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L'Angelo Pahaliah
L'Angelo Pahaliah
è il ventesimo degli Angeli del Nome.
Egli regna sui nati dal 27 giugno al 1 luglio.
La sua natura è femminile.
La sua essenza è Redenzione.
Il suo dono sono le labbra del profeta
ed il vedere del mistico, i mali che devono
essere trasformati la menzogna e il libertinaggio.
Nell'antichità Pahaliah veniva invocato
così dai suoi figli:
"Vieni!, Pahaliah, Angelo del Signore, vieni!,
libera la mia vita dalle labbra di menzogna,
dalla lingua ingannatrice, dammi il potere
di compiere il mio viaggio".
"Trattato di angelologia", K. Scott Wallace, pag. 116
Il destino, l'infinito futuro, stanno racchiusi in un solo giorno, il giorno della nostra nascita.
Non occorre altro che quel giorno, il disegno di pianeti e di stelle che si forma - unico e irripetibile negli eoni - nell'istante in cui vediamo la luce, per dire ogni cosa di noi.
Il giorno che lo precede, quello successivo, sono aureolati dalla sua essenza.
Il 27 giugno del 1957 mio padre e mia madre si sposarono in una piccola chiesa di periferia a Milano.
Riguardo quel film: mio padre, il suo viso, la figura vergine della mamma.
Nella vecchia pellicola in bianco e nero volano ali scure, si accendono punti luminosi, grigi globi d'argento crescono e poi scompaiono.
L'azione degli acidi degli anni e del mondo sul nitrato di cellulosa ma, insieme, la presenza degli Angeli che, solo grazie a quel disfacimento è ora possibile vedere.
Quando comprenderemo come le cose sono realmente, ciò che le collega oltre e contro ogni evidenza sconvolgendo la sintassi e la causalità del reale, rendendole sempre, in ogni istante, simbolo di ciò che è uno?
Uomini grigi come fantasmi muovono nella pellicola.
In uno degli ultimi fotogrammi la mamma sorride in un raggio bianco verso altrove, verso il tempo, verso il qui: luce da luce, vero da vero, carne da carne.
Così ogni cosa viene decisa e le anime cadono nel tempo.
Nacqui il 29 giugno del 1959, due anni e due giorni dopo.
Quando stavo per compiere quarantacinque anni, il 28 giugno del 2004, mia madre morì.
Persa nel nulla dell'alzheimer, costretta da tempo all'immobilità da un altro male, la sua vestaglia sintetica aveva preso fuoco nel tentativo di accendersi una sigaretta.
Nessuno era con lei.
Solo il suo Angelo le era accanto: da un angolo della stanza aveva contemplato in un sorriso ciò che accadeva, ciò che la liberava da tutto tramutando ogni cosa, il suo corpo afflitto e la poltrona che la costringeva, in una fiamma alta e silenziosa.
Dopo pochi minuti, la domestica era risalita dal piano inferiore e, terrorizzata, aveva cercato di spegnere il fuoco con dell'acqua.
All'ospedale la sua agonia durò meno di un giorno.
Le fui accanto per ore, fissando da lontano quel viso color del sangue senza più lineamenti, il petto fragile sotto il lenzuolo che si alzava in un respiro rovesciatovi solo dalle macchine, le libere greche di fiori dipinti sulla parte alta delle pareti e sul soffitto della terapia intensiva e che parevano chiamarla.
Poi, fu finita.
Due giorni dopo vidi una bara tra molte altre in un salone dell'obitorio dell'ospedale di Niguarda.
Imbevute di sole, alle finestre altissime tende bianche si muovevano avanti e indietro nel vento, come se il pneuma appena liberato di quei corpi indugiasse nel suo distacco dal mondo.
Ancora due giorni e lei non fu che un'urna, ceneri infine immobili chiuse in quello spazio così piccolo.
Restava il presente, la soglia che ero chiamato a varcare.
Dell'Angelo Pahaliah, che governa il giorno della mia nascita, sapevo.
Un sito internet dovevo avevo acquistato alcuni libri mi suggerì di aggiungere il "Trattato di angelologia" di K. Scott Wallace.
In lingua inglese, dalla copertina dolciastra, certamente annacquato e dozzinale, conteneva le formule di invocazione dei settantadue Angeli del Nome.
Lo ordinai.
Adottai la dieta prescritta, il venerdì di completo digiuno.
Ogni sera prima di prendere sonno e ogni mattino nella sua ora di reggenza, tra le sei e le sette, invocavo Pahaliah con le parole di rito.
Con questo non intendevo raggiungere mia madre, sapere di lei nei nuovi mondi che abitava, ma sfiorare il vero, portare sulle labbra come una goccia di vino, come la scheggia di un frutto, il sapore dello spirito, dare un luogo giusto, il suo luogo, a quanto era intollerabile: la pesantezza e la prolissità del reale, la morte.
All'inizio mi fu difficile comprendere.
