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La "mia" guerra
In tempo di guerra, la seconda guerra mondiale, la casa
di mia zia era sovraffollata di ospiti eterogenei. C'erano molti
bambini, figli di fratelli della zia Adele, che erano lì unicamente per mangiare. Tutto era tesserato e tutto era estrememente scarso. Ma il marito della zia era gendarme pontificio e quindi poteva rifornirsi all'Annona del Vaticano
che aveva di tutto, perfino il pane bianco. Anche lì, tuttavia, c'erano dei limiti negli acquisti e mio zio Eustachio, il gendarme, raccontava che una volta Alcide De Gasperi,
cliente dell'Annona, prese tre filoni di pane. Il commesso
gli fece osservare che non se ne potevano prendere più di due al giorno. De Gasperi, che evidentemente non conosceva
la regola, restituì il terzo filone chiedendo mille scuse. Poi nella casa della zia, che si trovava a Porta Cavalleggeri, vicina
a S. Pietro, c'eravamo noi, mio padre, mia madre ed io.
La nostra casa era stata offerta da mio padre ad un collega che, nel bombardmento di S. Lorenzo, aveva perso la sua.
E infine c'era un giovane nipote di zio Eustachio, un ufficiale
che l'8 settembre aveva lasciato l'esercito e si era unito ad una brigata di partigiani insieme con il fratello più giovane.
Questo rendeva la casa un luogo pericoloso: spesso venivano
compagni del giovane ufficiale e tutti si chiudevano in una stanza dove rimanevano a lungo per progettare i loro piani.
Io, allora, avevo quindici anni e chissà che cosa avrei dato
per unirmi al gruppo di "cospiratori". Non lo chiesi mai. Sapevo che la risposta sarebbe stata negativa.
Eppure in quella comunità così eterogenea si era creato
un legame e, insieme, vivemmo momenti anche divertenti.
Una sera eravamo raccolti tutti, tranne l'ufficiale, attorno ad
un tavolo, a lume di candela a causa dell'oscuramento
imposto dai tedeschi che occupavano Roma. Lo zio Eustachio
raccontava storielle e barzellette. Ne stava raccontando una piuttosto macabra: un riccone, avendo perso una gamba si
era fatta costruire una protesi di oro massiccio. Quando morì
il becchino andò di notte a prendersi la gamba d'oro ma,
arrivato al cancello per uscire, una voce bassa e perentoria
lo ammoni: "Dammi la mi gamba d'oro, dammi la mi gamba
d'oro..." Lo zio parlava a voce bassissima e noi eravamo tesi ed eccitati dal brivido della paura. A quel punto un cane lanciò
un lungo ululato e noi, eravamo quasi tutti bambini, ci
ammucchiammo intorno allo zio che fece un balzo di paura anche lui.
Questa paura fu uno scherzo in confronto a quella che provammo una sera. Saranno state le 19. Mia madre e mia
zia preparavano la cena. Tutti gli altri erano sparsi nelle varie stanze. Un boato fortissimo fece tremare la casa e infranse
i vetri delle finestre. Terrorizzati ci ritrovammo tutti davanti alla porta d'ingresso. Il mattino dopo tutti i giornali gridavano allo scandalo: Roma, città aperta era stata violata dai
bombardieri americani nel suo luogo più sacro, il Vaticano.
In realtà accurate indagini appurarono, ma questo si seppe
dopo la ririrata dei tedeschi, che a bombardare la zona di S. Pietro erano stati proprio i tedeschi, per gettare discredito
sugli americani. La guerra è anche questo! Ci fu una sola
vittima, un uomo che fu colpito da una scheggia proprio sotto
l'immagine di una Madonnina posta a lato del portone di un Oratorio.
