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Empatia
Il direttore dell'azienda condusse me ed il mio partner Aquilani fino alla stanza degli spogliatoi maschili, e spiegò: "L'hanno trovato qui due ragazzi verso le undici. Aveva finito il turno."
Abbassai gli occhi: il corpo se ne stava in terra coperto da una cerata gialla. C'era odore di disinfettante, segno che i ragazzi del coroner avevano ripulito il sangue.
Mi misi sulle ginocchia e scostai appena la cerata. Nel vedere i suoi occhi spalancati, mi ritrovai a pensare a quanto doveva aver sofferto a beccarsi dieci coltellate, e a sapere di star morendo. Socchiusi per un istante i miei, nel vano tentativo di scordarmi il suo volto straziato. Poi lo ricoprii e mi alzai.
Mi imposi con le mani sui fianchi, e osservai il posto: era uno stanzone stracolmo di armadietti, e poco illuminato.
"Chi ha accesso all'area riservata al personale?", domandai.
"Nessun altro. I dipendenti sono gli unici a poter entrare qua."
"Quanti ne conta più o meno questa azienda?"
Il direttore ci pensò su e consultò il collega.
"Circa trecento."
"Immagino che tutti disponiate di un passi o qualcosa del genere."
"Sì, naturalmente."
Il secondo uomo però obbiettò quasi subito.
"Beh, non è del tutto esatto. I tirocinanti e gli stagisti non ne possiedono."
"E per entrare o uscire come fanno?", chiesi io.
"Suonano il campanello, e gli addetti alla sicurezza aprono."
Annuii e feci qualche passo per ispezionare il posto.
Non sapevo bene il perché, ma quella stanza aveva qualcosa di familiare. Forse mi ricordava un po' i miei primi giorni all'accademia di polizia, quando passavo le mie pause immersa in stanzoni silenziosi alla ricerca della solitudine e della quiete.
Tornai alla realtà e mi rivolsi al direttore dell'azienda, e al suo vice.
"Gli agenti resteranno qui per recuperare più materiale possibile, il coroner porterà via il corpo. Verranno affissi i nastri gialli e fino a che non avremo terminato di ispezionare la zona, nessuno potrà accedervi."
I due annuirono, e io ripresi.
"Ora devo andare alla centrale e fare rapporto. Tornerò in caso avessi necessità di visionare una seconda volta il posto."
Annuirono.
"Senz'altro", rispose il direttore.
Ci accordammo per le ultime cose da fare e lasciai la struttura assieme al mio partner.
"Che ne pensi?", mi chiese.
"Non so che pensare."
Lui scosse il capo. Si voltò senza smettere di camminare, e fissò l'edificio.
"Ancora non ci credo. Vengo qui a fare la spesa."
"Tu fai la spesa?"
Lui mi fissò, sorrise di scherno e mi fece una smorfia. Io gliela restituii, proprio come fanno i bambini.
Smise di camminare a passo di gambero, e mi si affiancò.
"A proposito di spesa... stasera sei nostra ospite. Martina prepara un piatto speciale."
"Quale?"
"Non lo so. Dice di voler sperimentare qualche nuova ricetta. Io starei attento."
Risi.
"Se vuoi, puoi portare anche Lucio", riprese.
Il mio sorriso andò affievolendosi. Poi scossi il capo.
"Non mi vedo più con Lucio."
Aquilani corrugò la fronte.
"Credevo che le cose andassero bene tra di voi."
"Beh, inizialmente. Negli ultimi giorni non andavamo più d'accordo."
Nessuno a parte me sapeva che a causa di una mia paura, gli incontri che fissavo con gli uomini che trovavo interessanti, non andavano oltre a quelli sotto le lenzuola.
Fece una breve pausa, ma poi esordì: "Mi dispiace, mi piaceva quel tipo."
Io non dissi nulla.
"Confermi comunque la tua presenza per stasera?"
"Confermo."
"Tieniti pronta un discorso."
Lo guardai.
"Per cosa?"
"Perchè cucina Martina. Come sai, lei è convinta di saper cucinare bene. Tu potresti dissuaderla una volta per tutte."
Mi venne da ridere, e affermai: "Martina cucina bene."
"Le acciughe verdi che ha portato alla festa della polizia sono un'eccezione", sottolineò subito lui.
Arrivammo all'auto, ma prima di aprire gli sportelli, dissi: "Vorrei tanto vederti ai fornelli."
Lui mi fissò e smise di ridere.
