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Storia breve di un paio di scarpe
Il viaggio era cominciato dalle parti della piccola città, sul fiume. Sapevamo che sarebbe stato difficile, ma nessuno pensava che così pochi di noi ce l’avrebbero fatta. I primi a lasciare la compagnia furono i tacchi. Arrivati al primo avamposto, senza dire né a né ba, s’alzarono l’un l’altro (vale a dire alzarono i tacchi) e chi li vide più. Di certo se se ne andarono, significa che si portavano dentro un grosso peso. Fu in ogni caso un peccato perderli così: erano pur sempre persone di un certo spessore.
A seguire il loro esempio, dopo molti chilometri, furono le suole. Tuttavia la loro dipartita fu salutata da molti con un certo sollievo. Infatti, manifestavano (e devo dire, con insolita costanza, per delle personalità così piatte) una forte tendenza a calpestare l’altrui parere o volontà. Ad ogni modo al loro allontanarsi, l’atmosfera tra i membri di quest’inedita spedizione, sembrò farsi molto più distesa.
Dico sembrò, perché purtroppo gli eventi dovevano volgere al peggio nel giro di qualche ora. Il repentino abbandono delle suole permise ad altri di mettersi in mostra, anche se sotto una cattiva luce. Le suolette (questa la loro identità), della cui presenza quasi nessuno si era accorto, cominciarono in breve ad ottenere l’attenzione generale. Ma questo solo a cagione delle querule lamentele che a ritmo incessante essi volgevano ora ad uno, ora ad un altro, tutte di questo tipo:
“Rallentiamo, il terreno è troppo accidentato, usciranno delle vesciche” oppure:
“C’è troppo umidità, poco poco stasera ci avremo di quei reumatismi…” e così via.
Poi quando ti offri di aiutarli, ti guardano con aria schifata e ti rispondono:
“Allontani quelle manacce sozze! Ce la caviamo benissimo da suole.”
C’è poco da meravigliarsi, questi tipi dell’interno, leccapiedi patentati, vivono con la puzza sotto al naso. Ma, com’era prevedibile, non resistettero che poco, pochissimo tempo in quella situazione avversa. Logorate dalla fatica e dallo stress psicologico, un bel giorno, uscite dal gruppo e sedutesi su un verde prato, dissero:
“Solo per cinque minuti, poi vi raggiungiamo”.
Furono le ultime parole che udimmo da loro.
La strampalata comitiva aveva già perduto diversi suoi elementi. Cominciò allora a serpeggiare tra noi un sentimento nuovo. Dapprima subdolamente, poi in modo sempre più manifesto, il timore di non riuscire nell’impresa ci assalì uno ad uno. Tuttavia, a dispetto delle previsioni più nefaste, per molti giorni non succedette nulla. Camminammo incessantemente per chilometri e chilometri, senza avvertire la benché minima fatica. Col tempo imparai a conoscere a fondo tutti gli altri membri, ognuno con le sue piccole manie, coi suoi veniali difettucci, ma tutti dotati di grandi virtù.
A stringere rapporti tenaci, ma non solo con me, furono per primi i lacci. Sull’aspetto esteriore non avevano nulla da invidiare a chicchessia: fisico asciutto e longilineo, tutti pelle e nervi, e non un filo di grasso (beninteso, c’è a chi tipi così proprio non piacciono, ma, si sa, de gustibus…). Ma quello che veramente mi colpiva, era il loro profilo psicologico. Rare volte in vita mia ho incontrato personalità più contorte. Nelle nostre lunghe giornate di cammino, non disdegnavo di passar molte ore parlando con i lacci del più e del meno ed ogni volta le loro fantastiche argomentazioni mi portavano da una parte, poi dall’altra, poi di nuovo da questa, costringendomi a complicati esercizi di concentrazione, intrecciando parole, frasi, locuzioni, in un orgiastico turbinio di lemmi che giungeva ad un climax di rara complicatezza, prima di risolversi, come per magia, in conclusioni tanto semplici (direi: lineari) che avreste esclamato: “Come ho fatto a non arrivarci da solo…”. La cosa più stupefacente, in ogni modo, è come questi incredibili oratori riuscissero, nonostante i ragionamenti così dannatamente arzigogolati, a non smarrire mai il filo del discorso.
