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La ricchezza di Aristide
Aristide Targioni aveva festeggiato il quarantanovesimo compleanno in solitudine. Come sempre. Solitudine peraltro non forzata ma deliberatamente scelta. L'ultimo laccio che lo teneva legato al mondo esterno si era definitivamente sciolto con la morte di sua madre, in una casa di ricovero per anziani, da ormai sette anni.
Aristide, che già viveva da solo da qualche tempo anche prima della dipartita della ottuagenaria genitrice, si era ritrovato così veramente solo. Solo nel senso che ormai non doveva più neppure gestire quell'ultima appendice di legame familiare che consisteva nella visita mensile alla casa di cura o nella telefonata settimanale ai medici per informarsi sulle condizioni della sua vecchia. D'altronde aveva cominciato a considerarsi solo al mondo già molti anni prima quando una rapida e progressiva perdita delle facoltà mentali aveva ridotto la madre ad una sorta di soprammobile.
La condizione solitaria era quindi divenuta per Aristide una normale modalità di vita. Il lavoro di contabile presso la filiale cittadina di una quotata casa d'aste era un impegno per lui sempre più gravoso ma indispensabile. Eppure Aristide considerava quel lavoro una vera fatica alla quale volentieri si sarebbe sottratto.
Da tempo ormai giudicava il prossimo con gli occhi indifferenti di un eremita allontanatosi, almeno mentalmente, dal consesso dei suoi simili. La repulsione per l'essere umano nasceva dalla contemplazione quotidiana dei suoi gravissimi difetti, difetti con i quali il nostro contabile non poteva più convivere se non sottoponendosi a sforzi sovrumani: ignoranza, presunzione, arrivismo, insensibilità, mancanza di scrupoli, superficialità per non parlare dell'egoismo e dell'aggressività. E chi più ne ha più ne metta.
Da qualche anno quindi Aristide Targioni, ragioniere contabile presso la sede locale della casa estera di aste Benson & Co., viveva solamente in se e di se ed aveva posto fra il suo coriaceo rivestimento difensivo ed il mondo esterno un muro che aveva la consistenza dell'acqua; elemento comodo nel quale il suono si propaga con difficoltà e la cui composizione rende difformi tutte le cose che vengono solo intraviste e mai perfettamente definite.
Alto, elegante senza mai cedere alla ricercatezza, con il fisico asciutto ed i movimenti dosati, il nostro Aristide rappresentava un uomo giunto alla mezz'età nelle migliori condizioni possibili. Capelli di un bel castano chiaro, lineamenti regolari, un accenno di baffi regolari e ben curati. Poteva essere considerato senza dubbio un uomo dall'aspetto piacevole anche se i modi gentili ma riservati ed una certa avarizia di sorriso lo rendevano difficilmente raggiungibile. Nel complesso, si doveva considerare non antipatico. Insomma, un uomo attraente ma poco affabile.
Sul lavoro era decisamente benvoluto e rispettato. Ciò aveva suscitato le invidie del suo collega di ufficio Eufrasio Bertazzi che vedeva nel Targoni un temibilissimo concorrente nel caso la Direzione avesse dovuto nominare un capo contabile con la responsabilità di due o tre filiali nazionali.
Tranne questo sordo rancore dettato dall'invidia, che Aristide conosceva ma di cui si curava poco o nulla, la sua esistenza nel mondo lavorativo, per quanto isolata e priva di veri contatti umani, si svolgeva con regolare tranquillità.
Anche la solitaria vita privata del nostro protagonista scorreva all'insegna di una sobria semplicità ed egli era ben attento a rifuggire tutte le attività faticose o dispendiose. Unica concessione che concedeva alla banalità umana era la settimanale giocata alla lotteria nazionale, gioco nel quale credeva e che, pensava, se il caso lo avesse favorito, gli avrebbe potuto risolvere alcuni problemi in ordine a certi progetti che aveva in mente. Primo fra tutti allontanarsi dal lavoro e dalla vista del suo invidioso collega Eufrasio.
Con insistenza e tenacità aveva giocato alla lotteria nazionale fino dall'età in cui aveva potuto disporre di denaro suo. In quei primi anni di gioco, di modeste ma tenaci scommesse, non concordava con il severo giudizio della madre che riteneva il non giocare un risparmio e, quindi, implicitamente, una vittoria. Aristide obiettava che il suo investimento di somme modestissime non gli avrebbe cambiato il tenore di vita ma, di contro, gli avrebbe potuto offrire la possibilità, seppure remota, di vincere. In quel caso avrebbe moltiplicato per migliaia, se non per milioni di volte il misero capitale impiegato e concludeva immancabilmente affermando che chi non gioca certo non rischia ma altrettanto certamente non ha alcuna possibilità di vincere.
