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L'apostolo segreto
Frequentavo da anni la Librairie de l'Est.
Nota in città per la competenza del proprietario, Pierre Dujol, per le iniziative; le letture e i concerti di musica da camera che vi si tenevano.
Quattro vetrine al centro della via lunga e stretta dallo stesso nome, Rue de l'Est, che terminava contro Avenue Barthou e l'enorme quinta verde di alberi secolari del Bois de Boulogne.
Il 19 settembre del 2015 - conservo ancora, piegato, all'interno del libro, il cartoncino di invito - il rabbino e studioso Shalom Ben-Chorin vi tenne una conferenza che presentava la sua opera "Fratello Gesù: un punto di vista ebraico sul Nazareno".
La sala era come sempre piena.
Ben Chorin aveva parlato di un Gesù nato probabilmente come figlio illegittimo in Galilea, ebreo ardente e osservante, mago e taumaturgo di altissimo potere, enigma per se stesso, dapprima convinto di essere il Messia di Israele e del mondo - convinto che il mondo nuovo sarebbe stato per allora, attraverso di lui - poi destinato a confrontarsi con il proprio fallimento, con il niente, con l'abbandono del Padre, disperatamente invocato dalla croce.
Un punto di vista totalmente ebraico, certo, ma la novità, la coerenza delle tesi, la loro rispondenza con brani - mai illuminati per me in quel modo prima di allora - dei vangeli canonici che Ben Chorin leggeva con voce lenta e roca in aramaico e poi in un ottimo francese, la profondità e il destino d'uomo che erano stati così evocati avevano impressionato.
Le sue considerazioni finali, su un Gesù impossibilitato a salvarsi - come avrebbe facilmente potuto solo trattando la sua posizione, usando una sola diversa parola o con il proprio infinito potere - per l'ebraico "odio verso se stesso" di chi si vede incapace di compiere, consistere, di essere degno del Padre, mi colpirono come inaudite.
Nonostante l'età, doveva essere oltre gli ottanta, lo scrittore si trattenne per più di un'ora a discutere con chi era restato.
Quando se ne andò, con un giovane barbuto con la kippah che era venuto a prenderlo su una vecchissima automobile rimasi solo con Pierre Dujol.
Qualche frase, un altro commento.
La compagna di Dujol iniziò a chiudere le luci del piano inferiore.
Salutai ed uscii, incamminandomi verso casa.
Al primo incrocio Rue de l'Est rallentava in una piccola, tranquilla rotonda alberata.
Sul marciapiede del lato di destra stavano tre panchine di ferro.
Seduto sulla prima riconobbi Michel, un francese di origini libanesi che frequentava la Libreria.
Avvertii una densità, una stanchezza infinite, come se quell'uomo, quel grumo d'ombra, non desiderasse che sciogliersi nella notte, nell'aria del primo autunno.
Doveva avere assistito alla conferenza ed essere uscito prima di me.
Uomo colto, di una bellezza forte e mediterranea, dall'età indefinibile, forse mio coetaneo, aveva un negozio di tappeti non lontano da Porte d'Auteil.
Eravamo amici, da più di dieci anni ci ritrovavamo da Dujol ad ogni occasione.
Ero stato molte volte a casa sua a sfogliare libri d'antiquariato, ad ascoltare musica.
Credo fosse vedovo, la foto di una donna sottile e di chiara bellezza ci benediceva ogni volta da una immagine sul ripiano centrale della libreria.
Lo salutai e mi sedetti.
Chiesi, non senza enfasi, se fosse rimasto colpito dalla conferenza.
"Illuminante, sì", mi rispose.
Voleva salire da me, un poco?
Domai sarebbe stata domenica.
Accettò.
Nella sala della mia piccola mansarda gli offrì un calice di Borgogna.
Dalla finestra, oltre il piccolo terrazzino, sotto la luce delle stelle e della città guardavamo il Bois.
Le chiome degli alberi erano come un mare di gonfie nuvole nere.
Stanchi, tacevamo.
D'un tratto lui parlò.
Una frase, come una musica dura e arcaica.
La voce non era quella di Michel.
Dalle sillabe scabre, collidenti, riconobbi la lingua che avevo sentito evocare poco prima da Ben Chorin: l'aramaico.
Lui disse ancora: "Io vado ma tu resterai, resterai sino a che tutto sarà compiuto, sino al mondo che verrà. Olam ha-ba. Sino al mondo che verrà".
Credo di avere compreso tutto già in quell'istante.
Mi avvicinai, non fu necessario chiedere nulla, lui parlò.
"Mio padre era un uomo ricco. I suoi campi andavano da Gerusalemme sino a Sichem, dove iniziava la terra dei samaritani. Un giovane, ero un giovane senza pensieri e senza dolore. Per quella Pasqua avevo preso una borsa colma di monete d'oro, baciato mia madre ed ero partito per Gerusalemme. Là un amico mi avrebbe raggiunto. Dicevano di una locanda, poco fuori le mura, sul ciglio del Millo. Là avremmo trovato del vino forte e donne di Giudea capaci di rendere felice un uomo. Entrai nella città a metà mattino, dalla Porta dei Leoni. Vi era una grande confusione. Pensai a qualche questione con la legione romana. Chiesi ad un uomo anziano: dei condannati alla croce, verso il Golgota, mi disse. Camminavo per le vie della città, senza una meta, Haim non sarebbe arrivato che alla sera. Ad un tratto lo strepito aumentò, la folla davanti a me si aprì schiacciandosi contro i muri. Mi apparve. Saliva la stretta strada di pietra. Portava un braccio della croce sulle spalle, un orrendo legno fradicio e tarlato. Il peso pareva infinito. Sembrava che, se lui non lo avesse retto, quel tronco, largo quasi quanto la via, sarebbe caduto facendo crollare le case e la città, aprendo la terra sino al suo centro. Avanzava lentamente, chino, il viso era rivolto a terra e i lunghissimi capelli, le cui punte stillavano sudore, cadevano sino a toccarla. Ricordo come fosse oggi nella mia bocca il sapore forte e salato di un'oliva. "Vai! Vai!" gli gridai forte, con ferocia. Lo credevo un ladro, un assassino, un rivoltoso. Prima del tramonto sarebbe morto. Lui alzò lo sguardo e mi vide. Il dolore per il supplizio, il rancore per il mio scherno durarono meno di un istante, mentre nei suoi occhi color di noce chiara stava ogni altra cosa.
