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Nel Bianco
Il conducente scalava le marce con decisione preparandosi ad affrontare la salita della collina. Le vibrazioni trasmesse agli occupanti del vecchio autobus della linea 16 erano, se possibile, più forti del solito ma per l'uomo leggermente assopito, seduto al posto immediatamente dietro il guidatore, erano una manna dal cielo. Morbidamente cullato sedeva con la testa parzialmente appoggiata al finestrino, lottando strenuamente con le palpebre che non volevano saperne di starsene aperte. I suoi confusi pensieri vagavano fra brandelli di ricordi e il disperato tentativo di mantenersi sveglio. Le sue mani, caparbiamente assicurate al reggi mano per contrastare le curve del mezzo, gli trasmettevano il freddo del metallo a cui lui tentava di aggrapparsi per tornare alla piena coscienza. Non che mancasse di sonno, in effetti, ma si lasciava andare perché l'autobus gli induceva quella dolce sensazione di irresponsabilità offerta dal lasciarsi passivamente trasportare, senza doversi preoccupare neppure di una fermata a cui scendere. Perché effettivamente non vi erano fermate a cui dovesse scendere. Sarebbe sceso, si, certo prima o poi, pensò, ma quando e dove...
Infine chiuse gli occhi arrendendosi con piacere alla sconfitta.
"Che tempaccio, eh?"
"Dico, che tempaccio, non le pare?!"
Non era la voce di suo padre, che stava pochi istanti fa con lui sul lungomare di Genova porgendogli un panino con le alici, ma quella del conducente.
"Mmhh ah si certo, che tempaccio. Nevica proprio tanto oggi." Rispose srotolando la lingua impastata. Aveva dimenticato che occupando i posti più prossimi al fronte del mezzo si cadeva immancabilmente nella logorrea del giovane conducente.
"Per fortuna la strada è sgombra, oggi." Replicò l'uomo aggiustandosi il berretto con il marchio della compagnia dei trasporti.
Oggi, si, ma anche ieri. E anche l'altro ieri. Anzi non ricordo di un viaggio in cui non abbia nevicato, in verità. Penso riappisolandosi e ritenendo di avere fatto la sua parte in quello straccio di conversazione. Ma per il conducente, che evidentemente si annoiava a morte, non era così.
"Scusi, lei che lavoro fa? La vedo sempre qui ma non mi ha mai detto di cosa si occupa."
"Ehi, signore?!" esclamò voltandosi un attimo.
Un russare sommesso rispose alla domanda del conducente che, insoddisfatto, tornò a guardare la strada, scartò una caramella e la portò alla bocca.
"Senti com'è buono" stava dicendo suo padre porgendogli un panino "queste sono le alici di Genova. Non ce ne sono di buone così da noi." Il bambino guardò verso l'alto. La larga tesa del cappello si stagliava contro l'azzurro cielo del Tirreno lasciando in controluce il volto paterno. Appena gli occhi si abituarono al contrasto gli apparve il familiare monocolo d'oro poggiato sul naso aquilino e i grandi mustacchi puzzolenti di fumo con i quali adorava giocare quando, raramente, il padre lo prendeva in collo.
Riaprì lentamente gli occhi e restò leggermente abbagliato dai campi innevati che scorrevano lenti oltre il finestrino. La neve vorticava in ampi mulinelli attorno al mezzo formando una sostanza quasi densa, schiumosa, come se l'autobus nuotasse nelle acque limacciose di un bianco fondale lacustre.
Prese dal taschino la pochette per asciugarsi il sottile filo di saliva colato durante il sonno dall'angolo della bocca, assestò il soprabito scomposto e sbirciò attorno a se, per assicurarsi che l'operazione non fosse stata scorta dagli altri passeggeri, quindi tornò a guardare fuori.
Quando sarebbe accaduto, si domandava, e com'era il "dopo"?
