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Insolite apparenze - Parte prima
Questa è la storia di due ragazzi. Uno ha dodici anni, l'altro venti; uno è bruno, l'altro è biondo; uno non ha le lentiggini, l'altro sì; uno è scontroso, l'altro è socievole; uno è reale, l'altro no.
Benicio abitava tra gli ulivi e la terra rossa della Sicilia. Sua madre e suo padre erano i proprietari di un tabacchino a pochi isolati dalla propria casa.
Il fratello maggiore viveva e studiava legge a Messina, e per le feste e le vacanze estive li andava a trovare.
Mentre sua madre era del posto, suo padre era emigrato dal Portorico durante gli anni Sessanta.
Benicio non amava stare a contatto con le persone. Infatti, tutti i giorni dopo la scuola, mentre i compagni di classe si radunavano nelle varie case per giocare tra loro, lui preferiva passeggiare tra il verde inesplorato, in cerca di solitudine.
Con un bastone che teneva sempre da parte per le lunghe passeggiate, s'incamminava su per le verdi colline, accompagnato dal ripetitivo cicaleccio che ormai conosceva a memoria.
I capelli scuri e la pelle olivastra, facile all'abbronzatura, l'aveva ereditata da suo padre, mentre la virtù più importante gli era stata tramandata, quella della comprensione, da sua madre,
Per avere dodici anni era già ben formato. Non praticava sport o altro, ma quando arrivava l'estate, l'unica cosa che gli importava era andare a nuotare nel mare dove era cresciuto in compagnia del fratello, dei cugini e degli amici.
Una volta arrivato in cima alla salita, la sua fronte grondò sudore, e col dorso della mano si pulì la fatica. Poi piantò facilmente il bastone nel terreno. Tese l'orecchio e le sentì di nuovo: le cicale.
Dopo si voltò e fissò l'orizzonte.
Da lassù era a circa venti metri d'altezza. Poteva vedere il paese e il verde abbracciarlo. Anche il mare vedeva da lassù.
Guardò l'orologio. Erano le tre del pomeriggio.
"Sei pazzo..."
Benicio si voltò.
In piedi davanti a lui, se ne stava un ragazzotto dai capelli biondicci e finissimi.
"Chi sei?"
"Stare fuori a quest'ora significa morte assicurata, lo sai?"
"Ti ho chiesto chi sei."
"Non sei socievole ma la lingua ce l'hai."
Benicio lo fissò ancora. Poi decise di lasciarlo perdere, e ritornò a fissare il paesaggio.
Dopo pochi istanti, si udì: "Sono Gregorio."
"Tanto piacere", rispose senza voltarsi e godendosi l'aria del posto.
"Ti chiami Benicio, vero?"
"Se lo sai già che me lo chiedi a fare?"
Gregorio sorrise. "Mi piace il tuo stile. Non ti piace stare con le persone, ma rispondi a tono."
"Sono riservato, mica stupido."
"Ben detto! Allora ci capiremo alla grande!"
Ben si voltò nuovamente verso il suo interlocutore.
"Non voglio capirti", disse "Voglio stare da solo. Vattene, questo è il mio posto."
Allora il ragazzo gli si avvicinò.
"Spostati un po'", gli fece.
"Cosa?"
"Strano..." continuò massaggiandosi il mento. "Non vedo il tuo nome scritto sopra."
"Come sei arrivato qui?"
Gregorio fece spallucce.
"Esattamente come ci sei arrivato tu."
"Io non ti ho visto."
"Siamo pari allora, perché io non ho visto te."
"Insomma, te ne vuoi andare e lasciarmi solo? Si dia il caso che io venga qui per starmene in pace."
"Non voglio disturbarti, tranquillo."
Benicio si mise a sedere sul terreno asciutto. Chiuse gli occhi e ascoltò i rumori che la terra gli offriva.
All'improvviso lo raggiunse di nuovo la voce del ragazzo che si era presentato come Gregorio.
