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L'uomo con il cappello verde o del perdono
Era l'inizio di settembre.
Tutto era già trascorso: il fiorire delicato della primavera, il mese di giugno e i suoi giorni di verità attraverso i quali solamente si approda ad un altro anno del tempo, il fuoco imperioso dell'estate che pesa su ogni cosa per spingerla e raccoglierla nuovamente nella terra mentre i pianeti ruotano ancora, la luce si fa sottile, le albe più tese e fresche e la promessa di un nuovo germinare - verso cui il mondo già muove per decreto dei cieli - è lanciata nel futuro oltre i mesi del buio.
Stavo leggendo - rileggendo e rivivendo, perchè questo solo conta sino a che tutto venga compreso nella sua verità - un libro che amavo.
Dal tavolo della sala potevo scorgere una delle finestre sul ballatoio, quel ballatoio largo meno di un metro delle case milanesi di un tempo sul quale hanno dato e danno le soglie di così tanti destini.
Oltre la tenda dorata vidi muovere un'ombra.
Mi parve lenta, dalla forma liquida e bizzarra, quasi troppo grande per un uomo.
Qualcuno che doveva raggiungere una delle porte dopo la mia, pensai.
Dopo un tempo stranamente lungo - e benchè a lato della porta vi sia un campanello rotondo con al disopra una sottile striscia di metallo bianco che reca incise le tre iniziali del mio nome - sentii bussare.
Tre colpi leggeri, forse un accento sull'ultimo: la loro delicatezza, la loro limpidezza sonora mi raggelarono, come annunciassero qualcosa di inaudito.
Chi era?
La scelta di non usare il campanello escludeva quasi certamente una visita ufficiale: poste, elettricità, messi comunali, consegne.
I conoscenti avrebbero preavvisato della loro visita con una telefonata.
Un Testimone di Geova? Un Mormone? Un piazzista?
Ricordai che in uno dei racconti del libro che avevo tra le mani un uomo riceveva una visita non dissimile: un venditore di libri che intendeva liberarsi da qualcosa di insostenibile, di cui non era stato in grado di penetrare il senso e per il quale si sarebbe perduto nella follia sino a morirne: un libro di sabbia, un libro infinito che, tra le mani, lasciava scorrere ogni pagina che mai è stata e verrà scritta.
La mia storia, lo sapevo, sarebbe stata ben diversa, parole scritte da una punta sul granito, fissate per sempre ma finalmente, pulendo la superficie della pietra, pronunciabili.
Alzandomi, pensai che erano trascorsi almeno due minuti.
Immaginai con sollievo che l'uomo se ne fosse andato.
Ad un passo dalla porta mi fermai, guardando quello specchio cieco che ci separava, cercando di avvertire il respiro della sua vita dall'altra parte.
Poi aprii: lui era lì.
Un uomo sui sessantacinque anni, i capelli bianchi e ordinati.
Gli occhi erano grigi, nello sguardo qualcosa di dolce e di stanco.
Disse il mio nome e non era una domanda.
Annuii.
Lo invitai, senza esitare, senza parole, nella casa, oltre l'ingresso, al tavolo rotondo dove ero seduto poco prima.
Guardò la sala, l'alta libreria.
"Sono felice che tu ci sia".
Era un'espressione così strana: presentava forse un membro escluso dalla famiglia in ragione di qualche orribile segreto, un fratello maggiore mai conosciuto, un uomo che aveva amato mia madre?
"L'Istituto Oncologico - disse - l'anno era il 1974. Avevi credo una quindicina d'anni, perciò non stavi al sesto piano, quello della pediatria, ma a quello sopra, il settimo. A ottobre. Sei stato operato a ottobre".
Era tutto vero. Trentacinque anni prima.
Lo guardai negli occhi.
"Ero un assistente di sala, un infermiere. Ho aiutato la tua operazione, ho guardato nel tuo addome di bambino, tra gli organi, nel cuore che pulsava, rosso pianeta tra le nubi dei polmoni. Là dove nessuno mai più guarderà, mai più, io ti ho visto. Ero io, accanto a te, una volta, un'altra volta e una volta ancora, nella stanza di rianimazione".
Ogni cosa fu allora chiara.
Sentii come se qualcosa di freddo mi avesse toccato il lato più interno delle viscere e non potei evitare di piegarmi verso il tavolo.
"Tu".
Nella memoria della vita non è che un istante.
Apro gli occhi e vedo il suo volto così vicino. Il cappello verde, il calore del suo fiato, sento le sue parole: parole sconce, bestemmie, chiede se mi fotto le ragazze, cosa ci faccio con il mio cazzo, quante volte lo prendo in mano e con chi, bestemmie. Lo guardo, il seme, quando esce, lo guardo? Le parole vibrano, come se cercassero qualcosa di irraggiungibile che, per questo, vada oltraggiato e maledetto. Chiudo gli occhi e mi risveglio nella stanza, vedo il volto di mia madre.