L'occupazione tedesca di Roma fu durissima. Ogni tanto Le S. S. bloccavano alcun strade: tutti quelli che vi si trovavano venivano avviati ai campi di lavoro.. Un giorno mio
padre si avviava con la sua bicicletta al posto di lavoro, il Deposito S. Lorenzo. Si trovava quasi all'altezza del Palazzo dell'Esposizione, in via Nazionale, zona rossa, cioè a rischio sicuro di deportazione. Una signora, affacciata ad una finestra di via dei Serpenti, faceva gesti concitati. Quando mio
padre la vide, la signora gli fece capire che doveva tornare indietro. Mio padre tornò indietro e così si salvò per la seconda volta. La prima era stata durante il bombardamento del Deposito S. Lorenzo dove caddero 180 bombe. Mio padre per motivi di lavoro era da un'altra parte. Gentile signora di via dei Sepenti, dovunque tu sia, che Dio ti benedica. Tutte le sere mio padre mi portava a Villa Celimontana. Affacciati alla balconata del punto più alto
vedevamo il bagliore dei cannoneggiamenti: gli americani erano sbarcati ad Anzio. E ricordo un giorno, non saprei precisare quale, in cui mio padre mi portò a Civitavecchia
che era stata bombardata pochi giorni prima. Era una città
spettrle, in una splendida giornata di sole. Era deserta e soffocata da un terribile puzzo di cadaveri. Devo ringraziare mio padre: il suo desiderio di farmi conoscere quello che succedeva, contribuì in modo determinante a formare la mia
coscienza civile e politica.
Ho "visto" anche, attraverso una telefonata di una parente,
strappare gli Ebrei dal Ghetto e caricati su camion per la deportazione. Cesira per telefono piangeva. Abitava in
via Arenula e i suoi occhi avevano visto una tragica tappa della Shoà.
E venne Pasqua. Pochi giorni prima il papa Pio XII aveva convocato i fedeli a Piazza S. Pietro. La piazza era pienissima.
Si percepiva un'attesa. l'attesa di una parola di conforto ad una popolazione che aveva tanto sofferto e ancora soffriva.
I tedeschio anche in quell'occasione non abbandonarono la
lunga striscia di marmo che unisce i due brcci del colonnato.
Il papa parlò e non fece nemmeno un accenno alla situazione
in cui si trovava Roma. Non voglio entrare nella polemica sul silenzio di Pio XII ma ricordo che, come si era percepita l'attesa, così si percepì, nettissima, la delusione. Gli applausi
alla fine del discorso di circostanza furono tiepidi. La folla uscì lentamente dalla piazza. Dall'altra parte del colonnato di destra, guardando la facciata della chiesa, c'era un posto di polizia.
Quelli che erano usciti da quel lato videro fermare un giovane.
Nessuno sapeva il motivo. Ma una voce isolata, in tono basso e supplichevole, si levò dalla folla: "Lasciatelo". Fu come
una scintilla che fa divampare un grande incendio. Mille voci, fra cui la mia piccola e tremante, urlarono: "Lasciatelo. Lasciatelooo!" La polizia evidentemente ebbe paura della folla e lasciò andare immediatament il ragazzo.
Tante cose avrei da raccontare, come l'uccisione di una donna incinta che sostava davanti ad una caserma di Viale G. Cesare dove erano rinchiusi i prigionieri politici fra i quali c'era il marito. Si chiamava Teresa. Sembra che a lei si sia ispirato Rossellini nel disegnare il personaggio interpretato da Anna Magnani in "Roma, città Aperta"
Vorrei chiudere questi ricordi, anzi flash disordinati della memoria di una quindicenne, con la ritirata dei tedeschi. Iniziò la mattina presto con i grossi cingolati, mentre gli ameicani erano già entrati nella via Casilina. Finì verso la mezzanotte. Da Porta Cavalleggeri dove sostai tutto il giorno,
tranne brevi pause, vidi gli ultimi tedechi, giovani diciottenni,
lasciare la città in bicicletta o a piedi. Mi fecero pena come il
soldatino che violentò la protagonista del romanzo "La storia"
di Elsa Morante. Lasciando un patetico bigliettino d'amore alla sua vittima non sapeva che andava dritto a morire.
Dopo arrivarono gli americani trionfanti sui loro carri armati dai quali gettavano cioccolate e sigarette. Devo
ringrazierli per averci liberato? Certo, li ringrazio ma devo anche ringraziare i moltissimi partigiani che non stettero ad aspettare la liberazione ma lottarono per la libertà organizzandosi nel Comitato di liberazione che fu un bell'esempio di pluralismo ideologico. C'erano comunsti, democristiani e perfino monarchici. E devo aggiungere che il mio grazie non può impedirmi di condannare il nuovo imperialismo degli USA che ha meso il mondo a ferro e fuoco con la guerra preventiva ed infinita.
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