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Sperare ferisce
Rumore di motori e il mio cervello si risveglia.
Mi ero quasi dimenticato del luogo dove mi trovavo, mi ero assopito incurante di ogni dimensione temporale o spaziale. Di fronte ai miei occhi il portellone del veicolo nel quale ero stato rinchiuso per un qualcosa del quale non mi sentivo minimamente responsabile: non provavo alcun rimorso, forse la mia giovane età mi rendeva più spavaldo di quel che ero. Sapevo benissimo quali sarebbero state le conseguenze della mia azione; mi avrebbero atteso tanti anni di reclusione, abbandonato a me stesso. Se solo avessi pensato... Il veicolo si fermò, e dopo un lasso di tempo nel quale dovevano essere sbrigate le pratiche di accettazione, mi fu assegnata la mia cella fredda e tetra. Era isolata da ogni lato, nell'ala più esterna dell'edificio; come la mia ve ne saranno state cinque o sei, ed erano tutte collegate da un lungo corridoio che era diretto al centro dello stabile. La prima volta che misi piede in quella stanza era buio, e da quella grata, che tutti erano tutti soliti chiamare finestra sembrava che stesse per iniziare un forte temporale ma non mi ci soffermai più del dovuto. Nelle ultime due settimane prima di arrivare qui avevo davvero toccato il fondo, per fame e stanchezza; avvertivo forti crampi allo stomaco e il sonno perso era davvero troppo per essere recuperato, gli occhi gonfi e le occhiaie profonde e marcate. Essendo pomeriggio inoltrato, attendevo con ansia il pasto serale seduto sulla mia branda, e incominciai a percepire un rumore sempre più forte dall'esterno. Allora mi alzai di scatto e mi voltai verso la grata per vedere se effettivamente vi era qualcosa. Notai che infatti aveva cominciato a piovere e nello scroscio mi sembrò di sentir echeggiare una melodia conosciuta e mentre fuori pioveva, lacrime cominciarono a cadere dal mio volto colpito dal vuoto di questi giorni; più osservavo la fredda pioggia invernale infrangersi sul terreno, più le mie lacrime scivolavano verso il basso come per unirsi all'acqua lasciata dal temporale.
L'ora della cena giunse e purtroppo ogni mio pensiero riguardo ciò che avrei potuto mangiare era veritiero: pane, acqua.
Prima di giungere nella sala dove si consumavano i pasti, fummo tutti scortati da alcuni secondini, che sembravano automi, tutti con lo stesso sguardo e in movimento secondo lo stesso schema. La sala era un classico luogo da film. Ampi spazi, vetrate lungo ogni parete, soffitti altissimi, tavolate lunghe e dominanti. Quando presi posto notai come ogni altro recluso era introverso e non aveva altro sguardo che per il suo umile pezzo di pane, d'altronde la vita in questo posto non invogliava minimamente al dialogo. Quindi consumai il mio cibo in fretta e furia, attendendo il momento utile per coricarmi e soffocare nel sonno tutta la depressione accumulata.
Il momento arrivò e il ritorno in gabbia fu rapido. Intanto fuori aveva smesso di piovere e così riuscii a conciliare il sonno in breve tempo.
Non so perché, ma quella notte ebbi un sogno particolarissimo. Rividi tutta la mia vita prima di questo evento, esattamente nello stesso modo; non bisogna pensare che nei sogni vi debba per forza essere qualche figura distorta, perché in questo caso riuscii perfettamente a rivedermi e provare grande nostalgia al mio risveglio...