"Anch'io vengo per stare da solo."
Stufo delle parole del ragazzo, Benicio scosse il capo.
"Bene. Stai pure da solo. Me ne vado io in un altro posto."
"Quanti amici hai?"
"Neanche uno. Ho un piccolo problemino: non mi piace stare a contatto con le persone."
"Si vede, te lo assicuro."
"Non penso sia così evidente altrimenti tu non saresti qui a rompermi", continuò recuperando il bastone e allontanandosi. "Tienti pure il posto, è tuo."
Gregorio gli gridò: "Sei sicuro?"
"Come la morte", gli urlò di rimando senza voltarsi.
"Quando tornerai indietro, io sarò qui."
"Non tornerò indietro", rispose allontanandosi verso la discesa.
"Ti aspetterò proprio qua sopra. Non un metro più in là, non due metri più in basso. Esattamente qua."
Benicio allora si fermò, e lentamente si voltò.
Gregorio non disse più niente. Rimasero a fissarsi l'un l'altro. Ben non aveva capito cosa volesse dire la sua nuova conoscenza, ma non volle andare oltre.
Così si limitò a fissarlo interrogativo, e si voltò nuovamente per scendere.
Quando arrivò a fine discesa, guardò in alto. Non vedeva nulla da laggiù, tranne che rocce, verde e fichi d'india.
Quando finalmente arrivò a meta, fece un ultimo sforzo, scalò la salita in pietra, fra piccole vie e lenzuola fresche lavate con acqua e sapone di Marsiglia, stese ad asciugare sui balconi all'ombra.
Mancava un quarto alle cinque. Aprì il cancelletto e salì le scalette che portavano al suo pianerottolo. Scostò la tenda anti-insetti ed entrò.
"C'è nessuno? Sono io."
"Sono di sopra, Ben!"
Salì così le scale che portavano al piano superiore.
"Sono in bagno."
Quando Benicio si presentò sulla soglia, vide sua madre intenta a dividere i panni bianchi da quelli colorati.
"Sono tornato."
"Ciao! Dove sei stato di bello?"
"Sulla radura che porta a Brolo. Vuoi che ti dia una mano?", domandò indicando la lavatrice.
"Non ce n'è bisogno", continuò tirandosi in piedi. "Ho finito."
"Papà?"
"È in negozio."
Lui annuì e si andò a lavare le mani.
Poi i pensieri lo portarono a ricordarsi del suo incontro.
"Ho incontrato un ragazzo, lassù."
"Finalmente hai conosciuto qualcuno interessato al paesaggio?"
"Non lo so..." disse recuperando l'asciugamano. "Sembrava un po' strano."
"Come, strano?"
"Bah... sarà solo un'impressione."
"Beh'... tu fai attenzione. Non tornare lassù se senti di non poterti fidare..."
Lui annuì.
"Se mi cerchi sono in camera", le annunciò poggiandole una mano sulla spalla.
"Va bene."
Si diresse così nella sua dimora personale, dove sua madre e suo padre erano gli unici ad avere l'accesso diretto. Non aveva mai portato compagni o ragazzine lì. Quel posto era il suo campo di giochi personale.
Sulle pareti della stanza aveva attaccato immagini ritagliate dai giornali riguardanti la nazionale italiana dell'anno corrente e di quelli precedenti.
I suoi miti erano Roberto Baggio e Alex Del Piero. Se ne infischiava di chi diceva che non poteva essere tifoso contemporaneamente della Fiorentina e della Juventus.
E ogni volta lui rispondeva: "Sono tifoso dei calciatori, mica delle squadre di cui fanno parte, e poi anche se fosse, non me ne importerebbe assolutamente niente."
Era così che era rimasto senza amici. Il pensare in modo diverso dalla massa, lo etichettava come emarginato. Il che gli faceva solo piacere. Adorava stare da solo e fare ciò che più amava in santa pace.
