poi bisogna rinascere. In qualche modo. In qualche luogo.
E penso che la vita fa schifo. Ma è meravigliosa comunque.
Mi accascio su una sedia.
Aspetto.
Poco dopo Flavio riapre gli occhi e guarda fuori dalla finestra: sta ancora diluviando.
«Che bella giornata», dice. E si capisce che non mente.
Io invece avrei voluto mentire, ma non ne sono stato capace, così sono rimasto in silenzio.
E penso che alla fine ha avuto ragione lui.
Su tutto.
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