Ignaro di ogni legge e di ogni gerarchia angelica, credetti di avere stabilito un contatto con Lui, il Trono, Pahaliah.
Non era così.
Allo stesso modo minuscole ostie di ghiaccio portate nell'aria dal vento annunciano il grande, regale cadere della neve che verrà solo dopo ore.
L'Angelo apparve mentre leggevo ed annotavo un libro alla mia scrivania.
Lo specchio di fronte a me rifletteva l'altra parete
Lo vidi, e più chiaramente in uno sguardo laterale, non diretto.
Stava a lato del piccolo arazzo appeso.
Mi vegliava.
Considerava, forse invidiando la mia natura d'uomo, desiderando essere me, quale trasformazione stavano producendo nel mio cuore le parole del poeta?
Apparteneva ad un altro mondo e tuttavia era contenuto nella dimensione della stanza.
Dalla sua fronte sgorgavano due fiotti di luce azzurroargentea che poi ricadevano al suolo lungo una linea d'iperbole rovesciata.
Erano emanazioni, quanto l'Angelo portava nel mondo, la sua azione riversata lungo le colonne della manifestazione materiale.
Quella forma ricordava gonfie ali aldisopra di un'aureola, ciò che tante volte avevo visto nei dipinti: seppi cosa contemplarono gli antichi veggenti e come questa immagine, una volta portata nel mondo, avesse perso il suo potere degradando e corrompendosi in semplice figura di creature alate dai lunghi capelli.
Da quel giorno l'Angelo, che compresi poi essere un Angelo dell'ultima schiera, l'Angelo custode della mia forma materiale, fu con me.
Lo avvertivo dal suo assentire, dal suo dilatarsi nelle mie ore più alte.
Lo vedevo, più facilmente nel riflesso di un vetro.
Presi l'abitudine di portare con me un piccolo specchio circolare e molato che avevo trovato da un rigattiere.
Trovavo a volte sul mio tavolo una fotografia o un libro spostati, ruotati di poco e come offerti alla mia attenzione.
Nella folla della città mi veniva indicato un uomo, una donna, un viso che seguivo nel gioco degli occhi e che forse, sotto le ali dei Troni, mi era stato compagno in altre vite.
Quando riaprivo il computer al mattino qualche parola, qualcuna delle righe che avevo scritto la sera precedente erano mutate nel carattere o nella forma, nel colore.
Non erano che giochi, fremiti del non materiale vissuti con colui che, con l'assenso dei piani superiori, custodiva il mio corpo fisico: l'Angelo della mia nascita e del Nome di Dio come si poteva udire quel giorno, Pahaliah, doveva ancora venire.
Una notte mi svegliò un senso di oppressione.
Nello stesso tempo mi sentii innalzare.
Volli aiutare quel movimento e venni come sospeso poco aldisopra del mio corpo.
Vidi davanti a me un disco luminoso del diametro forse di cinquanta, sessanta centimetri.
Non so cosa provai: gioia, desiderio, paura.
La luce subito si rapprese in un punto che si allontanò in una scia come di cometa.
Per qualche minuto mi fu impossibile muovere il corpo e le labbra, tanto che temetti di essere stato preso da un colpo.
Poi tutto tornò normale.
Guardi le ore: erano le sei e venti, l'alba sorta da poco, era l'ora di reggenza di Pahaliah.
Per tutte le notti che seguirono mi addormentai invocando il nome dell'Angelo, sperando di trovare il passaggio.
Non accade nulla.
Per quasi un anno cercai ogni aiuto possibile tra quelli suggeriti.
Giunsi a porre un grande cristallo di quarzo grigio sotto il cuscino.
Una mattina vidi qualcosa che mi parve un segno: un cieco nel parco, senza accompagnatori, attraversava l'isola di ghiaia centrale tastando il terreno con il suo sottile bastone bianco.
Deviava, nel suo camminare sbandato il viso si alzava al cielo, infine - i suoi ultimi passi furono inspiegabilmente più rapidi, come un cadere presentendo la meta - raggiunse un sedile di pietra.
Quella stessa notte sentii premermi il petto.
Scivolando dolcemente verso sinistra, il lato più aperto, il lato del cuore, iniziai a salire.
Poi mi liberai.
Non ebbi paura.
Dall'alto guardai il mio corpo, l'altro, dormire, innocente, indifeso, privato di una parte, forse la più alta, di sé.
Qualcosa di simile ad una corda d'argento mi univa a lui, al plesso solare, poco sotto il cuore.
Lo spazio era tracciato da una falda di luce.
Non perfettamente verticale, leggermente inclinata, aveva sfondato il soffitto della stanza e ne attraversava il pavimento: un raggio, il tratto di un raggio infinito.
Stravolgeva, squassava le misure della stanza e del tempo così come quelle della coscienza, sceglieva di abitare quello spazio così piccolo e povero: le pareti di intonaco, lo spigolo tra quelle dove l'oscurità si raccoglieva come in una sottile lama nera, il poco, il caduto, il non redento della realtà materiale.