L'ormai quasi cinquantenne Aristide con le donne non aveva rapporti stretti se, per rapporto, non si vuole intendere una scappatella, a periodicità variabile, nell'abitazione di certa Mariuccia. Costei era una professionista dell'amore che abitava in una vicina città e che Aristide aveva occasionalmente conosciuto qualche tempo prima essendo praticamente stato adescato durante una passeggiata domenicale nel parco cittadino. Così, non certo per la compagnia della signorina in sé ma al solo scopo di tacitare certe richieste fisiche che talvolta si facevano sentire, manteneva un rapporto regolato da un rigido accordo commerciale. Infatti il pagamento della giusta mercede, che concludeva ogni incontro di Aristide e di Mariuccia, veniva interpretato dall'uomo come una normale transazione commerciale. Talché il pagamento della prestazione rappresentava la chiusura definitiva della partita. Un'altra partita si sarebbe aperta e nuovamente conclusa senza strascichi o imprevisti all'incontro successivo. Ciò lo tranquillizzava interiormente perché l'assoluta gelosia della propria vita privata non gli avrebbe mai consentito un rapporto che avesse lontanamente potuto intaccare l'assoluta libertà di cui voleva sentirsi padrone. Nessuna intromissione dall'esterno, nessuna compagnia sentimentale avrebbe potuto appagarlo quanto la sua egoistica concezione della beata ed intoccabile indipendenza.
Una bella domenica mattina, di buon'ora, Aristide il contabile si alzò, si lavò e, diligentemente, si predispose al solito giretto cittadino domenicale che prevedeva il puntuale acquisto del quotidiano e l'immancabile caffè al solito bar, una passeggiata per i viali della città ed un pranzetto sobrio presso la sua abituale trattoria vicino alla stazione degli autobus.
Acquistato il giornale, con animo lieto, si diresse verso il suo tavolino preferito nella piazzetta antistante l'edicola. Qui giunto fece un cenno al barista il quale non necessitava di ulteriori spiegazioni poiché conosceva ormai da lungo tempo le abitudini e sapeva perfettamente cosa servire al suo cliente.
Aristide si accomodò, appoggiò il giornale sulla sedia accanto a sé ed attese l'arrivo del caffè fumante. Giunta la bevanda la sorseggiò con calma ed evidente piacere. Quindi dispiegò il giornale e lesse le notizie che gli scorrevano sotto gli occhi, pagina dopo pagina. Giunto alla pagina delle estrazioni della lotteria scorse i numeri estratti e restò interdetto. Estrasse il portafoglio, trovò la giocata della mattina precedente e confrontò i suoi numeri con quelli del giornale. Non v'era dubbio. Aveva vinto. Si rese immediatamente conto che non si trattava della vincita di prima classe, ma, avendo egli colto sei numeri su otto poteva ritenersi senza dubbio vincitore del terzo premio. Una somma di denaro assolutamente considerevole. Centinaia di volte il suo stipendio annuo. Una fortuna.
Fu l'improvviso impatto di quella fortuna che cambiò la vita di Aristide.
Intanto passò una domenica di indicibile ansia. Incredulo, si riteneva in qualche modo indegno della vincita. Intendiamoci: non che ne fosse scontento, anzi, si sentiva baciato dalla dea bendata e ciò non poteva che renderlo felice. Ma, da subito, si rese conto che insieme alla probabile ricchezza avrebbe dovuto fare anche i conti con sensazioni mai provate fino a quel momento, per esempio l'ansia, una sorta di morsa allo stomaco che già lo afferrava.
Iniziò con il pensare quanto assurdo fosse che la vita futura di un uomo dipendesse da un rettangolino di carta di pochi centimetri. Perso quel foglietto tutto sarebbe stato perso.
E così come rotolando da una china senza possibilità di arresto improvvisamente dovette fare i conti con un'altra sensazione con cui non aveva avuto frequentemente a che fare: l'inquietudine.
Immediatamente collegò il biglietto vincente al suo futuro, alla realizzazione dei suoi sogni di una vita diversa, al cambiamento, all'abbandono del lavoro e della vista del volto livido di Eufrasio Bertazzi.
Era proprio il potere concentrato nel biglietto che gli faceva considerare l'enorme differenza fra il possederlo ed il non possederlo e quindi, immediatamente, il timore di esserne in qualche modo privato.
