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Il fiore amaro dell'ailanto
«Che giornata! » esclamò il principe fermandosi ad osservare il Càssero scivolare come un fiume verso il blu cobalto del mare tra due sponde ininterrotte di antichi edifici che un cielo azzurro, acceso dal sole del primo mattino, caricava di rossi e di gialli.
«Voscenza s'abbenerica» salutò don Peppino senza interrompere le sue faccende mattutine.
«È propiu 'na bbedda jurnata ri suli, eccellenza... » aggiunse avvicinandosi lento alla soglia- poi, in un pallido italiano: «il buon dio ci regalò chistu soli che illumina la notte, peccato ca nun rinesce accussì bene a riscaldare lu nostru cori».
«Non è colpa del sole, » dichiarò con calma il principe «è che siamo un popolo infelice e malinconico, eternamente insoddisfatto e sempre alla ricerca di qualcosa... che sfugge... eppure certi di non poterla mai raggiungere. Siamo un popolo disperante! »
«Eccellenza chi cci voli fari, » replicò don Peppino allargando le braccia, «siamo vecchi e stanchi. Sì, stanchi eccellenza. Vitteru tuttu 'ste mura, » disse picchiando la mano nodosa sul legno dell'imposta.
«Eretici e autos da fè, apostoli e annunciazioni, rivolte e impiccagioni, restaurazioni, repubbliche, re e imperatori, cento conquistatori e tutte le lingue e le illusioni del mondo, hanno visto queste mura don Peppino, » confermò amaro il principe e continuando:
«siamo vecchi, troppo vecchi. E indifferenti. Sempre rassegnati e muti, pronti a piangere noi stessi. Sempre sconfortati... e con la segreta voglia in corpo di farla finita. »
Aggiunse quelle ultime parole sottovoce, quasi temendo che per tanto ardire, lì per lì, si abbattesse su di lui uno strale della collera divina.
«Vasàmo li manu» salutò l'uomo mentre il principe continuava la lenta discesa verso il mare.
Don Raimondo di Montecateno, ultimo dei principi di Leonforte, di antica e illustre discendenza catalana, era il perfetto prodotto di secoli di iattanza coscienziosa e di noia spensierata.
Abitava, come i suoi antenati da innumerevoli generazioni, il vecchio palazzo di famiglia nei vicoli ora sudici dell'Albergheria: una cupa costruzione priva ormai dei segni dell'antico splendore. Quelle mura avevano conosciuto tutta l'arroganza e i privilegi di secoli di ladronerie e di sprechi di quell'"orrenda razza spagnola" che aveva messo in ginocchio l'Isola, e tutto lo sfarzo e il lusso che solo la nobiltà Siciliana conosce. Ma dell'antico fulgore non era rimasto nulla oltre quelle mura e nulla dell'immenso patrimonio, dissipato dal bisavolo per la causa indipendentista ai tempi del Comitato Rivoluzionario di Ruggero Settimo, dal nonno tra tavoli da gioco e ballerine francesi e dal padre in folli spedizioni archeologiche alla ricerca della biblica arca di Noè.
La pazzia è nata in Sicilia e abita a casa Montecateno salmodiava la nonna di don Raimondo quando questi era bambino, aggiungendo poi in Siciliano:
« 'a fuddìa è 'na bbuttana ca si suca 'a nostra robba e li nostri figghi. »
E concludeva poi sempre allo stesso modo:
« però a mmia'un mi futti,'sta bbuttana! »
Neanche lei fece eccezione, finendo i suoi giorni sbavando rabbiosa dentro una cella spoglia nel convento delle carmelitane scalze di piazza Kalsa.
La pazzia è figlia di quest'isola assolata, ricordava fin troppo spesso a sé stesso don Raimondo, figlia della troppa fame, della troppa sete e della troppa abbondanza; figlia di montagne troppo aspre e nude che si tuffano in un mare azzurro e smisurato, figlia di un sole impietoso e di una terra scorticata dai troppi raccolti, figlia di troppa bellezza!
