La Stanza odorava di polvere e caos. Era da un po' che non vi entravo, ma da un primo, rapido sguardo all'arredamento mi sembrò che non fosse cambiato nulla: la piccola scrivania era ancora zeppa di fogli, sul comodino riposavano i soliti libri di poesie, i vestiti erano sempre arroccati alla sedia e la piccola finestra alle spalle del letto continuava a rimanere aperta a qualsiasi ora del giorno e delle notte, come fosse un invito a saltare per aspiranti suicidi o a banchettare per sciami di ronzanti zanzare. Da quella finestra sempre aperta proveniva, ad intermittenza, la luce di un'insegna al neon che macchiava la parete di celeste e di rosa ad intervalli regolari. Anche quello, in un certo senso, faceva parte dell'arredamento.
La prima volta che entrai nella Stanza avevo poco più di 20 anni. All'epoca, non sapevo ancora bene cosa volesse dire leggere un libro per puro piacere e non per estrapolarvi nozioni da riferire a un qualche professore, così, mentre aspettavo che mi venissero a fare compagnia, mi sedetti sul letto e afferrai un volumetto dal comodino. Fu come se avessi appena sbloccato il livello successivo della mia vita: nuove storie, nuove prospettive, nuove cose da dire... gli scrittori conoscono un sacco di parole, e quando non gliene viene una, inventano un modo gustoso per sostituirla. Da quando ho cominciato a leggere, ho imparato un sacco di parole nuove e risonanti: "etica", "metafisica", "macrocefalo", "lapalissiano"...
Nella Stanza, però, non trovai solo di che leggere. Il motivo per cui ci ero capitato era molto meno aulico: dovevo profanare consensualmente la carni della sua proprietaria, e la cosa si rivelò piacevole quanto prospettato. A quella notte di lussuria ne seguirono altre cento, tutte con una storia e una poesia ad incorniciarle: Baudelaire, John Keats, Garçia Lorca... ogni volta una poesia, ogni volta un gusto diverso da associare a quelle ore.
Questo fino a un mese fa. L'amore, come tutte le cose belle, prima o poi si deturpa e svanisce, e così anche il nostro fiore lirico e sensuale si appassì. La colpa fu dell'autunno di tutte le relazioni, la gelosia: lei, così libera e così entusiasta, danzava di braccia in braccia tra uomini che non volevano altro che il suo frutto goloso, e le mie mani ormai avevano più voglia di strozzare quei Proci che di esaltare le sue tenere carni. Quando decisi di andarmene, lei mi urlò di non farmi rivedere mai più.
Fino ad ora.
- Tu? Che cazzo ci fai qui? - fece lei, sgusciando tremolante dalle lenzuola
- Sono venuto a salutarti per l'ultima volta.
- Perchè, dove te ne vai?
- Io da nessuna parte. Tu all'Inferno.
Un colpo. Uno solo. Ma rimbombò nella stanza come se ne fossero migliaia. La pallottola perforò il muro e le spappolò il cranio, mentre il lenzuolo si tingeva di un rosso scuro e grumoso.
Mentre moriva, pronunciai ad alta voce un pensiero di Kahlil Gibran che mi ripeteva ogni volta che eravamo insieme nella Stanza e che adesso risuonava come la più irriverente delle giaculatorie: "una stanza, una casa, diventa sempre simile a chi vi abita. Perfino la grandezza di una stanza varia a seconda della grandezza del cuore"
Il mio cuore, che era il suo, ritornò grande. E anche quella Stanza, adesso, lo sembrava di più.