Quando a scuola si organizzavano lavori in gruppo, lui restava sempre da solo. Quando si giocava a basket nelle ore di ginnastica, lui era sempre lo scarto.
Ma a Benicio continuava a non importare niente, e a farlo reagire sempre con un sorriso sotto i baffi, suscitava negli altri pura gelosia e rabbia.
Non capivano perché mai un ragazzino emarginato e senza amici, potesse ridere anche quando veniva lasciato da parte. Ma lui conosceva il segreto. Stava bene con se stesso, e questo era ciò che contava veramente.
Dal cassetto della sua scrivania recuperò un ritaglio.
Era una foto di giornale del lunedì precedente, quando l'Italia aveva battuto la Francia nella partita per la qualificazione dei prossimi mondiali. Aprì un raccoglitore ad anelli e si portò all'ultima pagina.
Prese forbici e colla e lo piazzò su un foglio bianco. Incollò il ritaglio, e con una penna blu scrisse la fonte, e la data.
Infine lo inserì all'interno del quadernone.
Ammirò soddisfatto il suo lavoro e lo ripose nel cassetto.
La sua insegnante di italiano lo aveva costretto a comporre una sorta di rassegna stampa sugli autori del Rinascimento. Non trovava cosa più noiosa. O forse sì. Ne avrebbe trovate almeno altre mille.
Ad ogni modo trovava il compito assegnatogli una reale perdita di tempo.
Avrebbe potuto scegliere milioni di altri argomenti tra quelli disponibili, ma no. Lei aveva scelto quello.
"Lo vedo adatto agli autori storici", aveva detto giustificandosi con la madre ad uno dei tanti colloqui scolastici.
"Ma che minchia di spiegazione è?", si era chiesto lui.
La verità era che non lo inquadrava molto. O meglio, inquadrava, ma alla fine l'obiettivo era rivolto da un'altra parte.
Tutti i suoi compagni avevano avuto degli argomenti decisamente migliori su cui lavorare.
Ben detestava il suo, ma come amava fare spesso, al momento dell'assegnazione non aveva emesso un solo fiato. L'aveva accettato, e sfogliando libri e riviste aveva cercato più materiale possibile.
Non avrebbe dato a vedere che declinava l'argomento solo per far piacere alla classe o all'insegnante d'italiano.
Verso le venti, suo padre fece ritorno a casa e cenarono.
Il mattino seguente, il sole splendeva e rincuorandosi del fatto che fosse il sedici di giugno, pensava ai mesi che aveva a disposizione per stare alla larga dalla scuola.
Si alzò verso le sette e mezza. Si lavò e fece colazione.
Indossò un paio di pantaloncini bianchi e una maglietta blu, le scarpe ai piedi corredate, ovviamente, da un paio di calzini di cotone bianchi.
Riguardo a calze e scarpe, aveva vissuto un annedotto piuttosto insolito. Un anno fa, durante l'ora di ginnastica, un ragazzo della scuola aveva fatto esercizi per due ore di seguito solo con le scarpe. Niente calze.
I piedi ne avevano risentito fortemente, e anche i suoi compagni, che dovettero aprire le imposte dello spogliatoio per far prendere aria e respirarne pura. I bidelli erano stati costretti a lasciare aperte le finestre per tre giorni di fila.
La puzza era stata tale da impregnarsi sulle pareti della stanza ed etichettata ben presto dai compagni più maligni, cioè tutti, come odore di formaggio e pus raggrumato.
Benicio non aveva mai capito come i suoi stupidi compagni potessero conoscere la puzza del pus raggrumato, tanto che un giorno glielo aveva chiesto.
"Come fate a conoscere questo tipo di puzza? Ci andate a nozze tutti i giorni?"
Da quel giorno non avevano dato più fastidio al povero ragazzo dei piedi, ma si era tirato addosso le ire dei peggiori compagni di classe che si potessero avere.