Provai il desiderio di volare, aprii le braccia di quel corpo che non vedevo né sentivo, attraversai in una leggera, dapprima esitante e poi decisa frizione il muro della casa, mi trovai sopra la città, la piazza dove abitavo, le case, le finestre buie.
Fui attratto da una di esse e vi precipitai.
Vidi in una stanza una donna che dormiva, volai nella sua stanza, sopra i suoi vestiti, i suoi oggetti.
Mi avvicinai al suo respiro, agli occhi chiusi, entrai in quella fronte limpida e in lei, nella sua coscienza vitale.
Sentii come ama una donna, la differenza tra essere penetrata e penetrare, tra accogliere e prendere, vidi il figlio che sarebbe venuto e che già abitava il lago del suo cuore come un'ombra raccolta.
Uscendo dal suo essere qualcosa, creature scure che parevano battere le ali aldifuori della finestra della stanza, mi spaventò e mi ritrovai nel mio letto e nel mio corpo di carne, ancora una volta incapace di muovermi, di parlare, per qualche minuto.
Qualche giorno dopo rividi in strada la donna, una esile ragazza bionda che tante volte avevo notato e che abitava poco lontano da me.
Da allora il viaggio della notte fu possibile: per abitudine mantenni l'aiuto della disordinata, certamente spuria invocazione del libro della Wallace.
Il momento in cui il corpo si liberava e si innalzava sopra la città era un momento di felicità, una felicità profonda che non vibrava ma sapeva consistere, irraggiare.
Solo pensando di inarcare quel corpo immateriale e invisibile riuscivo a volare nello spazio e nel tempo.
All'inizio raggiungevo, in virtù di una gravità segreta, luoghi e persone che non riconoscevo, la cui storia apparteneva alla mia Anima, non a me.
Per molto tempo visitai un uomo che abitava una casa isolata, non lontano da una grande scogliera, forse in Bretagna o in Inghilterra.
Lo vedevo sorridere a una bambina, in momenti di intimità familiare, mentre raccoglieva della legna, mentre camminava verso il mare agitato in buie giornate d'inverno.
Non seppi mai chi era e cosa ci aveva legato, in che tempo aveva vissuto.
Presto imparai a guidare il mio viaggio là dove sentivo, dove volevo.
Fui nel cimitero di un piccolo paese dove un bambino della mia famiglia era sepolto da più di un secolo dopo essere stato dimenticato, vegliai per ore l'ultimo, sereno sonno di un compagno di liceo che era morto in un incidente tanti anni prima, fui nella casa che mia figlia avrebbe abitato un giorno, nel passato della donna che amavo, lei bambina, i lunghi capelli mossi dal vento sul pontile di una barca in una giornata incendiata dal sole, vidi, solitarie, le vette più alte della terra, vidi Alessandro guardare nel mattino la piana di Isso prima della battaglia.
Una notte desiderai volare nel buio dello spazio e là mi apparve la sfera d'opale della terra, più chiara delle immagini che ricordavo.
In lei gli strati di atmosfera, i veli turbinanti delle nubi muovevano come le acque organiche di una cellula, come i liquidi di un corpo.
Altro, aldilà dell'uomo, da lui e per lui, attendeva di nascere.
Guardai, non lontana, la luna, poi le stelle e le galassie, gelide, deserte, a una distanza infinita.
Pensai al lavoro di tutto il manifestato e delle ere perché in quella perla azzurra, la terra, potessero sorgere la vita e la coscienza.
Poi sentii avvicinarsi una forza suprema e vidi Pahaliah.
Nella figura di una croce radiante, il suo corpo regnava dall'alto dei cieli su una parte dell'universo, quella dove nascevano i suoi figli.
La sua dimensione e il suo splendore erano inimmaginabili.
Compresi che tutto ciò che era avvenuto, sin dai primi richiami dell'Angelo custode della mia forma, non aveva rappresentato che la sua convocazione.
Sei emanazioni, sei braccia, sei ali, le sei ali dei Serafini e dei Troni disegnavano la sua croce: le dimensioni della materia e del tempo.
Le due emanazioni superiori vibravano verso l'alto come immense fiamme d'argento, raggiungendo il luogo in cui Pahaliah e gli altri Troni contemplavano l'Impensabile e ne eseguivano la volontà.
Per un attimo l'Angelo Pahaliah mi vide, con tutto il suo potere.
Ricaddi nel mondo materiale.
Da allora i viaggi astrali divennero intermittenti, deboli, vaghi, sino a scomparire del tutto in poche settimane.
Non dimenticai, mai, ciò che Pahaliah mi aveva mostrato guardandomi: l'Opera Divina.
In quella sentivo sempre di più il mio luogo, ciò che io, suo figlio, davvero ero, ciò che già portavo in me e quanto avrei dovuto compiere, trasformare.
Attendo il giorno che verrà, il giorno di una nuova chiamata.
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