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Un epilogo dal chilometro settantasei
Lo vedo muoversi verso me, deciso, e, se potessi, sussulterei.
Brutta faccenda, la morte.
Ti immobilizza agli occhi degli altri, mentre la vita interna, quella di tessuti e cellule, continua nell'anarchia.
Non ti permette di comunicare, di spiegare di fare attenzione a noi cadaveri, perché non c'è un margine netto tra vita e morte, che uno spasmo di vita continua anche dopo l'afflosciarsi del cuore, l'appiattirsi dell'encefalo, l del respiro.
Forse per alcuni dura pochi secondi, o anche meno, ma per altri minuti.
Perché nel mio caso questa vita nascosta tra la morte duri tanto da spaventarmi ancora, non so.
Mi perdo in questi dubbi, ma il fatto è che l'uomo continua a avvicinarsi. Tra le rovine degli altri cadaveri, proprio a me. Merda, questo riesco ancora a esclamarlo, o almeno lo concretizzo nelle feci che continuano a uscire degli squarci del mio intestino. Non me ne accorgo mica dall'odore, figurarsi, in questo marasma di corpi mutilati e di lamiere di vagoni, cosa volete che sia la puzza di escrementi.
Un accenno di salsa pesante su sapori acidi.
Me ne accorgo solo perché nei miei intestini le cellule sono ancora sensibili e mi sussurrano cosa perdo.
Chissà se è così anche per gli altri miei compagni di viaggio. Di morte. Di morte e di viaggio, se questa morte ci porterà lungo altri sentieri. Ma credo che non funzioni così. C'è questa vita residua, in cui le cellule conservano una consapevolezza temporanea. Poi, quando anche loro si desquamano, tanti saluti pianeta coscienza. Stop.
Comunque avevamo una cosa in comune, i miei compagni di viaggio ed io. L'assenza della morte. Quella che ora ci rende simili negli squarci dei volti, nella braccia, nelle gambe amputate.
La vita è imprevedibile fino in fondo, Anzi, nel fondo, nel morire, più imprevedibile di ogni atto quotidiano, non fosse altro perché galleggiamo nel presente, ignorando il fondo.
Anche da noi, pendolari del solito treno regionale, la morte era ben lontana.
Carrozze piene di corpi integri, di frasi girovaghe tra bocche e orecchie.
Di comunicazione.
Per lo più, il solito brontolare.
Questo lavoro del cazzo e questo cazzo di lavoro e tanto ci mettono in casso integrazione.
Cassa integrazione, l'espressione più usata in questo periodo di crisi. Di questo si parlava nel mio vagone. Mica di cassa da morto. Eppure è sempre la cassa di morto a prevalere.
Io stavo zitto e ascoltavo. Mi capitava da molto tempo.
Mica ascoltavo il loro chiacchiericcio, no, da mesi ascoltavo il mio corpo. Mi ascoltavo dentro. Forse, chissà, è per questo che la mia vita residua dura tanto.
Dentro il mio corpo c'era la paura. Ed io ascoltavo paura. E la paura mi riempiva lo stomaco e diventava rigurgito che gonfiava la gola.
Gli occhi oltre il finestrino del treno, l'udito oltre i discorso dei miei colleghi di lavoro, i pensieri che correvano con la pianura bruciata tra la stazione di arrivo e quella di partenza. Mezz'ora di pianura bruciata.
Fino a quando non arrivavamo al palo di cemento con la scritta bianca "km 76". Per darle risalto, la segnalazione era circondato da un rettangolo di vernice nera.
- È una fascia da lutto - mormoravo alla mia paura, mentre lo sguardo fotografava quel particolare, oltre la corsa del treno - Una fascia su un braccio di cemento -
I compagni di viaggio non avevano mai accennato a un moto di curiosità, almeno, non me ne sono mai accorto, e chissà quante volte avrò ripetuto questa frase, chissà se gli altri la sentivano davvero, chissà se si sono chiesti cosa volesse dire.
Il padre di Elvira, invece, lo sa. Lo sa bene,
Ma lui non è mai stato tra i passeggeri del treno. Non sarei mai giunto a destinazione se fosse stato con me in questi mesi. Il Giudice gli ha proibito di avvicinarmi, eppure Terenzio è diventato attesa eterea, ma presente, paziente, discreta.
Da quando ho sfracellato il cranio di Elvira sul palo del chilometro settantasei, lui ha iniziato l'attesa. E aspetta. Aspetta non so cosa. Forse di vendicarsi. Forse gli basta che io so che aspetta.