Gli pareva che il suo biglietto vincente si potesse volatilizzare nel nulla, lo controllava con frequenza esagerata per rassicurarsi del suo prezioso possesso. Riponeva il portafoglio dove era custodito il suo tesoro nella tasca interna della giacca e vi teneva sopra la mano quasi a proteggerla da chissà quali insidie.
Appena verificata per l'ennesima volta la presenza del biglietto gli riapparivano nel pensiero fantasmi invadenti. Veniva colto da tragici pensieri preoccupanti: e se il giornale avesse sbagliato la trascrizione dei numeri vincenti? E se l'Ente Lotteria Nazionale non avesse pagato? E se fosse nata una contestazione, per motivi al momento imprevedibili, e l'Ente avesse deciso di annullare l'estrazione e rifarla per un qualunque motivo? Certo non vi sarebbero state ragionevoli possibilità che i suoi numeri uscissero una seconda volta.
La notte fra domenica e lunedì non portò migliore consiglio. Distrutto dall'insonnia e roso dall'ansia per tutte le possibilità negative che aveva paventato durante i continui movimenti nel letto non se la sentì di recarsi al lavoro. Si vestì faticosamente e si rassettò con l'abituale cura, quindi sceso in strada si fermò alla prima cabina telefonica che incontrò per chiamare l'ufficio e comunicare che si sentiva poco bene, cosa del resto assolutamente vera dopo la notte insonne appena trascorsa. Con una certa insopprimibile preoccupazione si recò presso la sede cittadina delle Lotterie Nazionali ed attese, pazientemente, di essere ricevuto in un ufficio addetto alle verifiche delle vincite. L'impiegato, del tutto abituato a trattare con vincitori di ogni importo,
prese meccanicamente dalle mani di Aristide il biglietto che questi gli mostrava e se lo mise sulla scrivania, di fronte a se, cercando nel contempo il fascicolo delle vincite della settimana prima.
Non trovando subito il fascicolo prese il biglietto dal tavolo e si alzò dalla sedia. Aristide ebbe un tuffo al cuore. In un attimo vide l'occhialuto impiegato beatamente disteso su di una spiaggia assolata a sorseggiare una bibita fresca in compagnia di avvenenti ragazze in succinti costumi. E se avesse accampato la scusa di recarsi in altro ufficio per il controllo? Aristide avrebbe protestato, vibratamente, forse avrebbe anche scavalcato d'un solo balzo il banco per assalire l'impiegato e strappargli l'unico silenzioso testimone della sua ricchezza. Il nostro novello ricco iniziò a sudare copiosamente. Si torceva le mani e cercava di darsi contegno aggiustandosi ora il colletto, ora il taschino della giacca, sempre più preso da foschi presagi.
Come il cielo volle l'impiegato dell'ufficio, dopo un tempo che parve eterno, trovò il fascicolo cercato, effettuò un rapido controllo e, tranquillamente porse nuovamente il biglietto ad Aristide dandogli un esito del tutto positivo e tranquillizzante: era effettivamente il biglietto vincente il terzo premio nazionale. Tutti i suoi complimenti ed auguri di felicità. Confermò che il premio sarebbe stato pagato a pratiche concluse. Che ritornasse la settimana successiva per le disposizioni del deposito. Che desse il tempo alle solite prassi di seguire il corso previsto. Entro qualche giorno sarebbe stato tutto pronto ed appunto la settimana successiva avrebbe potuto fornire le istruzioni per il prelievo o il deposito della vincita.
Tutte le ansie del contabile Aristide, come per incanto, sparirono. Ora doveva solo concentrarsi sulla conservazione del prezioso biglietto per la settimana che lo separava dalla, diciamolo pure, ricchezza.
Depositare il biglietto in una cassetta di sicurezza in banca? Nemmeno per idea; ogni giorno leggeva sul giornale di furti e scassinamenti. Non avrebbe mai sottoposto la sua vincita a tale rischio. Trattenerlo normalmente nel portafoglio come se niente fosse? Per carità! Idea da scartare immediatamente. Come potere uscire in strada tranquillamente con una simile fortuna indosso? Gli sembrava che tutti i passanti lo guardassero con occhi maligni, gli pareva che ognuno conoscesse la sua condizione di nuovo ricco ed intuisse la sua evidente vulnerabilità. Tutti avrebbero potuto assalirlo per rubargli quella fortuna insperata. Prese la sua decisione: si recò, guardandosi circospetto intorno, nella stessa cabina telefonica di poco prima. Richiamò l'ufficio, parlò con il suo collega Eufrasio e dichiarò che il suo medico gli aveva prescritto una decina di giorni di assoluto riposo avendogli riscontrato una affezione alle vie respiratorie che richiedeva attenzione e riparo dalle correnti d'aria e dagli sbalzi di temperatura. Eufrasio Bertazzi gli rispose mellifluamente che stesse pure tranquillo e riguardato, avrebbe provveduto lui stesso a tutte le incombenze. Aristide percepì, nella voce del collega, tutto l'augurio di una malattia letale e si accorse che Eufrasio Bertazzi era l'unico vera negatività della sua tranquilla esistenza. Guai se il collega avesse saputo della sua fortuna, Guai. Chissà cosa sarebbe stato capace di ordire ai suoi danni.