"Sì, sarebbe divertente. Io e Martina potremmo starcene sul balcone a rilassarci un po', e tu potrai mettere in atto le tue doti di cuoco. Che te ne pare?"
Stava per aprire bocca quando parlai prima io.
"Perfetto! Allora vengo da voi per le otto."
Feci scattare la serratura e continuai: "Ora sali. Abbiamo ancora un sacco di lavoro da sbrigare."
Non ero sicura avesse afferrato cosa fosse appena successo, ma dovetti trattenere la risata nel guardare la sua faccia spaesata.
Infine salì in auto e partimmo.
Raggiunto il commissariato, ci mettemmo a scrivere il rapporto.
Quando un agente semplice ci annunciò che le registrazioni di una parte delle registrazioni erano arrivate, ci recammo nella sala video.
Stavamo visionando i nastri da ore quando misi pausa.
Il mio partner mi fissò.
"Che ti prende? Non abbiamo ancora finito."
"E se l'essere tirocinante o stagista contasse solo fino ad un certo punto?"
"Spiegati meglio."
Lo guardai.
"La divisa. Ci è stato riferito che quella parte di personale non possiede un passi, ma che suona per farsi aprire. La divisa è l'unico riconoscimento che hanno."
"Sì, e allora?"
"E se l'assassino fosse qualcuno che in passato ha lavorato là?"
"Ti assicuro che fai prima a dirmi a cosa stai pensando."
Feci una smorfia.
"Sto tentando di dirti che forse il punto potrebbe essere questo. L'assassino può accedere alla zona del personale in un solo modo se non è un dipendente. E qual è l'unico modo per farsi aprire dalla sicurezza se non hai il passi?"
I suoi occhi si illuminarono.
"Quindi dici che l'assassino in questione potrebbe essersi introdotto con la divisa, e cioè come un tirocinante, perché nessuno avrebbe potuto notarlo?"
Annuii, e continuai.
"L'ha detto il direttore stesso, ricordi? Sono talmente tanti che non si conoscono tutti neanche fra loro. Ne arrivano in continuazione."
Ci pensai sopra e cliccai il play.
"Ammazza con uno scopo. Quei dipendenti li ha presi di mira per qualche caratteristica personale o per qualcosa che hanno fatto."
"Misandria?", mi suggerì Aquilani.
Non risposi.
"Vendetta?", continuò.
Scossi il capo.
"No, la vendetta non c'entra. E neanche la misandria", feci una pausa. "È qualcos'altro."
Fissai a fondo lo schermo, quasi a volerci entrare dentro, trovare la soluzione ed uscirne col caso risolto.
"Fai pausa", esordii d'un tratto.
Aquilani portò indietro e gli feci osservare il video.
"Vedi quello che vedo io?"
"No."
"Dimmi cosa vedi."
"Una persona con un ombrello."
Annuii.
"Hai notato come lo portano gli altri?", chiesi indicando l'immagine sullo schermo.
Lui inclinò il capo come a concentrarsi meglio.
Io continuai: "Guarda questo, invece. Si vede bene che la pioggia batte dalla parte opposta a dove questo soggetto punta l'ombrello."
"Dici che si stava nascondendo?"
Annuii. "L'assassino era già stato là, e questo conferma la nostra ipotesi. Sapeva dove erano posizionate le telecamere, e ha pensato bene di coprirsi per non farsi riconoscere."
"Però dentro si è fatto vedere."
"Ma a quel punto non gli importava più nulla. Era uno fra tanti."
"Facciamoci consegnare i nastri delle telecamere interne relative all'orario in cui Lassi è morto. Tra quelli c'è anche il suo assassino."
Annuii compiaciuta.
"Chiama l'azienda e fatti dare i videotape."
"Bene."
Aquilani si alzò, ma poi si fermò. Si voltò e disse:
"Però mi sorge un dubbio."
Attesi.
Lui scosse il capo, confuso.
"Perché non compiere l'omicidio quando si trovava già all'interno dell'azienda? Perché rischiare di farsi beccare?"
Aggrottai la fronte.
"Non lo so. Forse aveva già escogitato un piano e non voleva modificarlo, o forse le cose sono andate diversamente da come aveva progettato."
Rimanemmo in silenzio a riflettere, ma alla fine lasciammo indietro i dubbi e chiamammo l'azienda.
Passammo l'intero pomeriggio a visionare i nastri, ma questa volta con il responsabile dell'ufficio personale. Lei e le cartelle che teneva in custodia di tutto il personale potevano forse aiutarci a scoprire chi era il volto che fra tutti quelli ripresi dalle telecamere, non c'entrava più niente là dentro.