E don Raimondo, per fortuna o per disgrazia, si trovava ad avere un animo profondissimo e forse per davvero, come sostenevano in molti, sentiva più dei suoi simili e sapeva approdare, con il suo intuito, ad inusitate quanto ardite conclusioni cui altri, sospinti dalla forza della scienza o dalla potenza dell'argomentazione, non potevano mai sperare di giungere.
Egli credeva, per esempio, che la causa dello stato di prostrazione del suo popolo, la sua incapacità di guardare al futuro, non dipendessero dalla poca voglia di lavorare, come sostenevano alcuni, dall'indolenza o dal susseguirsi ininterrotto di gioghi stranieri, come sostenevano altri. Esse semmai erano conseguenze e non cause. Ciò che impediva ai Siciliani di partecipare ai capovolgimenti cosmici che affannavano il mondo, egli riteneva, era l'immensità stessa della natura e la vastità del tempo delle quali ogni Siciliano è inconsciamente consapevole e dalle quali è come avvinto.
Perché più di qualunque altro europeo, sosteneva don Raimondo, il Siciliano percepisce la vacuità dell'essere uomo e riconosce fondato e vero soltanto il governo della natura e della necessità degli eventi; eventi dei quali si sente attore o comparsa, a seconda dei casi, giammai regista.
E per tale attitudine il popolo Siciliano, argomentava il principe, ha vissuto la sua stessa storia da spettatore senza mai provare a costruirla o anche solo a correggerla e non ha mai considerato il corso degli eventi umani come una entità controllabile e assoggettabile a suo piacimento e pertanto si è sempre adattato ad esso destandosi solo per necessità, per causa di forza maggiore (ma pure lì , in fondo, sospinto dall'ineluttabilità delle circostanze). E ogni volta che la necessità l'ha indotto a risvegliarsi, asseriva don Raimondo, s'era sollevato con la forza di un Titano: così durante il Vespro o al tempo di d'Alessi, di Ruggero Settimo, di Garibaldi e ancora dopo al tempo dei Fasci, quando fu chiaro che l'unità era soltanto volgare colonizzazione piemontese.
E poi ogni Siciliano, continuava lucido nei suoi sfoghi il principe, ha visto intorno a sé, tutti i giorni sin dalla nascita, le magnifiche e diseguali vestigia di secoli di dominazioni straniere. Le ha viste nelle strade, nei palazzi, negli stessi nomi degli oggetti, delle persone o dei luoghi. Una diversità evidente persino nel colore della pelle, in quello dei propri stessi occhi. Migliaia di anni e decine di popoli, lingue, religioni, culture differenti hanno alla fine plasmato un popolo uno con una sola lingua, una sola religione e una sola cultura.
La vera lotta del Siciliano, pertanto, concludeva, non può mai essere quella contro il barbaro, contro il diverso, contro l'altro ma, al contrario, quella perpetua contro se stessi e contro l'asprezza della natura, contro il cielo maledetto, sempre azzurro e assetato, contro la propria stessa vita.
In fondo i Siciliani sono gli ultimi eredi del pensiero greco, amava ripetere con un pizzico di compiacimento don Raimondo cui non mancava certo la cultura pur non avendo alcun titolo di studio e alcuna professione, come i suoi avi prima di lui.
È inutile affannarsi, correre, pensare di cambiare, ripeteva, bisogna accettare se stessi e la vacuità del nostro essere in movimento: lasciamoci sommergere dal cosmo, proclamava con ardore alle consuete riunioni con gli amici. Solo se ci lasceremo pervadere dal divenire cosmico, solo allora diceva, troveremo la verità... e diverremo noi stessi verità! Il resto è solo arrogante illusione od orrendo delitto.