Quelle parole, tesoro mio, per risvegliarti dal sonno dell'operazione.
Il cappello verde, la busta di garza dei medici, tesoro mio.
Il sesso arrossato mi dorrà per giorni, una macchia rotonda e viola sulla pelle di un testicolo.
Il ricordo, incerto, variabile, morirà negli anni.
Ma ora è qui, solo lui sa, può recuperare la realtà, dire il mio nome completo.
Vado verso la finestra: in alto uno spicchio triangolare di cielo chiarissimo tocca come la lama di un coltello le vecchie, grigie pareti del cortile.
L'uomo guarda le sue mani.
"Tante altre volte. Una bambina, si chiamava Elisa. Sono entrato in lei, con le mie dita, le ho tolte insanguinate. Lei dormiva, inarcava un poco il viso, la gola e la fronte, mentre la violavo, come volesse librarsi in aria e volare, volare nel cielo. Mi avrebbe portato con sé? L'ho cercata, poi, come ho fatto ora con te. Un piccolo paese, non lontano da Alessandria. Ma lei era già morta. A ventidue anni. Nell'ovale di ceramica i suoi occhi erano aperti e mi guardavano. Pioveva, il suo corpo stava nella terra. Un'altra notte, il mio sesso sul viso di quel piccolo, quella notte in cui doveva svegliarsi e non si svegliò, il seme bianco sparso sulla guancia, lui immobile come la statua di un dio, come una stella. Come una stella".
Tacque a lungo.
La sua figura, seduta con le mani in grembo, mi parve monumentale come quella di un antico profeta, di un eroe nella sua vecchiaia.
"Dopo qualche anno cambiai lavoro e vita. Si esaurì, il mio demone, così come un liquido infetto lascia le ferite di un corpo che vada guarendo. Per un lungo periodo vissi in un altro paese. Non fui migliore o peggiore di altri. Ogni male che, senza più volerlo, operai fu piccolo, modesto, contemplabile in un sorriso che già lo immergeva nella sua redenzione. Non orrendo, come l'altro".
Disse l'ultima frase come se le parole si formassero attraverso delle schegge di vetro che gli riempivano la bocca.
Volli chiedergli perché era venuto.
"Non per il perdono," - rispose - questo purifica l'offeso e non l'offensore, con il quale non ha quasi relazione.
Tutto è così lontano, io non sto morendo e vivo a mio modo in una pace.
So che ogni ferita è anche un dono che chi compie il male offre al mondo quando la sua Anima accetta di compiere l'insopportabile, fuoco terribile che prepara il bene.
Da tanto tempo non sono più quell'uomo maledetto mentre so che tu sei ancora in parte quel ragazzo.
Così, è per te, solo per te, che sono venuto.
Volevo tu potessi guardare, fare tuo.
Ho sperato a volte che quegli attimi solo nostri, i pochi minuti del mio colpirti, non fossero mai stati nella tua coscienza, ma non era che una speranza folle. Dio valuta il gesto e l'intenzione con cui ravviamo ogni nostro capello, il calcio distratto che diamo ad un sasso, i movimenti del nostro sonno, li pesa e li benedice verso l'infinito futuro stabilendo ogni compito e ogni via. Tanto più questo."
"Per molto tempo ho dimenticato." dissi allora io.
"Il fatto è tornato in me, come affiorasse dalle acque profonde di un lago, solo pochi anni fa.
Su quel piano luminoso che saliva alla superficie c'era il tuo viso, così come lo ricordavo da allora, nel mio sguardo intossicato dall'anestetico e così come mi sembra di riconoscerlo adesso.
Sapevo esattamente quello che era accaduto.
Non i dettagli: la verità delle cose, intendo.
Oh, potessimo ripercorrere insieme i giorni della mia vita e vedere i luoghi dove quanto avvenne tra me e te agì come un veleno sottile di rabbia e violenza e disperazione e dove al contrario si tramutò in un elisir di chiarezza, di sensibilità, di amore.
Non c'è un'altra vita, un altro destino che sia nostro.
Solo quello che ci è dato.
Occorre accettare, dire sì.
Solo allora il vero cammino può iniziare."
"Anche il male più atroce è parte dell'Opera. Ogni cosa." lo sentii rispondere piano.
La penombra della sera era cresciuta intorno a noi
Mosse il braccio come per toccarmi una spalla ma non lo fece.
Disse che se ne sarebbe andato.
Lo accompagnai alla porta.
Si voltò guardandomi un'ultima volta e consegnando quanto ci univa a milioni di vite future mi vide chinare il capo in suo saluto mentre il cuore pronunciava parole silenziose: tu, vero Maestro.
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