Ecco, Io ero morto già da allora. Dall'attesa di Terenzio.
Elvira mi aveva detto che la Cassa integrazione aveva spezzato le nostre speranze di una vita insieme. Niente più mutuo, niente figli. Solo la necessità di andare più su, in una città enorme, dove una Ditta aveva bisogno di lei. Le referenze le aveva date Terenzio, che in quel posto aveva lavorato come capo-area per decenni.
Errore. Io avevo bisogno di lei. In quella città Elvira si sarebbe smarrita.
Abbiamo iniziato a discutere, Elvira ed io, ma fin dalla prima frase sapevo già che la nostra decisione sarebbe stata la mia e che l'avrei rimarcata su quel palo dove, a quindici anni, avevo dato un timido bacio ad Elvira, la sua nuca abbandonata sulla scritta "km 76".
Elvira era morta subito ed io mi ero sentito sollevato. Solo che non avevo fatto i conti con Terenzio. Insomma, nella mia vita c'è sempre stato un aspetto residuo non calcolato, proprio come ora.
Legalmente la vicenda era sospesa: lavoro in attesa di giudizio, gli arresti impediti sulla motivazione di una perizia psichiatrica che mi aveva dichiarato parzialmente inidoneo di intendere e volere nel momento in cui avevo fatto esplodere il cranio di Elvira sul "km 76". Invece mai ero stato più lucido di allora. Lasciando il cervello di lei sul palo del nostro primo bacio, avevo reso eterno il patto d'amore. Avevo impedito che Elvira si perdesse negli affanni di una città troppo grande per essere controllata dalla mia volontà.
Suo padre, però, me l'aveva giurata.
Non mi aveva mai minacciato. Ma a ogni udienza era lì. Silenzioso, mi fissava. Mi fissava come un cacciatore che aspetta l'atto migliore per sparare alla preda.
Terenzio è un bracconiere di lungo pelo, lo sanno tutti in paese.
Attende giorni che il cinghiale finisca nelle sue trappole. Attende, immobile per ore. Non parla. Forse nemmeno respira. Ma non molla.
In queste settimane, Terenzio era sul predellino della stazione. Giorno dopo giorno, mi ha atteso. Non si è mai avvicinato. Non hai mai parlato. Non ha mai cambiato espressione. Uno stampo di cuoio sul viso abbronzato dai campi, solcato dalle rughe dell'età. Forse del dolore.
Adesso, mentre giaccio sui binari e osservo l'uomo che si avvicina, mi chiedo se nel deragliamento del treno, Terenzio non abbia qualche responsabilità.
Non so come potrebbe avere fatto, ma lui sa come costruire trappole. E poi è già qui, subito, prima dei soccorsi.
E dire che di casino il treno ne ha fatto, mentre sfrigolava le lamiere sui binari, sulle pareti del cimitero dove è seppellita Elvira.
Ma Terenzio è il primo.
Lui era in stazione anche questa mattina ed ora è già qui.
Scavalca frammenti di vita altrui, salta tra pozze di sangue, sopra gemiti, richieste di aiuto. Si arrampica su massacri di lamiere.
E si avvicina proprio a me. Dritto su di me.
Si china. Le ginocchia poggiano sulle mie budella e sembra non fregargliene nulla quando fiotti di feci lo aggrediscono sui calzoni.
Sento il suo respiro che mi entra direttamente nell'apertura del cranio.
Sa di tabacco, lo sento bene con le cellule olfattive superstiti, ora più acute. Così attente da scoprire un altro odore. Non so come, ma è un odore che riconosco, Un odore che graffia il tabacco.
Ruggine. Terenzio mi respira ruggine dentro.
- Assassino - sibila, ora che io sono la vittima e lui il carnefice.
Troppa attesa, Terenzio, troppa lunga la voglia di affogarmi nella tua vendetta.
- Me ne sto qui - continua, l'alito che mi riempie la cavità cranica - Ti starò accanto, bastardo, finché non arriveranno a ricomporti -
Ruggine. Ruggine e tabacco che mi invadono.
- Se potessi, ti finirei di nuovo -
Lo stai già facendo, Terenzio, solo che continui a non capire.
- Se solo potessi... -
Prima non hai capito che la tua attesa mi aveva già ucciso dentro.
Ora non sai che mi stai uccidendo, anche dopo la morte.
La mia vita residua, Terenzio, me la stai portando via. Mi stai accanto e mi respiri dentro.
I miei neuroni residui si corrodono, veloci, nella ruggine della tua vendetta.
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