Ogni giorno il principe se ne usciva con una massima, una poesia, un pensiero su cui riflettere e a lui, per consiglio, si rivolgevano giovani e vecchi del quartiere, perché aveva il dono dell'intuito e sapeva cogliere i moti dell'animo e i sentimenti che animavano le persone meglio di chiunque altro e istintivamente tendeva a farsi carico delle sofferenze altrui, delle sofferenze del mondo intero in una maniera difficile da comprendere per chi non lo conoscesse profondamente. Forse è per questo o per altre ignote ragioni che le solite bocche ben informate malignavano che fosse un medium e che fosse in contatto gli spiriti dei morti se non, addirittura, con lo stesso demonio in persona... ma questo, adesso, non ha molta importanza.
Don Raimondo, benché non avesse mai lavorato, mostrava più degli anni che aveva: era alto e magro, con profonde rughe che gli tagliavano la fronte stempiata e imbiancata da una precoce canizie. Era, nell'assieme, un bell'uomo dall'aspetto tranquillo e di lui colpivano le mani, che erano grandi e forti e le dita lunghe e sottili, ben curate, che mostravano la distanza dal lavoro manuale.
Con lui vivevano la vecchia madre, donna Teresa, e la sorella Marianna, frutto, si mormorava, di una relazione incestuosa di donna Teresa con suo fratello, il barone Ignazio La Rua.
Il padre di don Raimondo, Giovanni, partito da anni non era più tornato indietro da quell'ultima spedizione sull'Ararat e si favoleggiava che vagasse ancora nelle steppe dell'Asia centrale alla ricerca di chissà quale favoloso tesoro dimenticato.
Donna Teresa, ormai anziana, era una donna forte e mostrava ancora sul viso, sotto l'aspetto severo e triste di chi cerca in tutti i modi di sopravvivere alla rovina della propria casa, i segni di un'antica bellezza.
La figlia, Marianna, più giovane di don Raimondo, non era bella, aveva un viso lungo e pallido, con occhi sporgenti, un po' obliqui, e uno sguardo inquietante, ardente, come di chi sia divorato da una oscura indicibile sofferenza.
Nonostante ciò non mancava di un certo, sottile, fascino che non faceva rimpiangere quella mancanza di avvenenza.
Marianna viveva ritirata, come fosse reclusa, prigioniera di quell'antico palazzo privo ormai di mobilia, con i soli splendidi affreschi e gli antichi arazzi quali unici ornamenti, vittima consapevole di una colpa che non aveva commesso, rassegnata a ricoprire un ruolo marginale in quella casa che non sentiva sua pur appartenendole.
Trascorreva le sue giornate in silenzio, ricamando e creando ricercati motivi decorativi per completi di lenzuola e di tovaglie, infelice eppur serena. Sottomessa di carattere, non chiedeva altro che far felice la madre e servire il fratello di cui riconosceva non tanto la superiorità intellettuale, quanto la superiorità del sangue essendo lui (lui sì!) un Montecateno, l'ultimo vero erede di secoli di storia.
Erano questi gli ultimi Montecateno.
E da quella storia, da quel magnifico passato, gli ultimi Montecateno erano come schiacciati, oppressi, incapaci di cogliere il presente alla stessa maniera, può darsi, di coloro che si affannano solo per il domani e che rinviano tutto ad un futuro che forse non giungerà mai.
Tuttavia, all'interno di quelle stanze vuote, tra i libri che era riuscito a salvare alle urgenze dei creditori, don Raimondo godeva di una condizione di particolare tranquillità, essendo l'unico e ultimo discendente maschio di una gloriosa e illustre casata e quindi il legittimo depositario di tutte le cure e le attenzioni di cui la madre e la sorella lo facevano oggetto e monumento.
Il nostro Raimondo lo chiamavano sia la sorella che la madre, le quali vivevano unicamente per lui e le cui uniche speranze erano concentrate su di lui. Che vivesse sereno, che non gli mancasse nulla, che magari arrivasse a celebrare un buon matrimonio dando un erede ai Montecateno.
