racconti » Racconti drammatici » Il mazzo di rose
Il mazzo di rose
Un nuovo colpo mi ferì.
L'ennesimo.
Mi chiesi per quanto tempo sarebbe andato avanti così. Non sapevo quanto avrei resistito ancora.
Cercai di coprirmi il volto con le mani, salvando almeno quello.
Stavo accucciata in posizione fetale, mentre lui mi colpiva con il piede.
Il dolore affondava nel mio stomaco regolarmente, come una lama senza pietà.
Non sentivo nulla, ormai vi ero abituata.
"Amore, amore mio, ti amo troppo ma ogni tanto sbaglio. Non volevo farti del male, ma non ero in me, perdonami. Sono stato stupido e impulsivo".
Sapevo che sarebbe andata così: mi avrebbe picchiata fino a stare male, sarei rimasta distesa per ore, immobile, a piangere.
Lui, finite la rabbia e le energie, se ne sarebbe andato, senza dire nemmeno una parola, come se nulla fosse accaduto, come se io non esistessi.
Avrei aspettato che la porta si chiudesse alle sue spalle, poi mi sarei alzata, anch' io come se niente mi avesse scossa. Mi sarei fatta una doccia, avrei messo il ghiaccio sui lividi, i cerotti sulle ferite e avrei sorriso allo specchio.
Sorridevo sempre al mio volto tumefatto e alla mia prigione infinita.
Lui sarebbe tornato poco dopo, con l'espressione da martire, le lacrime agli occhi e un mazzo di rose rosse, pronunciando sempre la solita frase.
Cos'altro potevo fare, se non credergli? Così avrei preso un bel vaso per le rose e avrei baciato il mio uomo selvaggio.
Lo amavo e bisogna prendere il proprio marito per quello che è, se si vuole che lui ci ami a sua volta. La realtà è cruda e se si vuole un frammento di felicità bisogna soffrire.
La mia felicità erano le rose che mi regalava, tutte le mie amiche ne erano invidiose. I mariti delle altre donne sono sempre troppo impegnati per regalare loro dei fiori.
Io, le mie rose, me le sudavo, me le stavo guadagnando in quel momento, a suon di calci e schiaffi.
Smisi di gemere dal dolore, smisi di udire le sue grida ossesse.
Ormai avevo imparato a non gridare più, quando aveva i suoi momenti. Sussurravo e supplicavo, anche se sapevo che non mi avrebbe mai ascoltata.
Non si dovrebbero viziare i propri mariti, il mio mi batteva da anni, ma io non mi ero mai opposta davvero.
Cosa avrei dovuto fare? Eravamo sposati da tanto, ma aveva iniziato a farmi dei regali soltanto dopo l'inizio del vizietto e, io, adoravo i fiori.
I calci e le botte un po' meno.
Continuava a dimostrarmi il suo amore e la sua devozione accarezzandomi con le scarpe, ma cosa dovevo fare io, se non sopportare? Presto sarebbe finito.
Aspettai che finisse le energie e raggiungesse la massima soddisfazione, cercando di non emettere suoni.
Gridò offese incomprensibili e con un un ultimo calcio, forte, sofferto, mi fece piegare in due come un animale.
Cos'ero io? Donna o bestia? Cane o moglie? Non potevo rispondermi, tutto quanto era confuso, nella mia mente offuscata.
Mi accorsi che se n'era andato. Tesi l'orecchio e ascoltai il silenzio.
Non piansi e mi alzai, diretta verso il bagno.
Aprii l'acqua calda e mi dedicai al rito della doccia calda che tanto agognavo.
Tra poco sarebbe arrivata la felicità.
La mia felicità personale, tinta di rosso, profumata di rosa.
Quella felicità pura, che mi rendeva importante ai suoi occhi.
Il simbolo del suo amore per me.
La mera felicità che mi portavano quelle rose, belle, ma rosse come il mio sangue, recise come la mia libertà.
Ne valeva la pena? Era davvero questa la mia vita? Fatta da un mazzo di rose rosse, piangenti e addolorate, spinose e vulnerabili, ferite come me. Imprigionate in un vaso, come la mia libertà prigioniera di quell'uomo.
Oppure era la libertà di correre in un prato verde, al sole, di ridere, urlare e ascoltare il vento che soffia sul mio volto, delicato come le botte di mio marito non sono mai state?
Uscii dalla doccia ristorata e più forte, sicura di ciò che volevo.