Erano trascorse qualcosa come sei ore quando indicò lo schermo.
"Ecco, è lui."
Misi la pausa, e guardai la donna in attesa di spiegazioni.
"È stato un nostro tirocinante per circa un mese. Si è ritirato qualcosa come una settimana fa."
"Come fa ad esserne così sicura?"
"Beh, me lo ricordo perché ha fatto qualcosa di molto insolito."
Fissai Aquilani, quindi tornai con lo sguardo sulla donna.
"Tipo?"
"Quando ha abbandonato il tirocinio, non ha restituito la divisa."
Bingo. Chiesi comunque spiegazioni.
"E allora?"
"È la prassi. Quando ci si ritira dal servizio, tutto deve essere restituito."
"E non glielo avete fatto sapere?"
"Certo che sì, ma non ha mai risposto ai nostri solleciti."
Quell'informazione diceva già tanto.
"Nient'altro?"
"Oh sì. Il bello deve ancora venire."
Il bello, pensai. Quella tizia credeva fosse un gioco.
"Non è venuto a ritirare la busta paga", concluse la donna.
A quel punto molte incognite, ora parlavano chiaro: a quell'uomo non interessava lavorare là per guadagnare. A quell'uomo interessava lavorare in quel preciso posto per seguire i movimenti di qualcuno.
Fissai il mio partner, e mi lasciai andare sulla sedia, valutando l'ipotesi che il nostro uomo potesse essere realmente lui.
"Mi dia la sua scheda", dissi infine.
Dopo aver ottenuto il mandato di perquisizione dal giudice, io, Aquilani e un paio di altri ci recammo a casa sua che era già buio.
Ci identificammo, e quando non rispose decidemmo di fare irruzione.
Avevamo perquisito il piano inferiore, e quello superiore quando udii un rumore provenire dal basso.
Feci cenno di fare silenzio, e ci muovemmo verso la porta della cantina.
Scendemmo le scale, e nella fioca luce riconoscemmo una sagoma di spalle.
"Alza le mani, polizia!", urlò Aquilani.
"Parlo solo con l'ispettore Mandelli", esordì il killer.
Voleva me.
La mia squadra stava per raggiungerlo quando feci cenno di no con la testa.
"Andrà tutto bene. Non mi farà niente", dissi.
Aquilani mi fissò. "Laura? No."
"Ora uscite e aspettatemi fuori."
Nessuno si mosse.
"È un ordine", specificai a quel punto.
Piano piano i due agenti salirono le scale e lasciarono il posto.
Annuii ad Aquilani che continuava a guardarmi pensando quanto fosse folle quello che stavo facendo.
Si umettò le labbra contrariato, ma alla fine si arrese. Mi fece cenno che sarebbe rimasto fuori dalla porta. Poi scomparve.
Ero rimasta sola con lui, e non si era mosso di un millimetro: continuava a darmi le spalle.
"Vedo che sai come mi chiamo", feci una pausa. "Posso sapere il tuo nome?"
"Enzo."
Annuii. "Ok, Enzo. Io non voglio farti del male."
"Lo so."
Lo fissai. Se ne stava ancora di spalle, e cercai di scorgere il suo viso senza farlo innervosire.
"Posso chiederti come mai hai voluto che restassimo noi due soli?"
"Perché so che solo tu puoi capirmi."
Mi mossi appena, e domandai in maniera pacata: "Per quale motivo?"
A quel punto si voltò.
"Per via di tua sorella."
Mi irrigidii.
"Come fai a sapere di lei?"
"So tante cose."
"A proposito di?"
"Di tutti."
Esitai.
"Non voglio che nessuno si faccia male, Enzo. Questo lo sai, vero?"
Lui annuì.
"Però ho bisogno che tu collabori", continuai io.
Allargò le braccia. "Sono qui."
A quel punto, gli chiesi: "Perché hai ucciso tutte quelle persone?"
"Tutti abbiamo paura di qualcosa, Laura."
Aggrottai la fronte, senza capire.
"Sì", annuii. "Sì, è vero. Tu di cosa hai paura?"
"Di troppe cose. A volte anche di me stesso. E tu?"
"Siamo qui per parlare di te."
"No, siamo qui per parlare di noi."
Esitò. Poi disse: "Siamo qui per parlare anche di tua sorella."
A quelle parole non ci vidi più.
"Potresti smetterla di parlare come se mi conoscessi?"