Ma don Raimondo era un poeta e un filosofo, o almeno così si sentiva lui, e la sua unica occupazione consisteva appunto nel leggere e nello scrivere.
E non scriveva, a parte qualche raro articolo sul Giornale di Sicilia (e per cui rifiutava sdegnosamente ogni compenso) che per se stesso e per chi gli era vicino, fermo nell'invincibile convinzione che nulla di quanto producesse fosse realmente importante o degno di essere ricordato.
Scriveva solo per il gusto di farlo, per puro diletto direbbero alcuni.
In sostanza non aveva nulla di cui lamentarsi, poteva continuare a vivere nell'oblio, contando unicamente sul lavoro della madre e della sorella che si affannavano tutto il giorno cucendo e ricamando, consumando dita e occhi su trame e orditi.
E donna Teresa, consapevole della inadeguatezza di don Raimondo, sapeva che soltanto sfruttando il suo lavoro e quello della figlia sarebbe forse riuscita a risalire la china e a salvare la famiglia dalla rovina.
Con non pochi sforzi era riuscita a farsi una buona clientela nelle ricche signore della nuova aristocrazia palermitana, quella del denaro e non del sangue.
Grazie a donne viziate che non potevano fare a meno delle tovaglie e delle lenzuola ricamate dalle nobili mani delle principesse Montecateno di Leonforte, donna Teresa teneva in piedi la famiglia ed esercitava il suo ruolo con dignità e coraggio... e dei frutti di questo coraggio don Raimondo godeva e si avvantaggiava.
Il principe trascorreva quelle giornate di inizio primavera passeggiando serenamente nella grande corte del palazzo di famiglia, all'ombra di un maestoso aliànto piantato secoli prima dal suo avo Guglielmo Luigi III e che adesso si innalzava prepotente a sfidare il cielo occultando il sole e coprendo ogni angolo col frutto rossastro dei suoi rami.
Percorreva quel sentiero conosciuto riflettendo sulle pene degli uomini e del mondo, discorrendo dei massimi sistemi con don Peppino o con mastro Ajello, dibattendo di politica col notaio Maniàce e il farmacista Consales e di religione litigando con monsignor Agrusa.
Viveva senza preoccupazioni, senza fatica, come è giusto forse per chi può vantare nel proprio albero genealogico una mezza dozzina tra cardinali e viceré.
Aveva soldi a sufficienza per i suoi sigari, per qualche libro che lo interessava e per altri piccoli desideri; vestiva elegantemente, con tutte le cure che la sorella Marianna gli dedicava giornalmente, sempre in perfetto ordine, col vezzo del bastone da passeggio e del grande panama bianco e tutto questo, in definitiva, gli bastava.
Cosa contano le ricchezze del mondo, affermava sicuro, se si possiede dentro di sé tutta la ricchezza del mondo!
Di tanto in tanto, per svagare la mente, svolgeva qualche commissione per la madre, forniture di materiali o, più spesso, consegne di lavori già finiti o acquisizioni di nuovi ordini.
E questa, col passar del tempo, era divenuta quasi un'occupazione dato che le ricche signore dell'alta borghesia panormita adoravano vedersi recapitare i loro pacchi nientemeno che dal colto principe di Leonforte, al quale finivano poi per rivelare i loro travagli o gli affanni di cuore a cui i loro mariti, padri e fratelli non avevano tempo o voglia di porgere orecchio.
Don Raimondo viveva dunque solo, sebbene con due donne, perché alla fine non ne aveva alcuna.
Tuttavia qualche volta, tra un pensiero sublime e un'armonica visione, ci pensava seriamente a prender moglie, ma sentiva che quella strada gli fosse, in qualche modo preclusa; era come se, avendo già una famiglia, non avesse alcun diritto a crearsene un'altra.