Amare chi mi distruggeva per essere amata a mia volta era stupido.
Mi vestii di fretta, indossando quei vecchi Jeans che a mio marito non piacevano, diceva che mi facevano somigliare ad una bambina, che non ero donna.
Invece lo ero. Non basta uno straccio, nemmeno uno schiaffo, per farmi smettere di essere ciò che sono.
Mi sedetti tranquilla in salotto, in attesa del suo ritorno, in attesa delle rose.
Passarono minuti, forse ore, ma io non mi mossi di un millimetro, in attesa.
All'improvviso la porta cigolò e dei passi riempirono la pace del silenzio. La faccia tormentata del mio uomo fece capolino, subito seguita dalle rose, la mia felicità.
"Amore, amore mio, ti amo troppo ma a volte sbaglio. Non volevo farti del male ma non ero in me, perdonami. Sono stato stupido e impulsivo".
Ascoltai le sue parole, impassibile. Conoscevo quella scena da diverso tempo, non avevo bisogno di fingere stupore.
Quella farsa era divenuta patetica.
Sorrisi e presi le rose dalle sue mani, andando in cerca del vaso più bello di tutta la casa, per sistemarvele.
Lui mi aveva seguito e continuava a parlare, ma io non lo ascoltavo. Non dovevo ascoltarlo per sapere le menzogne che stava dicendo.
Ero pronta ad usarle, ad usare le mie rose per la mia libertà.
Mi voltai e la sua faccia tormentata mi fu davanti.
Non era più tanto bello e non lo amavo nemmeno quanto avevo creduto fino ad allora.
In un secondo il vaso si ruppe sulla sua testa, lasciando cadere le rose come pioggia sul pavimento, assieme al rosso del suo sangue.
Il rumore cristallino che provocò quel contatto, mi diede una nuova consapevolezza: soltanto io potevo decidere per me stessa, nessuno poteva impadronirsi di me.
Quell'estraneo steso sul pavimento, privo di sensi, ne era la prova.
Chi era l'animale tra noi due, adesso? Chi aveva potere? Tutto apparve di nuovo patetico.
Lo guardai nella sua umanità e afferrai la borsa, senza riflettere.
Vederlo steso, solo, innocuo, era l'inizio di una vera felicità.
Distolsi lo sguardo, satura di disprezzo e me ne andai, senza chiedermi nemmeno cosa mi avrebbe riservato il futuro, una cosa sola era chiara e indelebile: nella mia nuova vita non volevo un altro mazzo di rose per essere felice.
123
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- Un tema attuale quanto antico, la sottomissione della donna! Un tempo c'era la clava e l'immagine della donna trascinata per capelli dal suo uomo... ma oggi le cose son cambiate e nessuno dovrebbe essere più vittima impassibile, come tu hai descritto, di un altro.
Certo il motivo non erano le rose ma l'amore, le rose son sicura che son state prese a spunto, solo chi non lo ha vissuto non lo comprende! Paralizzata lì sotto quei colpi, non per paura ma per amore...
Molto molto profondo il tuo racconto dai toni forti smorzati dalle rose!
Ti dico brava anche se vorrei abbracciarti
- ... la cosa che apprezzo di più in ogni artista, ma specialmente in uno scrittore, è indubbiamente la fantasia; e tu ne hai da vendere... unita per giunta ad uno sbalorditivo senso pratico di descrizione che, semplice ma non scontata, in questo caso ha potuto coniugarsi con la sintesi saggia che solo chi ha perfettamente impressi nella mente tutte le sfumature e le nuances dei caratteri cromatici dell'immagine, può condesare senza errori in contorni netti e definiti; scevri di qualunque altro fronzolo superfluo. Mi ero invaghito del tuo stile dopo aver letto "lo stesso giorno"... adesso me ne sono innamorato!
- condivido il finale. Ci deve essere il riscatto. Se vuoi leggi "Rabbia nei fiori" che è ispirata da uno stupro con conseguenze positive per la donna e" Istinto" quella striscia sottile che divide la consapevolezza di un'azione dall'atto di compierla. Sono contenta di come sia finito il tuo racconto e come donna dico: " mai sottomettersi alla supremazia maschile nemmeno quando è verbale subdola e più invasiva".
- Composizione davvero piacevole su un tema davvero difficile, sia da immaginare figuriamoci da raccontare. Nonostante il finale lo si intuisca già da un pezzo sei riuscita lo stesso a regalare un grammo di pathos. Cara Natascia a me è piaciuto
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0