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Malattia
Credo di soffrire di una malattia ma non ne conosco del tutto la natura. Questo dettaglio - che a me pare insignificante - m'impedisce di analizzare i disturbi che, con seccante regolarità, si presentano.
Ne soffro da quando ero un bambino. Facendo un rapido conto, e fissando l'età della coscienza a circa sei anni, posso dire di soffrirne da venticinque anni. Giorno più giorno meno. All'apparenza non mi procura alcun fastidio, ma soltanto io so quanto dolore ne ricevo. Casualmente, durante la giornata, essa colpisce, lasciando residui che non riesco a cancellare. Ci provo, anche con un certo impegno, eppure non trovo la strada per uscirne.
Quando ero bambino, le conseguenze della malattia mi lasciavano indifferente, poiché la coscienza non era abbastanza sviluppata da rendermi preparato agli effetti. Ne capivo la complessità - per qualche strana dote che avevo ricevuto -, ma non era sufficiente a tracciare i confini di una patologia difficile da debellare. Vivevo sempre dentro il perimetro, muovendomi con regolarità verso l'esterno, convinto che soltanto uscendone avrei potuto salvare la pelle. In fondo era diventata una questione di sopravvivenza.
Oggi ho voglia di fare due passi e ritrovare le facce che ho dimenticato nel corso degli anni. Non li conosco, eppure a volte li sento di famiglia. Cammino e guardo, osservo e cammino, perduto tra le strade della città. Non vorrei esagerare ma provo un senso di affezione per i loro sorrisi e le loro paure, per quello sguardo che concedono agli altri, sempre troppo mite o troppo nervoso. A volte ho la tentazione di toccarli e sentire di che carne sono fatti, se sono morbidi come lo sono io oppure se hanno le ossa a vista. Potrei divertirmi a contare le costole. Allungo la mano, ma tutti sembrano ritirarsi, come se avessi la lebbra. È un gesto che mi getta in uno stato di avvilimento. D'altronde non ho la lebbra.
Siedo al bar e guardo la gente che passa. Mi piace ascoltare la musica e osservare la strada, senza che gli altri si accorgano di me. È un buon punto di osservazione. Solitamente siedo dietro la finestra oppure all'esterno, quando il clima lo concede. Non oggi, perché l'inverno si avvicina e non potrei togliere il soprabito. Ho ordinato un caffè e un biscotto a forma di occhio; pare che lo chiamino occhio di bue, appunto. Mi piace fare una gara di regolarità: per ogni morso al biscotto bevo un sorso di caffè, facendo in modo di terminare biscotto e caffè allo stesso istante. Devo dunque calcolare bene le dosi e rallentare o accelerare in base alle porzioni. Non è per nulla facile, vi sfido a provare.
La malattia non mi dà tregua. Oggi sono stato dal dottore: non lo vedevo da molto e mi ha mandato a chiamare. Non ha avuto parole tenere, ma sono certo che si è trattato di un modo per dimostrarmi il suo affetto. Fa sempre il burbero. È parte del suo carattere, come un tic che appare quando meno te lo aspetti. Lui si gratta i lobi degli orecchi, intervallando il sinistro con il destro. Non sbaglia mai. Prima il sinistro e poi il destro. L'ho osservato a lungo, nella speranza che sbagliasse lato. A volte capita di confondersi, ma non a lui. D'altronde è un uomo di scienza ed è abituato ad affrontare le questioni con razionalità, anche se si tratta dei suoi tic.
Dopo aver parlato del più e del meno, ha voluto spaventarmi. La sua espressione si è fatta seria, la fronte ha mostrato qualche ruga, il respiro è diventato grave. Senza girarci troppo intorno ha detto che la malattia si è acuita, arrivando a un livello preoccupante. Non sapevo cosa rispondere poiché, nonostante una certa intelligenza e prontezza di riflessi, non sono un medico. È questo che mi irrita della categoria: parlano un linguaggio che non so comprendere. Li ascolto e dimostro interesse malgrado il significato di alcune parole mi sia del tutto sconosciuto.
Ho annuito e mi sono alzato, pensando che la visita fosse conclusa. Avevo già il cappotto in mano, quando mi sono accorto che lui aveva ancora qualcosa da dirmi. Senza sedere gli ho chiesto di procedere, che avrei affrontato qualsiasi notizia, con la dignità che mi è propria. Lui, tuttavia, è rimasto in silenzio. È stato piuttosto imbarazzante. Avrei voluto scappare, eppure qualcosa mi tratteneva in quello studio. Alla fine il dottore mi ha salutato con la mano, senza parlare e così il gioco del silenzio è continuato. Ho vinto io perché lui sulla porta ha detto "Ciao", con una voce flebile che quasi non sono sicuro lo abbia detto davvero.