Il paesaggio stava per cambiare, fra poco sarebbero apparse le prime case del paese, la fascina di legna sparsa davanti al fienile grande, poi il campanile della chiesa e i due bambini che guardavano passare il treno al passaggio a livello. Dunque, vediamo. Tre, due, uno, eccoli! Perfetto, ci si sarebbe potuto regolare l'orologio. Ormai conosceva il percorso a memoria in ogni dettaglio. E mai una volta che scovasse, che so, un particolare fuori posto o semplicemente diverso. Anche le sfumature del cielo erano identiche. La nuvola a forma di drago sulla destra e poco più in alto la pecora, o meglio quella che lui chiamava pecora perché magari gli altri. Si perché anche loro erano più o meno gli stessi, molti ne aveva visti scendere, altri salire ma mai nessuno che una volta sceso dall'autobus vi avesse fatto ritorno. E sapeva perché. Tutto uguale eccetto i suoi pensieri, quelli cambiavano costantemente. Ma se invece non fosse così davvero? Se invece anche i suoi pensieri fossero sempre gli stessi e solo a lui paresse di pensare cose diverse ogni volta? Scacciò frettolosamente quelle riflessioni, si appoggiò nuovamente al vetro e prese a disegnare col dito sulle goccioline della condensa che vi si erano formate. In fondo stava bene, era in salute, aveva il suo libro, aveva i suoi piacevoli ricordi e lo aspettavano tante novità, perché cadere in questi cupi pensieri?
Disegnò un cuore, piuttosto grande, come faceva da bambino, poi, proprio come allora mosse rapidamente il dito all'interno del disegno come se potesse colorarlo e sentì la voce della nonna che diceva "basta lascia stare il vetro che poi restano i segni e devo pulirlo io." La nonna gli faceva poggiare il viso sul suo grembiule ruvido sparpagliandogli i capelli mentre lui si inebriava del profumo del sapone di Marsiglia, profumo di casa.
"Posso?" La voce femminile che gli si era rivolta apparteneva alla "ragazza con la pelliccia di foca" come l'aveva soprannominata lui. Di solito stava seduta verso la metà dell'autobus, a volte anche in fondo.
"Prego, accomodatevi, è libero." Rispose l'uomo levando il libro appoggiato al suo fianco sul sedile.
La ragazza non aveva bisogno di osservarlo per sapere com'era, l'aveva visto tante volte sull'autobus ma non si era mai avvicinata a lui né vi aveva scambiato una parola.
"Com'è?" chiese indicando il volumetto che l'uomo adesso teneva in mano.
" Notevole devo dire, piacevole e ben scritto anche se qua e là cambierei qualcosa. E il suo?" disse indicando il grosso volume dalla copertina azzurra che spuntava dalla borsa semiaperta della ragazza.
"Affascinante ma io di cose ne cambierei parecchie."
"Parla dell'inverno? Vedo che il titolo termina con la parola neve. Appropriato alla nostra situazione, direi."
"Beh è ambientato nel nord Europa. Si la neve è il tema dominante e il suo dove è ambientato?
"Italia, nord Italia in Liguria e poi, verso la metà in Lazio, fra le due guerre più o meno."
L'osservò un momento con attenzione. Era un uomo sulla quarantina, non obeso ma piuttosto in carne, indossava un bel soprabito blu scuro sopra una marsina grigia con tanto di orologio d'oro. Quasi calvo portava con modestia un paio di sottili baffi alla Umberto.
Frugò nelle ampie tasche della sua pelliccia di foca e ne estrasse uno specchietto comprato a una bancarella. Indagò con attenzione nell'occhio destro per rimuovere un bruscolo o forse un pelo che la stava infastidendo da qualche minuto. Il piccolo tondo di plastica le restituì il viso di una ragazza giovane, scura di pelle, armata di un viso duro, sofferto, combattuto, il suo.
L'autobus si stava arrestando davanti a una piccola tettoia. Era una costruzione non destinata a durare, con struttura in acciaio o alluminio, una piccola panchina, vetri semitrasparenti sul verde. Una giovane donna sedeva sulla panchina di plastica. Quando l'autobus aprì le porte la donna, che indossava un elegante sovra costume azzurro, teneva in mano un ombrellino da sole di pizzo ed aveva accanto a se un cagnolino bianco, salì con sussiego, concedendo appena una distratta occhiata ai presenti.
Gli occhi scuri della ragazza seguirono la donna realizzando che, fatta eccezione per i due cowboy seduti sul fondo, lei era qui da più tempo di tutti. Dentro di sé sentiva come un vulcano in eruzione, e stava lì ad aspettare. Aspettare poi che cosa? Che qualcuno le facesse vivere una vita non sua... si forse la sua vita ma che non era poi sua, però. Ok, magari le corrispondeva, magari era proprio fatta per lei, ma non l'aveva decisa lei! I suoi sentimenti, che avvertiva profondamente inespressi, sarebbero stati sviluppati così, secondo il volere di un altro, attrice di un copione ancora da scrivere e senza alcuna voce in capitolo.
Sentì la voce dell'uomo seduto accanto, guardava fuori. "Ansiosa?" le chiese
"Ansiosa? E di cosa, scusi?"