Quello però non gli importava. I suoi pensieri andavano altrove; volava con la fantasia nei posti più fantasiosi che la sua mente o un buon libro potessero mai inventare.
Stava per prendere la direzione che l'avrebbe portato alle Logge, quando decise di continuare dritto. Sarebbe tornato così dove si era recato il giorno prima.
Col suo solito amico di viaggi, il bastone squarciava il terreno drenante causando rumore alla fine della montagnola.
Per salire all'altezza della scorsa volta impiegò una trentina di minuti, ma l'aria era fresca di prima mattina, e di conseguenza il viaggiò fu più agevolato e meno faticoso.
Raggiunse la vetta e con lo sguardo si posò sull'intero posto. Non c'era anima viva.
Si voltò a fissare in basso e in lontananza.
Gli piaceva stare lì, solitario tra le alture, convinto che non ci fosse niente di meglio.
Era là da dieci minuti buoni quando percepì la presenza di qualcuno.
Si voltò di scatto.
"Ciao! Ti ho spaventato?", domandò Gregorio.
"Da dove sei arrivato?"
"Dal sentiero."
"Balle. Il sentiero è qua davanti ai miei occhi. Da dove arrivi?", gli ripeté.
"Te l'ho detto."
Ben si alzò.
"Adesso mi hai stancato. Cosa fai, mi segui?"
"Paranoico."
"Allora spiegati, la bocca mi sembra che non ti manchi."
Gregorio sorrise.
"Credi che il sentiero sia solo quello che hai davanti a te?"
"Ce n'è un altro?", domandò di rimando.
"Sì, certo che ce n'è un altro."
Benicio si mise a braccia conserte.
"Mostramelo."
"Sei sicuro?", domandò alzando un sopracciglio.
"Tu non devi avere tutte le rotelle a posto."
"Dipende cosa intendi per rotelle a posto."
Benicio si mostrò perplesso.
"Ok, mi sono risposto da solo. Addio", disse facendo per andarsene.
"Aspetta..."
"Per fare cosa?"
"Non vuoi che ti mostri il sentiero?"
"No, che rimanga pure un segreto."
"Adesso non puoi più andartene."
Benicio si bloccò, e voltandosi domandò senza comprendere: "Che cosa hai detto?"
"È già la seconda volta che mi vedi. Non puoi andartene."
"Che significa?"
"Mi ha detto che la seconda volta che qualcuno mi avrebbe visto, sarebbe stato quello giusto. E tu sei l'unico che mi abbia visto."
"Chi ti ha detto cosa?", domandò confuso Ben.
"Posso mostrarti il mio sentiero?", domandò ancora una volta.
"Senti... adesso mi stai stufando. Cos'è, uno scherzo?"
"Perché non vieni più in qua?"
"Perché sto bene dove sono. Mi dici chi sei?"
"Mi chiamo Gregorio."
"Allora..." disse recuperando il bastone per terra e portandoselo tra le mani come un battitore di baseball. "Adesso mi stai irritando sul serio!"
Poi gli riaffiorarono alla mente le parole del giorno prima.
"Ieri, cosa volevi dire quando hai detto che ti avrei trovato qui? Mi stai seguendo? È uno scherzo di quei fottuti dei miei compagni di classe?"
"Intendevo questo."
"Questo cosa?", domandò avvicinandosi.
"Verrai con me", disse mettendogli una mano sulla spalla come un amico di vecchia data.
Non appena la mano si poggiò sulla sua maglietta, si trovò in un posto che non era quello dov'era appena un secondo prima.
Era un bosco, e dovevano essere qualcosa come le nove di sera. Il cielo andava scurendosi. Non c'era nessuno lì con lui. Con sé aveva solo il suo bastone.
Si osservò intorno.
"Gregorio?" gridò, e la sua voce si tramutò in un'eco angosciante.
Non vi fu risposta. "GREGORIO?!"
Benicio continuava a guardarsi in giro, voltandosi ogni volta che sentiva un rumore.