Sistemata la questione del lavoro si barricò in casa. In cucina fece un breve esame delle vivande di cui poteva disporre. Decise che una oculata divisione delle poche riserve gli avrebbe consentito di passare una settimana in assoluta tranquillità chiuso fra le familiari e rassicuranti mura della piccola ma confortevole abitazione.
Chiuso in casa, barricato come un assediato, visse quei giorni come un derelitto prossimo a chissà quale catastrofe. Non si rasò e non si cambiò nemmeno una volta i semplici abiti che indossava abitualmente fra le mura domestiche. Al termine del periodo previsto Aristide Targioni contabile era praticamente irriconoscibile.
Preda del suo folle abbrutimento la settimana di clausura passò ed il lunedì successivo Aristide iniziò il restauro della sua persona e si riportò alla condizione necessaria per potere uscire di casa. Sul tardi si recò all'appuntamento presso l'ufficio delle Lotterie Nazionali, dove, secondo quanto concordato precedentemente, dispose la distribuzione della sua vincita su tre conti separati di altrettante banche cittadine con i direttori delle quali aveva preso accordi la mattina stessa.
Il lungo lavoro di contabile per la casa di aste Benson & Co. si era dimostrato utile. Conosceva da tempo gli istituti dove erano situati i vari conti correnti della casa d'aste. Non gli fu difficile concordare condizioni vantaggiose per i vistosi conti personali che aveva predisposto per gli ormai prossimi accrediti. Le pratiche di apertura erano state rapidissime e gli istituti di credito si erano, ovviamente, dimostrati ben disposti nei suoi confronti.
Uscito dall'Ufficio Vincite della Lotteria Nazionale che lo aveva fatto ricco si incamminò per strada con una certa sensazione di leggerezza. Ma quasi subito fu colto da un pensiero che gli si affacciò alla mente come un baleno. Tempo prima aveva letto di un impiegato di banca che, conoscendo il valore del conto corrente di un suo facoltoso cliente, aveva organizzato un colpo criminale con la complicità di un delinquente della peggiore specie.
Pensò immediatamente ai suoi conti bancari ed al fatto che decine, forse molte decine, di impiegati di tutti i livelli nei tre istituti in cui aveva diviso la sua novella ricchezza, erano ora a conoscenza del suo nome e del suo indirizzo. Qualcuno avrebbe potuto derubarlo con sottili marchingegni contabili. Alcuni accorgimenti noti e meno noti ma alla portata senza dubbio delle capacità dei contabili delle banche avrebbero potuto trasferire temporaneamente alcune parti ingenti delle sue somme, farle transitare su conti esteri, ridurre i suoi averi mediante l'applicazione di spese di vario genere ed altre nefandezze simili.
I suoi denari, i capitali che la fortuna aveva voluto elargirgli, gli sarebbero stati sottratti. Inoltre, alcuni impiegati disonesti, avrebbero potuto, dietro compenso, fornire il nome del loro ricco correntista a qualche banda criminale che non avrebbe esitato a ricattarlo, a ridurlo in schiavitù con metodi intimidatori pur di mettere le proprie lunghe grinfie sui suoi capitali.
Aristide si trovò comunque a riflettere che questi criminali non avrebbero mai potuto ricattarlo sotto la minaccia di fare del male ad un suo congiunto o ad una persona a lui cara. Di questo era certo in quanto lui non aveva alcun legame con persone che potesse considerare "care" e tanto meno aveva parenti o congiunti. Ciò lo tranquillizzò non poco. Immediatamente si sentì meglio e parve ristabilire il proprio equilibrio interiore.
Si avviò, così rinfrancato, verso casa.
