È da più di tre mesi che siamo rinchiusi qua dentro. Qui dentro dove la follia umana ci ha condotto, in un bunker sotterraneo di mura di cemento grigio spesse dieci metri, le uniche in grado, forse, di proteggerci dalle radiazioni delle bombe che hanno distrutto tutto quello che c'era sulla superficie del nostro pianeta.
Tre mesi che non vediamo la luce del Sole, un Sole che adesso illumina con la sua luce malata resa velenosa dalle radiazioni un pianeta deserto, devastato, coperto solo di macerie annerite e cumuli di rovine che giacciono ove prima sorgevano le nostre città.
Gli strumenti della sala radar del bunker che controllano l'esterno non segnalano alcuna forma di vita tra i resti della nostra civiltà; da tre mesi le onde dei radar e dei sonar si sono diffuse con ping regolari ed ininterrotti, giorno e notte, senza incontrare nulla, senza che un minimo movimento, un'anomalia, una variazione interrompesse questa estenuante e monotona continuità, segnalandoci che lì fuori c'è ancora qualcosa che si muove, che ha vita. Niente, solo questi infiniti e sconfinati ping, che finora ci ha dato solo una certezza: nella landa desolata intorno a noi c'è solo morte.
Unicamente il vento si muove fuori: ulula furibondo, instancabile, fischia e sibila tra i rottami, si incunea tra i pilastri sradicati che un tempo erano le fondamenta di palazzi e che ora si stagliano contro un cielo innaturalmente terso e di un azzurro abbacinante come grotteschi obelischi postmoderni a venerare un sole dagli splendidi colori letali per le radiazioni. Tondini di acciaio, un tempo immersi nel cemento per render solidi i nostri grattacieli, spuntano dalle colonne divelte come dita contorte e monche in fondo a braccia deformi.
Il vento non si ferma, grida la sua rabbia e la sua furia, come a voler strappare dagli squallidi avanzi delle nostre città quel barlume di vita che potrebbe esservi rimasto, come a voler assicurarsi che nulla più possa esservi di vivo lì in mezzo; solo solitudine e nulla. Sabbia e nulla.
Noi, ultimi testimoni della razza umana che fu, siamo rintanati come topi in trappola sottoterra, sotto quella terra di cui ci credevamo dominatori e su cui ora non potremmo sopravvivere neanche pochi minuti, a causa delle radiazioni che noi stessi abbiamo creato.
Non so da quanti giorni siamo qui dentro; circa tre mesi, ma ho perso il conto. All'inizio facevo una tacca sul muro grigio per ogni giorno che passava, ma ben presto ci ho rinunciato: qui non c'è vero giorno e vera notte; soltanto lo scorrere delle lancette sul quadrante dell'orologio mi comunica che un altro giorno è passato, che è notte, che è giorno, che è ora di mangiare o di dormire: qui c'è sempre luce, luce innaturale di neon bluastri, luce tremolante che rimbalza sul nudo cemento degli angusti corridoi, solo l'orologio ci dice quando fare che cosa. Il nostro bioritmo non esiste più.
Adesso dovrebbe essere notte, tutti dormono e io devo controllare i radar. Questi eterni ping che si lanciano all'infinito nella desolazione introno a noi, per poi sparire nel vento e nel deserto, senza aver trovato nulla su cui rimbalzare per tornare da noi portandocene notizia. Uno via l'altro spariscono nel nulla con snervante e meccanica regolarità, con sempre lo stesso sconsolante messaggio: non c'è nulla lì fuori, solo il vento si muove ancora.
Due neon illuminano lo stretto corridoio, l'aria asfittica e viziata sembra quasi densa, quasi fosse della medesima sostanza dei muri grigi che mi circondano.
In fondo al corridoio vi è la pesante porta che ci separa dall'esterno: un enorme foro circolare tappato da un pesante disco tondo di metallo nero, che nelle nostre speranze dovrebbe bloccare le radiazioni. Al centro una gigantesca leva circolare, grande come il timone di una barca a vela, che apparentemente solo un gigante potrebbe azionare, la tiene sigillata.
Mentre vi passo davanti sento bussare tre volte.