Lupi, rettili, o anche uccelli.
Non vedeva niente all'orizzonte, tranne che alberi.
Si mise a piangere singhiozzando.
Forse stava sognando. Non aveva altra spiegazione plausibile.
Richiamò il ragazzo che aveva incontrato sulle montagnole tra Ficarra e Brolo, ma nuovamente non vi fu risposta.
Tra poco avrebbe fatto buio. Decise così di incamminarsi, ma incamminarsi per andare dove?
Che posto era quello?
Piangeva, aveva paura, e sudava freddo. I brividi gli percorsero la pelle. Decise di correre.
Quando credette di star perdendo i sensi, e di non avere più respiro, guardò avanti a lui. Era una cascina di piccole dimensioni.
All'interno doveva esserci qualcuno. Le luci erano accese. Così non ci pensò su due volte. Si precipitò a bussare.
Dopo insistenti battiti, una donna sulla settantina gli si presentò alla porta.
"Vuoi buttarmi giù la porta?", domandò la donna visibilmente irritata.
L'anziana portava una crocchia di capelli bianchi fermata con un fiocco quasi inesistente. L'abito nero faceva credere ad un lutto in famiglia, la pelle bianca e prematuramente rugosa, intimidiva, gli occhi azzurri di ghiaccio sottolineavano lo sguardo crudo.
"Dove siamo?", domandò impaziente Ben, quasi senza respiro.
"Cosa significa dove siamo?"
"Che posto è questo, che città è?", domandò con impazienza.
"Siamo nel nulla", rispose con ovvietà.
Benicio deglutì, e senza distogliere lo sguardo dalla donna, indietreggiò.
"Dove vai?"
Poi Ben si mise a correre lontano.
"Se fossi in te non m'inoltrerei nel bosco!" continuò.
Non appena lui si allontanò, il labbro della donna si piegò a sinistra mascherando un sorriso quasi malefico.
"Sto sognando, non è possibile. È tutto un sogno", si disse.
"Ciao Ben!"
Si voltò. Era Gregorio.
"Dove sono? Cosa mi hai fatto?" domandò furioso.
Gregorio fece spallucce, e rispose: "Io non ho fatto altro... che mostrarti il mio sentiero."
"Riportami dove mi hai incontrato! Non voglio stare qui."
"È brutto stare qui, non è vero?"
"Riportami dove mi hai incontrato", disse scandendo bene le parole.
"Hai fatto qualche conoscenza?"
Benicio non rispose, e Gregorio inclinò il viso come fanno i cani.
"L'hai incontrata, non è così?"
"Di chi parli?"
"Lo sai di chi parlo, e sai anche dove siamo."
"Deve essere senz'altro un sogno", disse incredulo.
"Puoi tirarti pizzicotti a vita. Non è un sogno, e non c'è cosa che tu possa fare in questo momento per tornare indietro."
"CHE COSA VUOI DA ME?" urlò rabbioso.
Ma Gregorio non disse nulla.
"Chi è la signora della cascina?" provò ancora.
"Allora l'hai vista? Hai visto anche la cascina?"
"Ho visto anche la cascina. Mi dici chi è, e cosa intendeva?"
"Sei proprio tu, non è possibile."
"Sono io a fare cosa?"
Fu allora che Gregorio disse cosa voleva.
"Tu mi aiuterai."
"Ma a fare cosa?", domandò esausto e implorante.
"Ad uccidere", affermò solo.
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- Sì, lo so. È parecchio lungo... come ho risposto anche a Giovanni nella seconda parte del racconto, nella maggioranza dei casi sono restia a pubblicare (sul web) racconti troppo lunghi. Questa volta invece, non so perchè, ho voluto pubblicarlo ugualmente!
Grazie per essere passato, Ste!
Ciaooo!!!
- e la prima parte è terminata... leggerò al più presto la seconda anche perchè sono curioso di sapere come prosegue; quell'ultima risposta è sinceramente inquietante.
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