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Una storia ordinaria
Alla fin fine non si era mai visto nessuno morire di fame.
Una stanza bassa e buia. Alle finestre tende spesse che odorano di sporco, sudice da far ribrezzo. Al centro una tavola vuota, che nonostante l'usura sa di pulito. Un lampadario - ricordo sbiadito di un passato normale - diffonde una luce fioca che non rischiara più nulla. I mobili sono di materiale scadente, pieni di roba inutile che puzza di stantio e semina tracce di povertà. La cucina ha gli stipetti rotti che non chiudono più e dentro solo piatti scheggiati, bicchieri spaiati, farina, pasta, sale, zucchero e nulla che non sia necessario. Siedo a tavola, allungo le gambe, sento la sedia scricchiolare. L'aria è talmente pregna di odori che fatico a respirare. Giro lo sguardo intorno, cercando qualcosa di familiare, qualcosa che possa ricordarmi il passato, quell'aria di casa che un tempo vedevo senza neppure aprire gli occhi. Ricordo la pentola che bolliva per il minestrone della sera, il caffè sempre caldo, il pane fresco nei giorni di festa, una dispensa tanto piena, ricordo la tavola apparecchiata. Non erano tempi di ricchezza, ma certamente si riusciva a vivere bene, cercando motivo di conforto nel giusto equilibrio di una vita piuttosto faticosa. Lavoravamo tutti in casa. Lavorava mia moglie, lavoravo io, perché nostra figlia potesse studiare... costruirsi un futuro, si diceva. Poche soddisfazioni, ma a noi parevano sufficienti. La sera, a tavola, c'era sempre qualcosa di buono da mettere sotto i denti, c'era la televisione che ci suggeriva nuove pietanze e non avvertivo l'imbarazzante silenzio che c'è oggi. Sento fischiare le orecchie, assordato dal rumore di strada. Scosto leggermente le tende e guardo fuori. È tutto cambiato negli ultimi mesi.
Quel benessere che sembrava la base della convivenza è oggi distrutta; molti negozi, un tempo testimoni di una richiesta del popolo, sono stati chiusi; la gente ha fame, come ho fame anch'io. Sembra quasi che poco sia cambiato, che questo sia un ciclo destinato a finire. Sembra che tutto presto o tardi tornerà com'era prima e che la mia famiglia potrà nuovamente vivere come ha fatto per anni. Non ne sono troppo sicuro, ma preferisco tenere per me i cattivi pensieri. Più che altro non vorrei che mia moglie si preoccupasse: ha già tanti pensieri per la testa.
I problemi non sono cominciati quando sono rimasto senza lavoro: per quello pensavo ci fosse qualche rimedio. Il principale ha provato a darmi da lavorare ancora per qualche tempo, per quel poco che poteva. L'hanno chiamata cassa integrazione da principio e così ho continuato a percepire un salario ridotto. Per qualche tempo è bastato. Mia moglie ha continuato a lavorare, mantenendo tutti noi. Abbiamo provato a fare due conti e non è stata la fine del mondo. In fondo si continuava a mangiare, a uscire, a vestirci con dignità. Abbiamo persino mantenuto l'automobile. Pare non se ne possa fare a meno al giorno d'oggi. Nostra figlia ha potuto finire gli studi con relativa tranquillità, anche perché non sono stato con le mani in mano. Ho lavorato ovunque trovassi, adattandomi, cercando la fatica, sostenendo qualche umiliazione. Per amore della famiglia, di questi tempi, si fa ogni cosa.
Eppure i nostri problemi non erano ancora cominciati. Piano piano i pochi risparmi in banca sono finiti, i soldi a mala pena servivano per il cibo, i vestiti, le bollette. Poi, all'improvviso, le fatture hanno cominciato ad accumularsi. Ho sbagliato lo so, ma da subito ho pensato bene di buttare tutto nella spazzatura: i creditori avrebbero dimenticato il nostro debito perché in fondo siamo povera gente, noi altri. Mia moglie non sapeva nulla. Usciva di prima mattina per tornare a sera. Portava i soldi, ma non conosceva la profonda ferita che si stava aprendo nella nostra vita. Un conto da saldare, un appuntamento saldato, il macellaio che chiama a casa e reclama il frutto del suo lavoro. Guardarsi allo specchio e sentire soltanto il dolore che scivola addosso e lascia un segno indelebile.
I nostri problemi sono cominciati quando la situazione è scappata di mano. Da persone perbene ci siamo trasformati in volgari usurpatori. Non era colpa nostra: semplicemente non potevo più pagare perché non sono bravo con le rapine, né con le truffe e né sono stato bravo a trovarmi un altro lavoro dignitoso. In molti mi hanno detto che la colpa è mia: non ho saputo badare alla famiglia. Probabilmente è vero ciò che dicono. Probabilmente non avrei dovuto lasciar andare a rotoli ogni cosa, sperando che la situazione potesse un giorno cambiare. Oggi i soldi non bastano più neppure per la spesa corrente. Mia moglie, che è una donna normale, lavora quanto può, ma i soldi che porta a casa non ci sono sufficienti. Cerchiamo ancora oggi di dare qualcosa a nostra figlia, perché possa sentirsi una ragazza come tante, ma mi rendo conto che la coperta è sempre troppo corta. Tiriamo da una parte e poi dall'altra, cerchiamo - sia pure con un certo sacrificio - di non farle mancare nulla, ma purtroppo la realtà dei fatti non ha niente di poetico o di televisivo. E questo è già di per sé abbastanza umiliante.
La nostra è una storia ordinaria. Si dice in giro, lo hanno detto in tanti, che alla fin fine non si è mai visto nessuno morire di fame, ma purtroppo credo che la realtà sia diversa. Guardo questa cucina e capisco che non si cucinerà mai più con piacere. Osservo queste sedie e so quanto sia difficile trovarvi una posizione comoda. A volte ridiamo e per un istante credo che tutto sia come un tempo, ma mi rendo conto che c'è sempre un'ombra di tristezza dentro ciascuno di noi. Parlo agli altri, a quegli amici che non ci hanno mai abbandonati, e mi sento a disagio perché questa non è la vita che avevo immaginato. È così triste capire che si è fallito un proposito, il più importante, ma non ho altra scelta se non accettare il verdetto. In fondo per oggi potrò ancora cucinare e sperare che mia moglie e mia figlia abbiano un sorriso benevolo per me.
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