Ogni altra cosa, Albert. Così disse: "Io vado ma tu resterai, resterai sino a che tutto sarà compiuto, sino al mondo che verrà". Una forza mi premette il petto e mi sollevò quasi da terra. Per mesi le costole mi avrebbero dato dolore e avrei sentito come la punta di una selce appoggiata alla carne, poco sotto il cuore. Olam ha-Ba. Il mondo che verrà. Lo seguii, ancora per gioco, senza ragione. Il Golgota non era che un rilievo subito aldifuori della Porta di Damasco. Lo chiamavano così perché due cavità in una piccola parete di roccia rassomigliavano, viste dalle mura, le orbite di un teschio. Era tutto così piccolo, Albert, così piccolo, le tre croci stavano una vicina all'altra, i corpi degli appesi quasi si toccavano. Ai piedi del masso stavano poche persone, qualche soldato, una decina di persone per lui, nessuno per gli altri due. Solo strepiti e urla di crocifissi. Quando gli appesi scuotevano il viso da una parte e poi dall'altra, ringhiando di dolore, grumi di sangue volavano nell'aria e cadevano al suolo. Due soldati di Roma guardavano annoiati la scena. Mi avvicinai al gruppo che vegliava lui. Alcune donne piangevano, un giovane, Jochanan, Giovanni, non distoglieva lo sguardo dalla croce, così come da una stella. Fui tra di loro. Avevo forse seguito le sue predicazioni in qualcuna delle città di Giuda? Non risposi, ma per loro fu così. Morì all'ora nona. Non si oscurarono i cieli, né si aprì la terra. Solo quel grido: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" Tale era la disperazione, l'abisso, che non volle dire lo Shemà. Poi il costato si mosse, torcendosi come se un serpente fosse infine riuscito ad entrare in quel corpo e si muovesse verso il cuore per colpirlo. Fu finita".
Tacque, per alcuni minuti. Poi riprese:
"Lo portarono via per ultimo, si erano calmati gli strepiti. Ricordo quel telo di tessuto intrecciato e di somma fattura che veniva dal Tempio, offerto da qualcuno. Stavo intorno a loro, ascoltavo, chiedevo. Gente umile, poveri contadini, non sapevano ora che fare, dove andare. Seguimmo. Il sepolcro lo vidi, una povera nicchia in una pietra nel campo di un uomo influente che seguiva Gesù. Gli ufficiali avevano posto delle scritte, dei cartigli sottili sul telo intorno al suo volto, stavano scritti il suo nome e la sua colpa. Il suo nome e la sua colpa. Quella sera raggiunsi la locanda dove mi persi con un forte vino di Galilea e con una donna giovanissima la cui fronte e il cui ventre erano ornati da collane fatte con piccole monete d'oro. Rimasi in città quattro giorni. Si sparse la leggenda del sepolcro trovato vuoto un mattino e della sua resurrezione. Mi diressi al campo, ma le guardie di Roma e del Sinedrio impedivano di avvicinarsi. Pensai al volto di Giovanni quando la notizia doveva averlo raggiunto, al suo correre furioso e felice, al suo viso radiare mentre vedeva quel vuoto in cui la storia comunque cadeva e si apriva. Io credo qualcuno tra di loro, forse nemmeno della cerchia più intima, abbia trafugato il corpo, per una sepoltura più degna, lontano da quel campo. Cosa davvero sia accaduto, non so. Non ha alcuna importanza. Olam ha-Ba. Il mondo che verrà. Tornai dai miei. Sposai una donna, da cui non ebbi figli. Divenne vecchia e morì. Io, che ero diventato un uomo maturo, rimasi. Passarono anni ed anni, decenni e decenni, io non morivo, restavo come mi vedi ora, il viso che ti guarda è quello di un uomo di un'altra era. Infine capii. Il suo potere mi aveva attraversato quel giorno a Gerusalemme. Lui non poteva dire e volere che la verità: io sarei restato, sarei restato sino alla fine. Duemila anni sono così lunghi, ed è così difficile nascondersi nella storia degli uomini. Occorre saper sopportare l'insopportabile, saper dimenticare. Io devo solo attendere, questa è stata la sua parola per me. Attendere e ricordare, ancora qui, da questa parte del mondo. Con quale sentimento aveva operato quell'ultimo miracolo, che nessuno avrebbe mai conosciuto? L'orgoglio di inviare, ancora nella carne, verso l'ultimo giorno chi lo aveva guardato negli occhi? Ora sono molto stanco e voglio dormire. So che è difficile credere alle mie parole. Se lo vorrai, dimenticheremo ogni cosa. Vienimi a trovare. Domani. Sì, domani".
Mi salutò abbracciandomi e mi lasciò. Credo di non aver detto una parola. Avrei deciso domani cosa fare: dimenticare, immaginarlo folle come mi sembrava facile, oppure credergli, chiedere ogni cosa dei suoi anni nel tempo e ancora, ancora di quel giorno.
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