La camera da letto sorride alla discreta avvenenza del sole dopo tanto inverno e la luce intensa si spegne lentamente nell'oscurità del mio pensiero.
Ecco, d'improvviso, materializzarsi la sveglia amata, quella dei miei ricordi lontani, in casa di mia nonna, e mia nonna con la sveglia. Veglia, Borletti, rotonda, grigia, sfondo bianco, numeri neri, infantili, una chiavetta nella parte posteriore dal rumore caratteristico, quando veniva presa e ricaricata manualmente. Un rumore stanco, come le mani di mia nonna che la reggevano amorevolmente e ogni sera ruotavano la chiavetta per molte volte, facendo sì che le ore continuassero a faticare e ci risvegliasse l'indomani.
La sveglia stava su un antico comò che aveva il piano in vetro e accanto aveva altri piccoli compagni che esercitavano ugualmente la loro cospicua attrazione sulla mia piccola mente fantasiosa e osservatrice. Una ciprea di dimensioni ragguardevoli, maculata, lucida, bruna, meravigliosa mentre mi veniva avvicinata all'orecchio la prima volta, per ascoltarvi l'eco di un mare lontano; una madonnina di Pompei in una palla di vetro, con la neve dentro. Ogni volta che mi riusciva di tenerla in mano, la agitavo mentre ammiravo la neve che vorticosa ricopriva la madonnina immobile e trovavo crudele che fosse esposta a tali intemperie. Mia nonna raccomandava sempre grande cautela: teneva molto a quegli oggetti, soprattutto a quelli che rappresentavano la sua profonda devozione cattolica.
Tutte le volte che mi portavano a farle visita, spesso in verità, mi infilavo nella sua camera da letto e li osservavo. Erano parte della mia educazione sentimentale; con la loro presenza avevo la certezza che mia nonna sarebbe stata sempre lì: la vecchia sveglia, gli occhiali da cucito rotondi, grandi, dalla trasparente montatura verde militare, come l'astuccio in similpelle che li conteneva. Nonna diceva di averli avuti in regalo da un militare americano durante la guerra, e sempre da lì partivano i suoi racconti, uguali ma belli. Aveva il raro dono di coloro che sanno affascinare raccontando anche di brutti eventi: la guerra, il nonno decoratore morto giovane, i suoi sforzi per offrire ai suoi otto figli una vita degna e una degna istruzione.
Nonna, una donna triste, austera, severissima, ma tenera con me come solo chi ha saputo trasformare tanta sofferenza in amore.
Non mi piaceva che fosse sempre così rassegnata e mesta, vestita solo di nero; anche le pesanti calze che indossava erano grigie o marroni, peggio che nere, pensavo e penso.
La mia intransigenza giovanile è diventata oggi profonda comprensione: sopravvivere ai propri figli è la peggiore punizione che il suo buon Dio potesse dare ad una madre.
Il ricordo più vivido che conservo di lei è quello di una notte nella quale stavamo per addormentarci nel suo grande letto, dopo le usuali preghiere, e lei ridacchiava stringendosi a me come fossimo due bambine: lei di settanta io di sette anni. Ricordo di essere stata felice e di essermi sentita strana per quella gioia inappropriata ad una nonna, a mia nonna.
Il giorno dopo mi disse che avrebbe preparato una coperta fatta con l'uncinetto per quando mi sarei sposata. Non le riuscì, perché i suoi occhi erano troppo stanchi. Mi diceva sempre che le si erano rimpiccioliti e asciugati per le troppe lacrime versate e il troppo dolore, così mi preparò dei lunghi nastri ricamati e li cucì sul bordo di bianche lenzuola in cotone ruvido, piuttosto grezzo: un ingenuo, povero abbellimento.
Sono sposata ormai a molti anni e mi chiedo, a volte, dove saranno tutte quelle graziose suppellettili e da quanto tempo nessuno carichi più l'antica sveglia, se esiste ancora. Ma quando, in primavera, cambio il mio letto invernale con le fresche lenzuola che mia nonna mi ha regalato, ripenso a due bambine in un grande letto, poco prima che il sonno arrivi, che si stringono felici: una di settanta, l'altra di sette anni.