Il sogno - Vita quotidiana - L'inizio
Mi svegliai come tutte le mattine per andare a scuola, che era un obbligo nonostante fossi maggiorenne. La sveglia impostata alla stessa ora di tutte le mattine non aveva suonato, e dovetti fare di corsa per evitare di perdere i mezzi, ma così non fu. Dopo essermi lavato, vestito e esser corso fuori casa, l'autobus non si degnò minimamente di fermarsi e procedette per la sua via. Io naturalmente cominciai a correre, ma com'era prevedibile arrivai tardi a scuola e la professoressa di letteratura non fu molto tranquilla nei miei riguardi. Ma non solo. Prima di entrare a scuola, notai un gruppo sospetto. Era formato da vari tizi che di buono non avevano nulla eccetto il proprio abbigliamento, che sembrava scelto per una festa. Appena arrivai di fronte al cancello principale questi dapprima mi squadrarono, poi con un sorriso accennato si avvicinarono e mi bloccarono l'entrata. "Credo tu oggi non abbia voglia di entrare, o sbaglio?", disse uno di questi, che sembrava essere il loro capo. Risposi: "Io, veramente, dovrei anche sbrigarmi...". Allora si spostarono per un attimo, ma poi uno di loro riprese: "Dovresti sbrigarti, ma non lo vuoi veramente. Perché in caso tu lo volessi davvero, dovrai subire". Il più alto e robusto del gruppo mi sollevò e mi trattenne, tenendomi per la maglietta. Sentii subito una scarica d'adrenalina divampare lungo tutto il corpo, e quando ogni mia parte di esso tremava, il guardiano dell'istituto giunse a portare ordine, e subito il gruppo di bulli si sciolse. Allora cominciai a correre e, come detto prima, la professoressa non fu alquanto clemente con me per il mio ritardo e mi diede un carico extra di compiti per il giorno successivo.
Finalmente suonò la campana dell'intervallo, e uscii nel cortile antistante la scuola per incontrarmi con gli unici miei due amici. Joey era una ragazza non tanto alta, magra, con dei capelli color cioccolato che scendevano lisci lungo le sue spalle. Kurt invece, un giovane come tanti fuori ma diverso dentro per sensibilità e senso di responsabilità, dai capelli incolti di un biondo platino.
"Sei sempre il solito, anche oggi in ritardo!", disse all'improvviso Joey. "Non per colpa mia! Non posso di certo scappare da quattro bulli! Potevate essere lì ad aiutarmi, non credi? Eh?". Questa risposta la colpì e credo si offese molto, in quanto se ne andò all'istante e rimasi solo con Kurt, il quale era stranito dalla mia reazione e mi chiese di calmarmi ma non gli prestai ascolto. "Vabbè, fai come credi sia meglio" disse, e se ne andò all'istante. Non potevano dirmi di stare calmo mentre ero terrorizzato dalla paura che la mattina successiva si sarebbero potuti ripresentare.
Il braccio della sfortuna non aveva ancora allentato la presa, perché al mio rientro in classe seppi che erano in programma dei concorsi di scienze, e il compagno mi era già stato assegnato. Era proprio lui, il leader del branco. Non volevo né potevo chiedere di essere spostato per due motivi precisi: sia perché avrei dovuto affrontare la mia paura, sia perché mi sarebbe valso un credito notevole all'interno degli esami finali, e comunque la consegna dei lavori era stabilita entro due mesi da quello stesso giorno e avevo tutto il tempo di calmarmi. Per vario tempo non accadde nulla di strano se non per qualche scherzo di cattivo gusto, le giornate trascorrevano veloci e il primo mese volò.
Un'altra mattina come tante ero a scuola ed ero diretto a prendere i libri per le ore successive nel mio armadietto. Mentre lo aprivo, notai che i soliti si stavano avvicinando ma cercavo di dissimulare e di non dare loro importanza, perché pensavo: "Non saranno diretti per forza da me..." .
Mi sbagliavo enormemente. Mi circondarono, quindi gridai: "Spiegatemi cosa vi ho fatto!". Un tale, dai capelli color carota rispose: "Non sopporto i tipi anonimi, e tu lo sei". Non osai replicare e... Mi picchiarono tutti insieme senza avere alcun motivo, alcuna causa scatenante. Me ne tornai a casa come ogni giorno ma sanguinante e sofferente, e iniziai a "studiare" pensando che oramai in ogni situazione avrebbero potuto infastidirmi. Tutto ciò mi faceva innervosire, riflettere e angosciare. Dopo qualche ora mi diressi a dormire; intanto il giorno successivo mi ricoprirono di insulti, i professori erano indifferenti e anche se avevo voglia d'urlare non potevo.
