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Il portone del Palazzo Consalvo-Debellis
In geografia siamo abituati a pensare in grande, circa le superfici di continenti, stati, regioni, fin giù alle province. Anche per quanto riguarda la storia avviene la stessa comparazione, ad esempio parliamo di un impero del passato e la mente vola a calcolare inconsciamente distanze e superfici. Ma ci siamo mai chiesti quanta storia è racchiusa in un fazzoletto di terra, in un angolo del pianeta sperduto e dimenticato da Dio e dagli uomini?
Ebbene, spesso mi sono chiesto, trovandomi nel centro storico di Montepiano, quanta storia sia racchiusa in poco meno di tre ettari di terreno, giusto lo spazio che circonda la seicentesca chiesa madre con l'antistante sagrato e relativa piazza rettangolare. Ai lati della piazza si ergono antichi palazzi nobiliari, sia da un lato sia dall'altro, e di fronte alla chiesa il vecchio palazzo dei nobili Consalvo, famiglia estintesi e trapiantata in quella dei Debellis, forse ancora attuali proprietari.
Il palazzo occupa quasi per intero il lato più piccolo della rettangolare piazza e dista dalla chiesa circa centocinquanta metri. AD intromettersi tra le due antiche costruzioni un vecchio pozzo in muratura a forma esagonale che raccoglie tutte le acque piovane, poiché l'intera pavimentazione della piazza in selciato converge sensibilmente verso di esso.
Il palazzo, da due lati è asservito da stradine in cui a stento possono circolare degli automezzi ma solo se incolonnati. Su questi lati si affacciano più portoncini, mentre sul lato posteriore, dopo attenta deturpazione, spiccano tre belle saracinesche in lamiera zincata.
Il lato prospiciente la chiesa è invece adornato da un solitario portone di legno massiccio tutto bordato in ferro, alto circa quattro metri e largo poco più di due, costituito da due soli battenti e, in quello di destra vi è inserito un piccolo battente largo meno di sessanta centimetri e alto appena un metro e settanta, quanto basta per poterlo varcare inchinandosi e contorcendosi di lato, ma stando anche attenti ad alzare le gambe per non inciampare nel controbattente inferiore alto più di venti centimetri.
Il portone è attorniato da un semplice portale in pietra, rettangolare e senza alcuna lavorazione, si può a ragione affermare che tra tante opere antiche la mancanza d'ogni scalpellatura lo insuperbisce donandogli una dignitosa austera bellezza.
A risiedere nell'antico palazzo fin quasi agli inizi degli anni settanta gli ultimi resti della famiglia Consalvo-Debellis proprietari dell'immobile, ma anche di circa un terzo dei beni immobiliari di Montepiano. Codesti "resti" erano rappresentati dalla signora vedova Aurora Consalvo in Debellis e il suo unico rampollo Gianfelice Consalvo-Debellis, un birbante di diciotto anni che di cotanta nobiltà pareva n'avesse poco o nulla.
Il giovanotto, ultimo erede di una proprietà stimata in svariate centinaia di milioni in lire di allora, non sembrava per niente rendersi conto della sua ricchezza, giacché passava ogni minuto del suo tempo libero a giocare con gli amici del quartiere, e questo sin dall'età di tre anni ovverosia da quando ha cominciato a muovere i primi passi senza tutore.
Alto, bello, biondo da sembrare un dio vichingo, Gianfelice era il primo a tuffarsi nelle zuffe e l'ultimo ad uscirne, non importa in che stato. Vigoroso come un semidio era anche il più adorato ragazzo del paese, le donne, dai tredici anni in poi, se lo divoravano letteralmente con gli occhi e, noialtri poveri plebei non facevamo che vivere di luce riflessa, la sua naturalmente.
Caratterialmente non si poteva trovare un amicone migliore di lui, pronto a dividere gioie e dolori con tutti, anche ad accettare con divertita naturalezza il nomignolo che gli avevamo affibbiato e con il quale lo chiamavamo: Marchese, e basta, ma non per il fatto che fosse davvero un nobile ma per un più volgare riferimento al ciclo mestruale delle donne, detto appunto il marchese.
Gianfelice non si fermava davanti a nulla e a nulla valevano gli ammonimenti dell'augusta mamma, sempre pronta a ricordargli come il defunto padre fosse deceduto cinque anni prima schiantatosi al volante di un'Alfa Romeo coupé 2600 lanciata ad oltre cento chilometri all'ora per la tortuosa strada statale poco fuori l'abitato di Montepiano. Il giovanotto era un vero scavezzacollo e, quando al liceo fu approfondita la storia medievale e fu possibile confrontare l'effige di Corradino di Svevia con la sua figura venne naturale affinargli il nomignolo come il marchese Corradino. Egli ne fu così contento che per divertimento si metteva in posa plastica come un guerriero che stesse per sfoderare la spada.
Spesso gli chiedevamo, nell'amicizia, come si viveva in quell'immenso palazzo e solo allora i suoi occhi si velavano di tristezza perché ci rispondeva che gli sembrava di stare in una tetra prigione, diceva pure che un giorno che la madre non ci fosse stata ci avrebbe portato tutti all'interno per mostrarcelo.