Appena nel corridoio ho provato una sensazione di costipazione, come se qualcosa di pesante premesse sullo stomaco. Provavo lo stimolo di cacare e insieme di vomitare, ma ho ritenuto più opportuno non pensarci. È una strategia che adotto spesso poiché sono convinto che la volontà eserciti una pressione enorme sul proprio stato fisico. Devo averlo anche letto sul dizionario di medicina, mentre cercavo notizie sulla mia malattia, senza peraltro trovarne.
Sono contento di aver raggiunto una posizione sociale dignitosa. Ho un buon lavoro e ottime prospettive di migliorarlo. Alla fine del mese riscuoto uno stipendio che mi consente di vivere e pagare qualche vizio. Sono un uomo coscienzioso e così ho un piano finanziario che elenca le entrate e le uscite, fornendo un bilancio molto preciso. Ho chiesto al dottore se questa puntigliosità potesse aggravare i sintomi della malattia, ma non ha saputo rispondere. Credo che dovrò cercare nel dizionario di medicina che ho comprato; se non dovessi trovare alcuna informazione, provvederò a comprarne un altro, attingendo dall'accantonamento per le spese impreviste, sperando di non averne ulteriori nello stesso mese. Bisogna essere precisi, altrimenti va tutto a carte e quarantotto. Mi piace questa espressione, probabilmente perché la usava mia madre e conservo un buon ricordo di lei.
I colleghi sono brave persone. Non tutte, ma non mi curo di chi si dimostra ostile nei miei confronti. "non ragioniam di lor, ma guarda e passa". È una questione di sopravvivenza. Non potrei occuparmi di tutto il personale che dipende da me, così ho fatto una scelta decidendo di intrattenere rapporti soltanto con i migliori. Gli altri li ignoro, sperando che alla fine si cerchino un'altra occupazione. È legittimo, dio santo.
Trascorro molte ore a lavoro. Nel bene e nel male è la mia famiglia. Non ne ho una mia e così credo di essere stato adottato. A scanso di equivoci vorrei dire che non desidero sostituire una famiglia, ma piuttosto sentire il calore di persone che mi vogliono bene. È questo che mi manca. La sera, quando torno a casa, avverto una sensazione di vuoto, come se mancasse qualcosa. Non so se si tratti necessariamente di una persona, ma sono certo che mi riferisco a un'entità. È come un laccio al collo, che più lo allunghi e più stringe, lasciando il segno. Provo questa sensazione da quando lascio l'ufficio fino a casa. Camminare tra le persone non fa altro che amplificarla, rendendo inutile ogni mia reazione. Quando infine varco la porta di casa, il laccio stringe fino a soffocarmi. Manca l'aria e la respirazione diventa complicata. Per un attimo vorrei che tutto finisse, di modo che questa percezione mi abbandonasse per sempre. Lentamente la sensazione svanisce quando prendo contatto con gli oggetti che mi sono familiari. È una sorta di terapia del rilassamento.
Quando sono particolarmente nervoso, la notte si trasformo in incubo, dove le ombre della malattia si fanno deformi e minacciose. Chiudo gli occhi innumerevoli volte, pensando che sia la volta buona, che finalmente prenderò sonno. L'effetto dura soltanto pochi minuti. Apro gli occhi, al buio, cerco l'asta che accende la lampada. Appoggiato il cuscino alla testiera del letto, siedo e rifletto. Talvolta leggo qualche voce del dizionario di medicina. Cerco anche un solo paragrafo che tratti la mia malattia.
Mia madre è morta che ero un bambino. Per semplicità faccio coincidere l'inizio della mia malattia con la sua morte. Mi piace che ci sia una conseguenza per ogni azione, che sia possibile stabilire una causa e un effetto. È l'essenza della vita.
Non ricordo molto della sua morte e, ancora meno, ricordo particolari della sua vita. Ogni tanto tornano alla memoria frasi o semplici parole, immagini che subito sbiadiscono e che non so interpretare. So dai racconti delle persone che era una buona donna, ma non ne ho esperienza diretta.
Dopo qualche anno è morto anche mio padre, lasciandomi orfano. Non è stata una grande perdita. Anzi, per qualche motivo che non riesco a cogliere, mi è sembrato che la malattia si sia attenuata dopo la sua morte. Non ho avuto segnali precisi, ma una sensazione che tuttora provo.
Sono cresciuto per conto mio, badando alla praticità della vita e chiudendo le emozioni fuori dalla quotidianità. Non ero nella posizione di farmi condizionare dalle emozioni. Così mi sono concentrato sulle questioni pratiche. Studiare, gestire i soldi, cercare un lavoro. Tutto sembrava tornato nella normalità, finché questa dannata malattia non ha affondato le unghie nella carne. Che sofferenza. Che strazio. Quando credevo di esserne uscito, sono stato risucchiato sul fondo e più battevo i piedi più le forze venivano a mancare.