Lui mi fissò intensamente, e quasi come se fosse riuscito a captare quello che avevo sepolto per anni nei meandri più reconditi del mio cuore e della mia mente, disse: "So che ami la solitudine, so che sei diventata un poliziotto per riuscire a difenderti da quello che invece ha ucciso tua sorella."
Ripensai a lei, e a quello che le era capitato.
"So anche che cambi spesso uomo non perché tu sia una puttana..."
"Vaffanculo", risposi istintivamente.
"... Hai paura che stare troppo a lungo con qualcuno possa fartelo amare tanto da affezionartici e magari perché no, innamorartene. Non è forse così?"
"Il punto è un altro."
"No, il punto è questo."
"Invece di giocare a fare lo psicanalista con me, perché non pensi un po' a te e al perché ammazzi le persone senza un motivo."
Lui inclinò il capo.
"Ma il motivo c'è. Quella gente meritava di morire, come anche l'ultimo uomo che avete trovato."
"E tu chi saresti per deciderlo?"
"Dipende dai punti di vista. Per te sarò solo un misero assassino."
"Sì, qualcosa del genere."
Lui assunse una sorta di voce sibilante e disse: "Oh, se solo sapessi cosa sento dentro la mia testa, uccideresti anche tu."
Lo fissai senza capire, e lui proseguì.
"La gioia, l'amore: quelli li sopporti abbastanza...", fece una breve pausa. "Ma poi la maggior parte delle volte incappi in rancore, odio, paura, dolore. E quindi come fai? In che modo sopravvivi?"
Non ci capivo più niente. Mi stava forse dicendo che era in grado di sentire le emozioni delle persone?
Lui riprese. "Uccidendo il tuo male. Se loro muoiono, la gente sta meglio. Il che significa che io sto meglio."
"E cosa hai intenzione di fare? Di uccidere tutti?"
Lui scosse il capo.
"Non hai neanche idea di cosa ci sia di terribile nel mondo al quale stai dentro."
"Io non ne ho idea?", domandai quasi offesa.
Digrignai i denti e spiegai: "Ho perso mia sorella quando ero piccola perché qualcuno insano di mente l'ha rapita, ne ha abusato e l'ha uccisa a furia di botte, mio padre si è suicidato perché non sopportava il dolore di come aveva perduto una figlia, vedo morti tutti i giorni, riesco a percepire il dolore dei famigliari quando andiamo a dirgli che qualcuno a cui
volevano bene non c'è più, e tu mi vieni a dire che non so quanto ci sia di malato e crudele nel mondo?"
Gli occhi mi erano diventati lucidi e le lacrime mi erano scese sul viso.
"Oh, se lo so."
Lui annuì comprensivo.
"Lo sento, Laura. Sento quanto dolore hai dentro", fece una pausa. "Ma in un certo senso sei stata tu a deciderlo."
Aggrottai la fronte senza capire dove voleva arrivare.
Riprese. "Cosa credevi, che non avresti visto morte e dolore? Sei diventata un poliziotto per combattere il crimine."
"Sono diventata un poliziotto per essere in grado di aiutare le persone da quello che invece non ha salvato mia sorella", lo corressi.
"Ma l'hai scelto."
Lo lasciai continuare.
Lui scosse il capo. "Io non ho deciso di possedere quello che ho. Ho quarant'anni e tutto quello che ho è questo."
"Forse hai ricevuto questo dono per provare ad aiutare le persone in difficoltà."
"Ed è quello che faccio."
"No, è diverso: uccidi altre persone perché possa stare bene tu."
Assunse un'espressione offesa.
"Come preferisci."
Diede uno sguardo all'orologio da polso, e fece per andarsene quando gli urlai di non muoversi.
"Devo andare. Il mio tempo è scaduto."
"Dove pensi di andare? Sopra è pieno di poliziotti."
"Saprò cavarmela, come sempre."
"Tu non vai da nessuna parte."
Gli puntai l'arma contro, e attesi.
Lui mi fissò e sorrise. "Non mi sparerai."
"Forse no, ma potresti dire lo stesso dei miei colleghi?"
"Ma ancora non capisci?"
Rimasi a guardarlo.
"Anche io combatto il crimine. Noi siamo uguali."
"Noi non siamo uguali."
"Io uccido per me, ma aiuto anche tutte quelle persone che soffrono per colpa di qualcun altro", fece una pausa. "Inoltre metto in salvo i bambini dai pedofili, le donne dagli stupratori, dagli uomini violenti, e così via e così via e così via..."
Per un istante, il pensiero di avere una soluzione così facile e a portata di mano, mi fece riflettere sulla possibilità di prendere in considerazione la sua proposta.