La sorella viveva per lui, la madre lo proteggeva, i pochi amici lo apprezzavano, la gente del quartiere lo cercava, eppure don Raimondo, a volte, sentiva prepotente la mancanza di un qualcosa... o di qualcuno. E quel qualcuno, sempre più spesso, si materializzava nei suoi pensieri nelle fattezze di una donna. Una donna solo per sé, che lo amasse profondamente come lui profondamente sentiva.
Sapeva però che per prender moglie era necessaria una certa, seppur minima, indipendenza economica. E spinto dal desiderio di raggiungerla, dal desiderio del guadagno, per la prima volta in vita sua, si attivò per trovare un'occupazione qualsiasi che gli fruttasse anche un po' di denaro.
Grazie alle sue conoscenze e a quelle della madre trovò un non ben specificato impiego da svolgere presso gli uffici comunali della segreteria del P. N. F. . Era questo un lavoro che non richiedendo alcuna particolare capacità si adattava perfettamente all'indole di don Raimondo, che non sapeva fare niente ma che, allo stesso tempo, era disposto a fare tutto.
E così, pur vantandosi di essere uno spirito libero e un anarchico stavroghiniano(sic!), lavorò con entusiasmo per il partito fascista arrivando a dirigere da solo a tempo pieno una sezione locale del partito.
Divenne infaticabile, occupandosi della propaganda, delle iscrizioni, del bilancio, delle attività sociali, delle esercitazioni militari degli avanguardisti e il sabato dell'adunata fascista.
Scoprì di avere delle discrete attitudini ginniche e instaurò un profondo rapporto cameratesco con la squadra di picciotti che aveva formato.
Ogni domenica li conduceva in gita nei dintorni di Palermo, li portava a marciare per i campi, in montagna, lungo le spiagge, declamando versi di Byron e di Shelley e, in mezzo a tante attività, impegnato com'era ad esercitare le maschie attività cameratesche, la sua insoddisfazione sembrò placarsi.
Ma la pace ebbe breve durata.
Don Raimondo, spinto da un impulso irrefrenabile acuito dall'astinenza prese a frequentare il bordello di vicolo Villanueva e si scoprì di appetiti insaziabili; ma quel sesso sfacciatamente esposto e comperato come pesce al mercato mal si adattava al suo temperamento e ciò gli procurò ben presto un vago senso di vuoto e di soffocante inutilità che lo spinsero in un vortice da cui non si sarebbe più tirato fuori.
Accadde in quel periodo che don Raimondo organizzasse con i suoi picciotti una gita in bicicletta a Cefalù con pernottamento all'addiaccio: fu così che al termine di quella faticosa e calda giornata di fine primavera il principe ebbe la ventura di condurre l'intera maschia brigata di adolescenti all'assalto di un bordello dentro l'abitato della cittadina.
Alla testa di una dozzina di eroi irruppe nella casa urlando:
«suggete il sacro effluvio di queste buttane o miei arditi! »
E così incitandoli si tirò giù i calzoni tanto che infine, tra grida di donne e lo stupore dei legittimi avventori seminò il panico violando tutte le leggi che regolavano il meretricio nelle case di tolleranza.
L'avvenimento ebbe larga eco e fu quasi uno scandalo, non tanto per il fatto in sé, che fu ben poca cosa, ma proprio perché fu il principe a condurre lo sconclusionato assalto al bordello.
Il partito gli tolse ogni incarico senza far rumore e don Raimondo si ritrovò da un giorno all'altro nuovamente disoccupato a consegnare pacchi per la madre e a scrivere poesie che nessuno leggeva.
Le sue stranezze aumentarono e sia la madre che la sorella riconobbero i primi sintomi della malattia che aveva distrutto i Montecateno.
«Che hai Raimondo? » chiedeva donna Teresa con le lacrime agli occhi.
E lui, senza distogliere lo sguardo dal vuoto, rispondeva:
« chi guarda in faccia la disperante necessità impazzisce e l'unica salvezza è l'ebbrezza o il sogno. »
Donna Teresa capì.