Il sogno - Vita quotidiana - Lo sviluppo
Un'altra settimana passò e il termine per consegnare il lavoro era sempre più vicino. Non avevo intenzione di lavorare insieme a lui, ma dovevo. Intanto in questi giorni mi ero invaghito di una ragazza, che mi incantavo a fissare in ogni momento possibile. Penso se ne fosse accorta anche lei e chiunque intorno, sebbene non mi degnasse di alcuna attenzione, come del resto mi sarei aspettato. Io comunque non mi scoraggiavo e speravo sempre che qualcosa in lei cambiasse nei miei confronti. La rividi all'uscita da scuola ma non ebbi il coraggio di parlarle, così camminai per la mia via rimpiangendo stupidamente l'occasione perduta. Passavo tutto il mio tempo con quel viso al centro di ogni pensiero, anche di fronte ai miei libri nella mia stanza. Dovevo decidermi e cogliere l'attimo; quindi, il giorno successivo la cercai prima che suonasse la campanella all'inizio delle lezioni ma non la trovai, quindi speravo nell'intervallo.
Sperare ferisce.
Nell'intervallo, la vidi. Le sue labbra sulle labbra del mio nemico, il capogruppo. Non sapevo cosa fare, volevo vendicarmi di ogni cosa, solo che non sapevo come. La mia unica certezza era che avrei potuto avere la mia vendetta nel giorno in cui ci saremmo incontrati per il progetto di scienze. Quindi mi avvicinai a loro, li interruppi bruscamente e gli chiesi quale giorno preferisse per sviluppare il lavoro, lui mi rispose con tono molto acido: "La settimana prossima, giovedì pomeriggio. Adesso sparisci, non vedi che mi hai interrotto?". Lo stavo uccidendo con gli occhi, mentre il cervello imponeva di mantenere la calma; avrei avuto il mio momento di gloria. Me ne andai con la coda tra le gambe e aspettai inesorabilmente il suono della campana per tornare a crogiolarmi nella mia camera. Dopo essere arrivato a casa e aver pranzato, cominciai a pensare in che modo togliere la vita al mio ostacolo. Ebbene si, ritenevo che per oltrepassare lo scoglio dovevo distruggerlo.
Ad un certo punto ricordai che in soffitta un mio nonno aveva lasciato la propria collezione di coltelli, di media lunghezza ma molto affilati, che riteneva valessero molto. Nella contentezza più estrema, mi diressi nel piano superiore e scelsi quello che ritenevo più affilato e ben mantenuto e lo nascosi sotto il mio letto in attesa del giovedì successivo. Giorno dopo giorno sentivo un timore crescere anche se convinto della mia decisione.
Giovedì pomeriggio arrivò e come stabilito ci incontrammo in un parco che in quel giorno era deserto, data la pioggia e il freddo che nessuno si sarebbe aspettato; naturalmente portai con me la fiera lama risolutrice. Lo vidi da lontano con il suo fare da arrogante e il suo portamento fiero, c questo mi spingeva sempre più a concludere, ma aspettai il momento opportuno. Ci salutammo e ci sedemmo su una panchina a riflettere su quale sarebbe potuto essere il nostro progetto.
Mi decisi. Il cuore batteva sempre più forte. Una chiamata sul suo cellulare lo colse sprovvisto, sfruttai l'occasione. Presi di corsa la mia lama e la conficcai con rabbia nella sua schiena. "CHI È L'ANONIMO? DILLO ADESSO. VA A CHIAMARE I TUOI CARI AMICI, DOVE SONO?" gridai.
Dopo di questo, un'altra mezza dozzina di colpi a susseguirsi placarono la sua agonia.
E la mia rabbia.
Odio. Una parola così difficile da pronunciare, a volte così facile da provare... Non il mio caso. Sono stato deriso, preso in giro e messo in disparte; Avevano più forza di me, non solo fisica, ma anche psicologica. Una carenza che mi ha portato all'eccesso e all'overdose di rabbia che serbavo in corpo; tutto questo consumato nell'istante e nella foga di pochi attimi, attimi dove i ruoli sembravano invertiti, la preda era diventata il predatore.
Rumore di motori e il cervello si risveglia...
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