Scossi il capo vigorosamente cercando di scacciare quell'idea che, anche se per pochi secondi, mi aveva sfiorato il cervello.
"Scordatelo."
"Pensaci. Potrei salvare tanti bambini da stupratori, pedofili e rapitori seriali."
Voleva fare leva su quello che era successo a mia sorella e sul fatto che non ero ancora riuscita a prendere il suo assassino.
"Potremo allearci e diventare così più forti. Se fosse ancora in vita, potrei scovare l'assassino di tua sorella e sistemarlo per le feste", insistette.
Ripensai a come la polizia l'aveva trovata, e alla notte in cui avevamo ricevuto la telefonata dell'annuncio della sua morte.
Rammentai gli istanti in cui sentivo litigare mamma e papà, che invece di diventare più forti, continuavano ad addossarsi delle colpe assurde.
Rividi l'immagine di papà appeso ad una corda in garage e il tempo che mi ci era voluto per scordare qualcosa che invece non se n'era mai andato.
Strinsi l'arma con più forza.
"Allora, cosa ne dici?", m'intimò lui.
Io non risposi. Tenevo una smorfia con la bocca per cercare di trattenere il pianto che invece era tornato a bagnarmi nuovamente il viso.
Lui sorrise compiaciuto. "È la scelta giusta, Laura. È quella giusta."
Si voltò e fece per andarsene, quando nell'istante in cui chiesi scusa a mia madre, a mio padre, ma soprattutto a mia sorella, mirai alla gamba e feci fuoco.
L'uomo cadde a terra, urlando.
Sapevo di aver perso un'occasione. L'occasione di prendere l'assassino che aveva distrutto la mia famiglia, e di quello che mi rendeva schiava del mio passato.
Ma sapevo anche che se lui avesse trovato quell'uomo e l'avesse ucciso, la mia famiglia non si sarebbe ricostituita come avviene alla fine delle favole.
Lei non c'era più. Ero rimasta io, ed era rimasta mia madre: era con quello che avrei continuato ad andare avanti.
A quel punto mi accorsi che la mia squadra aveva fatto irruzione.
"Stai bene?", mi chiese Aquilani, sfiorandomi un gomito.
Io annuii, e abbassai l'arma.
I due agenti chiesero un'ambulanza via radio, gli misero le manette, e lo tirarono in piedi di peso.
Enzo mi fissò solo, e una lacrima gli scese sul viso. Non mi disse nulla, e fu come se avesse capito il mio gesto.
Solo un attimo prima che lo portassero fuori, lui si girò verso di me e mi sorrise.
Subito non capii.
All'arrivo delle altre volanti e dell'ambulanza, la via si era riempita di curiosi.
Mi allontanai di poco, quando mi sentii sfiorare una spalla.
Mi voltai e mi ritrovai Aquilani affiancato.
"Va tutto bene?"
Senza smettere di camminare, risposi che non lo sapevo.
Lasciò trascorrere qualche secondo. Poi parlò.
"Cosa voleva da te?"
"Parlare di mia sorella."
Aquilani si bloccò ed io lo feci con lui.
"Come faceva a..."
Ero indecisa se raccontargli del dono che il killer mi aveva confessato di possedere.
"Lo sapeva", risposi solo.
"Sì, ok. Ma come poteva..."
Lo interruppi.
"Senti... lo sai che oltre mia mamma e te, nessun altro sa della mia famiglia."
"Sì, lo so."
"Bene, e così deve restare."
Lui annuì, anche se vedevo che voleva chiedermi dell'altro.
Mi sentii un'egoista traditrice: non solo perché avevo mentito al mio migliore amico e avevo tenuto per me la verità, ma anche perché con quella bugia speravo di potermi servire in qualche modo di quell'uomo, in un futuro.
Volevo essere io a prendere l'assassino di mia sorella e a sbatterlo in galera. Ma se tutti i miei tentativi fossero risultati vani, allora sarei ricorsa al suo aiuto.
In quel momento capii il perché Enzo mi aveva sorriso: sapeva già che avrei ceduto, e che presto o tardi gli avrei chiesto di aiutarmi.
Qualcosa era cambiato in me, dopo quella proposta. Lo sentivo. E tutto quello mi faceva terribilmente paura.
Sorrisi ad Aquilani, e dissi: "Adesso andiamo. Devo ancora stendere rapporto."
Mi cinse le spalle, e ci incamminammo verso l'auto.
"L'invito di stasera è ancora valido", mi ricordò.
Sorrisi.
"Ed io lo accetto volentieri."
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