" Di essere chiamata" rispose lui senza spostare lo sguardo dal vetro "di vivere la sua vita. Quello che aspettiamo tutti."
Infastidita percepì una fugace occhiata di lui alle sue mani e si vergognò improvvisamente per le screpolature dello smalto sulla punta delle dita. " Mah, non saprei, si, forse. Ma crede che si tratterebbe della mia vita? ".
"Beh, si, certo. La vita che le spetta comunque, siamo qui per questo, no? "
"E lei, lei l'aspetta con ansia?"
"Oh no, mi creda, signorina, per me tutto è così naturale, che non ho fretta, aspetto che accada ciò che il destino mi riserva."
La ragazza si volse a guardarlo negli occhi.
" Ma ha mai pensato che non sarà mai lei a decidere ciò che farà? Ogni cosa che penserà dirà e vivrà sarà sempre e solo d'altri."
" E allora?! Crede forse che qualcuno possa veramente scegliere nella vita? Può qualcuno forse decidere senza condizionamenti, ascoltare e mettere in pratica ciò che il cuore gli detta? O il meccanismo delle convenienze, delle parole non dette, dei propri inascoltati e sommessi pensieri, quelli inaccettabili perfino a noi stessi e che mai potremmo esplicitare esponendoli al giudizio del prossimo, non sono destinati a restare per noi come per tutti gli altri pagine chiuse nel cassetto più remoto della nostra esistenza?".
"Può anche non essere così!" sussurrò lei.
"Forse, forse ma non per noi, non in questa esistenza. E adesso mi lasci in pace. Questa discussione è durata abbastanza,!" rispose l'uomo poggiando indietro la testa e chiudendo gli occhi.
Ma le parole della donna turbinavano come neve nella sua testa. Non ho scelta non ho scelta, non ho scelta, e chi la vuole la scelta! Io sto bene come sono, non voglio scegliere. Che cosa significa poi scegliere e fra cosa, non saprei da dove cominciare, non ho mai dovuto scegliere.
Ma dormire proprio non era possibile, rivide i giorni della sua infanzia al podere della Stia. Per un momento odori e colori di quella casa fluirono dentro di lui per riportarlo piccolo, con le mani in tasca a stringere una pallina umidiccia che doveva avere ancora da qualche parte. Era stata un dono del padre reduce da un viaggio per mare al termine di un piovoso pomeriggio di ottobre. La stringeva in tasca appoggiato al davanzale quando la corte della Stia, vista dall'alto, pareva il disegno incompleto di un bimbo ansioso di passare a un altro foglio, con lo sfondo grigio cemento e il giallo delle foglie cadute mescolato furiosamente alle colorate chiome dei sempreverdi. Qua e là una macchia di colore offerta dal tetto di una carrozza violentava senza cura la trinità di quei toni. Doveva trattarsi di carrozze, macchine agricole o delle prime automobili ma non le distingueva bene a quella distanza e infatti l'anno successivo avrebbero scoperto il suo difetto alla vista, ovviando con il paio di occhiali che avrebbe indossato per il resto della vita.
La ragazza si sporse leggermente sopra di lui per pulire il vetro dalla condensa e guardare fuori. Rimase per un attimo avviluppata nella neve, le pareva di sentirla scivolare fredda e morbida sulla sua pelle, sentiva lo strusciare pesante e rasposo delle lame della slitta sui pendii ghiacciati della Groenlandia. I cani abbaiare.
Una curva inattesa del mezzo le fece sentire l'equilibrio più instabile e dovette appoggiarsi improvvisamente al bracciolo presso al finestrino. Non era la pelle fredda e sintetica del sedile ma la calda mano di lui che le sue dita esili incontrarono. Anche lui aprì gli occhi come se quel tepore sconosciuto, con la violenza di una scossa elettrica, avesse acceso un faro che giaceva sconosciuto nella sua notte. L'uomo investito dal suo odore, scorse incredibilmente vicina la grana bruna di quella pelle levigata dall'artico e si perse nella tormenta. Lei non c'era, non avrebbe dovuto esserci, lo sapeva. Quel fuoco non poteva essere acceso per lui. Richiuse gli occhi con dolore per lo sforzo ma quando li riaprì fu investito da quelli di lei, a pochi centimetri dal suo volto, lo fissavano perduti. Quella profondità, quell'abisso caldo che per la prima volta lo sprofondava nella nudità del sentire, spalancò con uno schianto i polverosi solai della sua vita.