L'estate passò e don Raimondo pareva essersi un'altra volta chetato, lentamente, come le onde del mare dopo giorni di tempesta, ricominciando a frequentare con assiduità il bordello di vicolo Villanueva.
Di donne, però, di donne vere, nemmeno l'ombra.
E sì che avendo ripreso a consegnare pacchi per la madre non gli mancavano certo le occasioni per fare delle belle conversazioni col gentil sesso, ma nulla sfociava poi in qualcosa di concreto.
Non che le donne, le donne vere s'intende, non lo gratificassero, anzi forse lo facevano eccessivamente.
Riscuoteva tanta di quella fiducia da non potersi permettere, paradossalmente, di avvalersi dei suoi diritti di maschio, prigioniero com'era del ruolo di intimo confidente, comprensivo, sicuro, al quale potere rivelare ogni affanno e ogni peccato.
Questa condizione, pur premiandolo, lo consumava ogni giorno di più, conoscendo egli ogni segreto di donna ma non potendosi comportare da uomo vigoroso qual era.
Ma a quella condizione decise di non rassegnarsi.
Informò la madre che si era deciso a prendere moglie, una qualunque donna, precisò e donna Teresa, ancora una volta, supinamente l'assecondò, nella speranza che una moglie placasse i furori del figlio e allontanasse lo spettro della malattia, ma nell'intimo convinta a tenerselo in casa folle piuttosto che vederlo legato ad una donna di origini plebee.
La moglie di un principe di Leonforte deve essere patrizia, si confidava con la figlia donna Teresa, una delle ragazze Alliata o una Torrearsa, temendo, se così non fosse stato, che il sangue di viceré e cardinali si mischiasse col fango.
Sulle sue povere spalle di vedova gravava la responsabilità di settecento e più anni di storia.
La voce che don Raimondo volesse prendere moglie corse silenziosa per la città, ma nessuna nobile pretendente al titolo di principessa di Leonforte si fece avanti.
Marianna soffriva in silenzio, com'era sua abitudine, sia per la madre che per il fratello che vedeva giorno dopo giorno scivolare verso un destino del quale percepiva l'ineluttabilità e di cui lei si sentiva, per qualche oscura ragione, causa. Quasi che dipendesse solo da lei il poter fare qualcosa, come se solo in lei riposasse l'unica possibile soluzione.
Dal canto suo don Raimondo continuava a scrivere, a consegnare pacchi e a dare segni di squilibrio.
Un giorno, andato a prendere un ordine per una tovaglia ricamata, gli aprì la porta la padrona di casa.
Era una bella donna sui quarant'anni, florida, dalla carnagione fresca e dagli occhi lucenti e maliziosi ed era avvolta solo da una eccitante vestaglia, che lasciava intravedere più che nascondere, presaga di inimmaginabili lussurie.
Al principe sembrò che il sangue gli prendesse fuoco nelle sue stesse vene e fu soprafatto dal desiderio e da una indicibile collera al pensiero che quella donna così meravigliosa non fosse sua ma di qualcun altro.
Sentì ribollirsi d'ira, come di chi non riesce più a tollerare la presenza di un odiato nemico.
Vide schiere di eroici antenati sfilargli innanzi con le else insanguinate, a incitarlo all'azione, alla violenza; sentì la forza di mille anni di rapine e di stupri irrigidirgli i muscoli... si sentì un Ares trasfigurato.
Lanciò un'occhiata insieme feroce e lasciva alla donna e si aprì i pantaloni, con un gesto quasi di sfida, rimanendo immobile a fissarle gli occhi scuri.
La donna lanciò un urlo.
Nessuno seppe mai niente: la ricca signora tacque la violenza subita, forse per paura, forse perché in fondo appagata dell'esser stata causa di tanto virile furore.
Tuttavia, in qualche modo, donna Teresa venne a sapere dell'accaduto, informata da non si sa chi, e la sua reazione fu furibonda e nulla poté salvare don Raimondo dall'ira e dai rimproveri della madre e, a malincuore, della sorella.