Non aveva percorso che poche centinaia di metri quando fu colto da un altro e più inquietante pensiero. Certo, non aveva parenti o congiunti e tanto meno persone che gli fossero così care da costituire leva di forzatura nei suoi confronti. I banditi ed i malfattori di ogni risma sarebbero rimasti con un palmo di naso. Ma, pensò, si sarebbero arresi? No, si rispose. L'entità dei suoi depositi li avrebbe fatti giungere alla più logica delle conclusioni: l'oggetto della violenza non poteva che essere lo stesso Aristide Targioni. Inseguito, controllato ed al momento opportuno rapito, se fosse stato sottoposto a trattamenti coercitivi di inaudita violenza avrebbe ceduto qualsiasi suo avere per riconquistare la libertà.
Colto da siffatti distruttivi ragionamenti e sopraffatto dalla probabilità dei paventati eventi futuri già si sentiva preda del terrore. Era ormai certo di essere seguito da chissà quale spia pronta a riferire i suoi movimenti ai capi occulti di un'organizzazione malavitosa che, in poco tempo, avrebbero individuato un suo punto debole. Il nuovo ricco affrettò quindi il suo passo verso casa. Giunse al portone che quasi forzò con maldestra frenesia. Salì le scale fino alla porta del suo appartamento che aprì frettolosamente come inseguito da un demone. Richiusa la porta dietro di se si accasciò visibilmente provato sui battenti appena serrati e sospirò ansimante. Si voltò di nuovo per mettere la catenella di sicurezza che, stupidamente, aveva dimenticato e si deterse il copioso sudore che gli rigava il volto. Si allentò il colletto della camicia, tirò con forza verso il basso il nodo della cravatta e si avviò stancamente verso la cucina. Prese una sedia, la trascinò fuori da sotto il tavolo e si sedette, provato come non mai, assopendosi sulle braccia incrociate appoggiate sul piano di formica verde.
Ridestatosi di soprassalto dopo pochi minuti si trascinò verso il letto nella camera contigua. Vi si lasciò cadere come un macigno. Spossato, si addormentò subito e nei suoi sogni apparve il viso cattivo di Eufrasio Bertazzi che ghignava fregandosi le mani. Vide gli impiegati delle banche depositarie dei suoi conti radunati in una pantagruelica cena a sue spese. Tutti sollevavano il calice, tutti bevevano alla sua salute inneggiando al denaro che presto gli avrebbero sottratto.
Finalmente, molto più tardi, il sogno dette spazio ad un colore nero, impenetrabile e pauroso in cui Aristide consumò la sua stanchezza. Svegliatosi, come ubriaco, si fece un caffè, rinunciando ad uscire. Solo l'indomani sarebbe andato nuovamente al lavoro. Forse.
Aristide Tragioni aveva ormai raggiunto uno stato di ipnosi, un passaggio continuo di pensieri terribili, di previsioni perniciose, di sospetti prima e di certezze poi. Perse, poco a poco, il senso del tempo e dello spazio. Si aggirò per la casa come un sonnambulo, osservò gli oggetti che conosceva, guardò, fuori, la gente che camminava tranquillamente per via ignara del suo dramma.
Passò lentamente ed inesorabilmente il pomeriggio. Il quotidiano che Aristide era solito leggere riportava nell'edizione della sera la seguente notizia: "Questa mattina un nostro concittadino, uno stimato impiegato di nome Aristide Targioni, è precipitato dal quarto piano del palazzo in cui abitava. Nella caduta il poveretto è deceduto sul colpo.
Nell'abitazione del morto la polizia ha trovato un biglietto in cui il suicida si giustificava dicendo che non avrebbe più potuto vivere. Non ha fornito ulteriori spiegazioni.
Lo scritto riportava una postilla in cui il Targioni, privo di congiunti, ha nominato erede universale dei suoi beni certo Eufrasio Bertazzi, un suo collega di lavoro.".
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- Caro Piero, ma non avevamo deciso di darci del tu?
Quindi ti ringrazio del graditissimo commento. Come sai io non ho alcuna pretesa... scrivo solo per diletto ed ogni tanto mi diverto ad inventare situazioni paradossali... Spero che la lettura non ti annoi troppo. Grazie ancora...
- Ho letto con piacere il racconto, trovando interessante lo scandaglio dell'animo umano alla ricerca di una felicità al di fuori della propria vita interiore, che risulta poi effimera fino a divenire, secondo la risoluzione della vicenda, tragica. La vera ricchezza è dentro di noi, così si coglie dal contesto, ed è certamente vero; lo stesso finale dà un taglio più marcatamente moralizzante, costruttivo. Complimenti e a rileggerla presto.
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