Oggi il dottore sembra accondiscendente e non mi fido. Mi ha chiesto di sedere, ma sono più a mio agio in piedi, pronto alla fuga.
«Come sta, signor G? »
Ho preferito non rispondere, per non alimentare la sua fame di sapere. Odio soprattutto due categorie di persone: i mediocri e i curiosi. Questo medico sembra possedere entrambe le caratteristiche.
«Ha preso le medicine? »
Non ho mai creduto fossero necessarie. Le ho comprate, certo, perché erano una voce nel bilancio familiare, ma non le ho neppure aperte. Sono finite in fondo a qualche cassetto, come tutte le altre che mi sono state prescritte. La verità è che faccio fatica a ingoiarle. Sono troppo grosse perché possano passare per l'esofago. Ho sentito di un tale che è rimasto soffocato, una volta.
«Può succedere, sa? »
«Cosa può succedere, signor G? »
«Può succedere di dimenticare le medicine. Almeno a me è successo. »
Il dottore si è alzato di scatto, ma non è sembrato arrabbiato. Seccato, piuttosto. Tutti gli uomini che sospirano sono seccati: è un assioma. Invece lui ha aggirato la scrivania e mi si è parato di fronte. Era alto circa quanto me ed era calvo. La cosa non mi è piaciuta: non mi sono mai piaciuti i calvi. È quindi rimasto a fissare i miei occhi, come se cercasse qualcosa lì dentro, qualcosa che lui poteva scovare. Avrei voluto aiutarlo, ma non ho trovato un modo intelligente per farlo. Così siamo rimasti uno di fronte all'altro, per un tempo indefinito, finché non ho abbassato lo sguardo, perdendo il gioco.
«Ultimamente ha avuto dei problemi di vista? »
«No, dottore, non mi pare. »
«Cali di pressione? »
«No. »
«Sensazione di asfissia? »
«Negativo. »
Quando cominciavo a divertirmi, con tutte quelle domande, è suonato il gong. Non ho più voluto parlare, ma ho girato i tacchi e sono uscito. Il dottore mi ha rincorso, per ricordarmi l'appuntamento della prossima settimana. Gli ho fatto un cenno di aver capito e sono sparito dietro una colonna.
Negli ultimi giorni la malattia sta facendo il suo corso. Farnetico, come se avessi la febbre, ma l'ho misurata diverse volte e risulta sempre nella norma. Questa mattina sono costretto a letto perché appena metto un piede a terra la testa gira e rischio di cadere.
Ho telefonato al dottore ma è fuori sede. Chissà dove.
Ho cercato il numero di mia madre, ma poi mi è venuto in mente che è morta quando ero bambino.
La verità è che non ho nessuno con cui parlare.
Dopo qualche ora a letto, ho recuperato le forze. In vestaglia ho girato per casa, come un'anima in pena. Ho preso un bicchiere e l'ho portato in soggiorno, ma era vuoto e dunque inutile. Ho alzato la serranda per poi chiuderla: la luce del sole mi dà spesso fastidio appena alzato.
Sono quindi tornato a letto. Non che fossi particolarmente felice della scelta, ma era l'unica possibile. Mi è venuto da piangere, ma sono riuscito a trattenere le lacrime.
Alla fine ho preso in mano il dizionario di medicina e ho provato grande sorpresa. Il testo si è aperto alla lettera P - PS per la precisione - e la malattia ha finalmente trovato un nome: Pseudologia Fantastica.
Leggo: "La pseudologia fantastica è una categoria nosografica ancora discussa in psichiatria, descritta per la prima volta da Anton Delbrück nel 1891, caratterizzata dal ricorso abituale a bugie. Si ritrova in soggetti isterici o psicopatici (i cosiddetti "bugiardi patologici") e può riguardare i più disparati eventi o argomenti (per esempio, imprese eccezionali, avventure galanti, amicizia con persone famose ecc.) talora amplificati parossisticamente fino a raggiungere gradi altissimi di inverosimiglianza. Viene giudicata un prodotto diretto dell'immaginazione; non dipende pertanto dai deficit di memoria e non deve quindi essere confusa con le confabulazioni."
Ho preso sonno velocemente. Tutto ciò per cui aveva vissuto era naufragato contro la voce di un dizionario.
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- Complimenti, mi hai tenuta in sospeso fino alla fine.
Forse ti dilunghi un po' su alcuni particolari, ma è solo un modestissimissssimo consiglio, un parere personale, non una critica perchè questo tuo lavoro non si può certo criticare!
Scrivi proprio come piace a me sei bravissimo
- Hai letto il prcesso di Kafka? L'angoscia che trasmette il signor K per un'accusa di cui poco e nulla si conosce? Per me, fatte le dovute prospettive, sei in parte riuscita a ricrearla con la malattia (buon incipit).
- Beh, pare che questo racconto sia il frutto concreto della tua malattia. Sarà mai contagiosa?
Ottimo esordio.
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