Dopo quel fatto don Raimondo si avvolse ancor di più in se stesso, prese a non uscire di casa, rifiutando ogni forma di comunicazione; si negò agli amici che venivano a trovarlo, chiuso in un ostinato silenzio, come se ogni parola fosse divenuta di colpo incapace di esprimere quel che provava.
Immobile, sdraiato sul letto ascoltava le invettive della madre:
«Rimminchionito! » urlava la povera donna esausta «como a ttu nonno. Fimminaro! Ma cchi c'haviti dintra ru ciriveddu? » imprecava disperata.
Marianna lo osservava di nascosto, imperturbabile e silenziosa: socchiudeva appena i grandi occhi innocenti e piangeva senza farsi notare.
Il suo don Raimondo non le parlava più, non rispondeva, stava supino nel letto, vinto dall'indifferenza... perso in cosmici pensieri... amante non amato, ossessionato e consumato da un'estasi amorosa che non trovava sfogo.
Vaghe immagini di amanti presero ad affollare la mente del principe e il suo amore si intrecciò e si confuse con quello di Dioniso per il giovane Ampelo che morendo si trasformò in vino donando l'ebbrezza agli uomini. E poi con quello di Ipermnestra per Linceo e con quello di Poseidone per Amimone e con quello di Danao per Asteria e di Alcesti per Admeto e di Orfeo per Euridice e con migliaia di altri ancora che sfilarono dinanzi ai suoi occhi in una lenta estenuante processione.
E alla fine di quella schiera rivide la donna che gli aveva fatto perdere il senno, nella sua vestaglia rosa, e la immaginò in mille situazioni che solo la sua fantasia poteva e sapeva alimentare.
Si abbandonava così alle più ardite e sconce elucubrazioni che lo portavano ad uno stato di incontenibile eccitazione. Si masturbava nel letto preso da queste sue allucinazioni e difficilmente si accorgeva che Marianna lo osservava spaventata, intenerita, socchiudendo l'uscio della sua camera.
Marianna sapeva che stava per perdere il fratello o per follia o per amore e, in entrambi i casi, sapeva che nulla avrebbe potuto restituirlo a lei e ai Montecateno. Si risolse allora all'unica decisione possibile in attesa che rinsavisse o che una nobile par loro non trovasse in lui un partito da non disprezzare.
Raimondo continuò a vivere in tale stato di torpore cosciente, rifiutando ogni presenza umana eccettuata quella della sorella che, con incredibile pazienza e senza cedimenti lo curava, lo vegliava, lo imboccava come si può fare con un bambino o con un malato, forse riconoscendo nel proprio fratello una malattia, una malattia di cui lei stessa era parte e colpa: la malattia dei Montecateno.
Don Raimondo la fissava riconoscente, muto, distogliendo appena gli occhi azzurri dai suoi per cercare il cielo al di là della finestra screziato da nuvole cremisi illuminate dall'ultimo sole delle corte giornate d'autunno.
E tra le nubi immagini di giovani donne si rincorrevano e si dissolvevano spazzate dal vento per poi tornare con tutte le tonalità cangianti dell'arancio e del viola del tramonto novembrino.
Intento a seguire aeree figure femminili carezzò la delicata mano di Marianna col suo viso pallido di lacrime e avvertì la presenza, la morbida fragranza della sorella che, silenziosa e leggera come una libellula, senza mai lasciare la sua mano, s'infilava nel suo letto.
Udì un profondo sospiro e si sentì prendere come da un'ondata di inebriante calore.
Guardò il cielo, ormai scuro, e gli parve che le fronde alte del gigante che dominava la corte, cariche di delicati germogli vermigli, muovendosi al vento, avvolgessero l'intero palazzo in un abbraccio modulato e voluttuoso.
Chiuse allora gli occhi senza riuscire a stabilire se stesse fantasticando ancora o se, finalmente, non stesse cogliendo il fiore amaro dell'ailànto.
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