Noi del palazzo conoscevamo solo l'esterno e quel poco che si riusciva a sbirciare dalla porticina di cortesia inserita nel portone, quando essa si apriva per il passaggio di qualche membro della servitù o dello stesso Gianfelice. All'interno vi era un cortile che sembrava la continuazione della piazza, pavimentato con il medesimo acciottolato, al centro vi era anche un pozzo, di dimensioni più modeste, anch'esso esagonale come pure il livello della pavimentazione era convergente da ogni lato con il pozzo stesso. Quel cupo portone noi ragazzi non l'avevamo mai visto aperto tanto che spesso chiedevo al nobile amico se per caso non fosse finto, la qual cosa procurava un'irrefrenabile risata in tutto il gruppo, lui compreso.
Venne infine il giorno che il portone purtroppo si aprì, il dodici settembre del millenovecentosettanta.
La notizia della tragedia si sparse in un battibaleno per tutto il paese, amplificata dall'annuncio fatto dalla nostra radio "Supermonte". Nel tardo mattino di quell'infausto giorno il giovane eroico erede dei Consalvo-Debellis era tragicamente morto schiacciato sotto il peso di un trattore da 30 CV dopo aver salvato la vita del trattorista rimasto imprigionato all'interno del mezzo capottato in una scarpata.
Le cose si erano pressappoco svolte nel modo citato, il trattore, trainante l'aratro, mentre si stava girando su un erto pendio si era trovato con l'aratro imprigionato nella profonda radice di una quercia da poco abbattuta. Venuto a mancare il baricentro si era capottato su un lato imprigionando il conduttore. Gianfelice, che quel giorno si trovava in campagna con un fattore, si era istintivamente precipitato in aiuto dell'uomo senza badare ad alcun avvertimento. Era riuscito a tirare fuori dall'abitacolo il conduttore poi, spinto da chissà quale sentimento, era ritornato nei pressi del mezzo, forse con l'intenzione di rimetterlo in piedi, giacché non si era del tutto capovolto. Tanto era bastato perché la tragedia si compisse. Il trattore, sganciatosi dall'ingombrante aratro, completò il suo rotolamento nel vicino fossato schiacciando sotto il suo peso il corpo di Gianfelice.
Per quarantotto ore nulla si seppe dell'iter burocratico a cui fu sottoposto il povero ragazzo, certamente autopsia, tranne che il funerale si sarebbe svolto due giorni dopo alle dieci del mattino, presso la chiesa madre dirimpetto al palazzo.
Quel giorno la piazza era stivata all'inverosimile fin dalle prime ore del mattino, vi eravamo anche noi ragazzi, nonché amici del defunto, che aspettavamo mesti l'uscita della bara dal palazzo.
Alle dieci in punto le campane della chiesa suonarono a morte e, con un cigolio ancora più sinistro, vedemmo i due battenti del portone aprirsi lentamente spinti da quattro braccianti.
Era la prima volta che vedevo il portone aprirsi e, grande fu la nostra meraviglia, notare al centro del cortile una carrozza funebre bordata di tutto punto con un cavallo a tiro. Sulla carrozza vi era già la bara e, appena il cocchiere salì sul podio, essa prese lentamente l'avvio verso la dirimpettaia chiesa seguita da un'unica persona: la nobildonna Aurora Consalco-Debellis.
Lei spiccava nell'improvviso silenzio della moltitudine che gremiva l'intera piazza per la spiccata compostezza ed il fiero avanzare tra la folla. Era vestita tutta di nero, un abito lungo che le scendeva fino alle caviglie, le mani inguantate di nero che stringevano probabilmente un vangelo, sulla testa un cappello a larghe tese con fitto velo nero che la copriva fin sul petto. La donna, che seguiva di una decina di passi la carrozza funebre, camminava lentamente incurante della folla che si apriva al passaggio del feretro. Non un singulto, non un tremito, non uno sbandamento, ella pareva la morte personificata.
Dopo il breve tragitto, la bara fu portata da altri braccianti all'interno della chiesa, mentre lei attendeva immobile da un lato del sagrato, quindi la seguì all'interno. Appena dopo, uno dei quattro massari alle sue dipendenze fermò con un gesto la folla che stava per invadere l'interno della chiesa affermando che la signora li pregava tutti di lasciarla sola con il proprio dolore. All'interno in ogni caso lei non era sola perché una piccola folla vi era già presente, erano i notabili del paese con i rappresentanti della forza pubblica, il maresciallo dei carabinieri, il comandante dei vigili urbani, quello della locale stazione del corpo forestale dello stato, il sindaco, i direttori didattici, assessori vari, il farmacista, il direttore dell'ospedale, tutti con tanto di consorti tirate a lucido.
Durante la cerimonia dal cortile del palazzo uscì un calesse che andò a mettersi al fianco della carrozza funebre e lì rimase nell'attesa che il rito si espletasse. Dopo circa un'ora la bara fu riposizionata sulla carrozza e donna Aurora salì sul calesse e presero la strada del cimitero.
Da quel giorno la vita cambiò nel nostro paese perché non vi era più la vitalità del biondo vichingo. Anche donna Aurora parve sparire dal mondo, infatti, non fu più vista. Le proprietà della famiglia Consalvo-Debellis furono frazionate e vendute ai nuovi latifondisti, solo il palazzo non fu venduto ma neanche più abitato e, ancora oggi non si sa chi è il proprietario. Quando il piccolo corteo funebre prese l'avvio del cimitero, con lo stesso cigolio con il quale si era aperto, il portone tornò a chiudersi e che io sappia non è stato mai più riaperto.
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