Lame di luce violenta filtrarono per la prima volta, dopo un eterna oscurità, sulle casse di vetro dei suoi ricordi. Illuminarono la vecchia bicicletta arrugginita con cui rotolava i suoi giorni di bambino, il grammofono del nonno, e una scatola di latta con le foto di una vita, dai primi dagherrotipi a qualche più moderna foto su carta Kodak. Camminò lieve su quei fasci di luce, scendendo dal cielo ed entrò nel solaio. Le sue mani, sfiorando la polvere sulla scatola di metallo vi tracciarono curiosi arabeschi, poi, lentamente l'aprirono. Prese le foto fra le mani, per guardarle e le voltò. Tutte bianche, centinaia di rettangoli bianchi da ogni lato che caddero dalle sue mani sempre più giù a decine migliaia, centinaia di migliaia di fiocchi bianchi sempre più distanti, sempre più piccoli, come neve. Riportò a fuoco la vista, osservava sempre dal finestrino, fuori stava nevicando copiosamente. Quando si voltò lei non c'era più, Mattia, che viveva sempre un solo presente, era un uomo senza passato e senza futuro.
Alla fermata successiva entrambi furono chiamati e scesero. Sul sedile dietro al conducente giacevano due libri abbandonati: Il Fu Mattia Pascal e Il senso di Smilla per la neve.
Sedeva sulla panchina sotto la pensilina un giovane biondo, di chiara origine nordica con un naso stretto e affilato sui trentacinque anni, avvolto in una grande sciarpa posata su una giacca di lana pesante, le dita sporche d'inchiostro. Poco distante da questi, in piedi, stava un uomo elegantemente vestito, quasi calvo con un curato pizzetto bianco, un papillon scuro, guanti di pelle e un ombrello sul braccio, pareva uscito da un altro secolo.
Smilla e Mattia, fermi davanti alla pensilina guardarono i due uomini che li attendevano, poi cercarono l'una lo sguardo dell'altro, Mattia offrì il braccio alla giovane e minuta ragazza, aprì l'ombrello per proteggerla dalla neve e scomparvero nel bianco.
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0 recensioni:
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- Amici, questo racconto è finalista in un premio letterario! È la prima volta per me dopo un riconoscimento per un libro segnalato dalla critica ad un premio piccolo.
- Voi siete assolutamente troppo generosi, ma tengo i vostri commenti come riserva per i tempi più duri. Verranno, come sempre.
Se me lo faranno passare fra poco ne manderò un altro ma molto diverso perchè pochi dei miei racconti sono molto assimilabili fra loro.
Grazie!!!!
- bellissimo questo tuo racconto, scritto in maniera impeccabile!!! Mi unisco al commento di Guido nel dirti che i tuoi complimenti per il mio racconto ora acquisiscono un valore maggiore, vista la tua abilità!!!
A presto rileggerti
- molto bello! ricevere i tuoi complimenti ora che so che scrivi così bene è motivo d'orgoglio per me. senza pause e senza noia, il racconto si legge in un bicchiere di vino
piaciuta!
Guido
- .. ma sei tu?
- ciao Antonio...
piaciutissimo il tuo racconto...
mmmmmmm un po' meno la tua immagine... la mia immagine senza testa...
ah ah ah
- Ora provo...
Anonimo il 19/05/2010 20:08
Antonio... non dirmi che nessuno ti ha detto che avete la stessa immagine! Molto bella, per giunta. Sarebbe stato bello che lei fossi tu e tu fossi lei... una specie di incontro strano come quello del tuo bel racconto. Clicca Dolce Sorriso e vedrai. Ciao.
- Grazie Giacomo e Nunzio.
Io sono senz'altro un uomo di carta ma non so chi possa essere il Dolce Sorriso a cui fai riferimento... vuoi illuminarmi?
Anonimo il 18/05/2010 14:11
Gran racconto... impegnativo, scritto in modo originale. Un incontro fuori dal comune come è quello fra due romanzi diversi che non avrebbero mai immaginato di avere qualcosa in comune. In fondo in fondo non sono certo di aver capito le metafore... se ce ne sono. Ma certo il racconto è veramente buono... un esordio alla grande!
P. S. tu sei l'uomo di carta scritta e lei è Dolce Sorriso o è un caso?
Anonimo il 17/05/2010 12:57
Ottimo! Ben scritto, lungo ma non faticoso. Mi è piaciuto molto!
- Grazie quasi omonimo...!
Anonimo il 16/05/2010 19:25
Un vero racconto che tiene alta l'attenzione fino alla fine! Io l'avrei diviso in due parti, vista la lunghezza
Molto piaciuto 5 stelle
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