Fu quindi per me un durissimo colpo, quando mi accorsi delle prime avvisaglie della crisi che li stava per cogliere. Inizialmente si manifestò con improvvise interruzioni nei loro lunghi discorsi, che poi, altrettanto repentinamente, riprendevano come se nulla fosse accaduto. Quasi nessuno se ne rese conto, almeno in un primo momento, tanto brevi erano queste pause. Ma col passare del tempo il fenomeno si faceva sempre più frequente e soprattutto più preoccupante. Alla lunga i loro lunghi intrecci cominciarono a risentirne sensibilmente. Nonostante continuassero a mostrarsi dei brillanti oratori, a volte le loro argomentazioni perdevano di mordente e non era più così inebriante lo starli ad ascoltare nelle lunghe ore di cammino. A poco a poco persero i legami che così fortemente avevano costruito in quel viaggio. La brutta situazione si protrasse fino a quando essi stessi, resisi conto dell’insostenibilità delle circostanze, si sciolsero definitivamente in un pianto a dirotto, che lasciò tutti con un groppo in gola. Era il preludio al peggio. Di lì a poco, infatti, si unirono ad un gruppo di passanti e ci abbandonarono definitivamente.
Il nostro viaggio, comunque, già volgeva al termine. Superata la paura di non farcela, vinta la tentazione di fermarsi o addirittura di tornare indietro, si camminava di buona lena, verso la meta ormai in vista. Appariva chiaro che tutti erano in buona condizione, anche se le tomaie erano senza un velo di dubbio, quelle più in forma. A dispetto delle difficoltà incontrate, di carattere sia fisico sia psicologico, esse si mantennero sempre lucide, impermeabili a qualsiasi turba. Erano loro i veri leader del inusitato gruppo che stava ormai per compiere l’impresa. La parola fine, però, non era ancora stata scritta. Un ultimo triste avvenimento doveva metterci a dura prova, non tanto nel fisico, quanto nello spirito.
Quei valorosi prodi che erano le tomaie, che per lunghi chilometri e tanti giorni avevano sopportato le ingiurie del tempo senza batter ciglio, cedettero a poche centinaia di metri dall’arrivo. Straziate, lacerate, caddero improvvisamente al suolo e non vi fu speranza di recuperarle. Il colpo fu fatale al nostro gruppo, che perdeva la sua vera identità. Se eravamo prontamente riconoscibili a tutti, era senza dubbio grazie a loro. Non ai simpatici tacchi, non alle prepotenti suole, non alle altezzose suolette, non ai fragili, geniali lacci, e neanche a me. Già, io… Anch’io mi fermai a quel punto, a riempire di silenzio l’incolmabile vuoto lasciato da quei dolorosi addio. Solo molto tempo dopo seppi, e non so quanto prestare fede a questa voce dal fiabesco sapore di leggenda popolare, che gli unici superstiti di quell’insolito gruppo, portarono a termine l’impresa. Mai integratisi nel gruppo, da tutti visti un po’ come degli estranei, i calzini riuscirono lì dove gli altri avevano fallito. Non era d’altra parte mistero ad alcuno che fossero gli unici veramente in gamba.
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- Splendido racconto consiglio a tutti quelli che prima leggono i commenti di leggerlo.
- Idea geniale e non hai sbagliato un colpo.
- Grande ironia, bel racconto e bravo chi l'ha scritto
- un aggraziato uso di ironia e metafora, ho sorriso per tutto il tempo necessario alla lettura, gigi
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