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Jan Mydlàv o delle colpe e delle pene
Sono Jan Mydlàv, boia dell'Imperatore nella città di Praga.
Come me fu boia mio padre Jaroslav.
Bambino, ignoravo dove andasse quando portava con sé quel grande mantello di raso rosso, che credevo magico.
Il suo servo, Karel, lo attendeva con un lungo e pesante fardello che - seppi poi - conteneva le spade.
Quei giorni papà non tornava che al mattino, quando io ero già sveglio.
Lo sguardo stanco, gli effetti di una intera notte passata nelle bettole.
Solo il giorno successivo sarebbe ritornato lui, affettuoso e attento: avremmo giocato nel cortile della casa, richiamato gli uccelli sulla collina di Petrin.
Quando compii sedici anni mio padre mi disse del suo lavoro e che un giorno avrei dovuto succedergli.
Mi avrebbe insegnato ogni cosa.
Lui e Karel mi mostrarono le tre spade, puro acciaio di Spagna, me ne fecero saggiare l'enorme peso, l'equilibrio.
"La punta della spada al cielo - mi disse mio padre - e tutto il suo peso per un istante qui, in questo punto al centro del polso, prima che la lama cada".
L'arte del boia stava infatti nel decapitare il condannato in un solo colpo.
La sofferenza di chi doveva morire sarebbe stata minore, la punizione impeccabile.
Un boia che dovette usare il terzo colpo per decapitare un uomo a Poznàn ebbe problemi con la folla.
Karel mi addestrò con le sue spade - quelle che avevano già colpito un uomo dovevano essere usate solo nelle esecuzioni - a decapitare piccoli animali, perché mi abituassi al gesto e al sangue.
Mi fu spiegato con l'aiuto del cadavere di un vecchio, un senza casa pronto ad essere gettato in una fossa comune, dove e come colpire il collo per riuscire.
All'età di vent'anni sostituii Karel come asssitente di mio padre
Quando tutto finiva provvedevo alla pulizia delle spade che avevano colpito, con acqua di fonte.
Apposte le firme di rito, smettevamo i nostri mantelli e ci univamo alla folla.
Andavamo in qualche osteria dove molta birra e una carne pesante e condita mutavano e scurivano il nostro sentire, il ricordo di quanto avevamo appena vissuto.
L'indomani avremmo fatto ritorno a casa.
Mio padre era richiesto anche in città lontane, per la sua esperienza, la sua figura alta e imponente.
Quando morì fui immediatamente assegnato al suo posto come boia principale della città.
Trovai un aiutante, un lontano cugino.
Ricordo la mia prima esecuzione nella piazza della città vecchia.
Il condannato era un giovane uomo che aveva ucciso il padre, un uomo violento di cui si diceva avesse stuprato la figlia più giovane.
Le mani legate alla schiena, lo sguardo scuro ed intenso fissato a terra.
Sul patibolo, ascoltammo l'oratore dell'Imperatore dichiarare la colpa, poi la grande campana di Tyn rintoccare.
Di me, lui non vedeva che un volto in ombra, nascosto dalle ali del grande cappuccio.
"Non sentirai nulla - volli dirgli - soffrono di più le donne che partoriscono".
La campana toccò l'ultimo colpo.
Fummo lasciati soli.
Gli ordinai, come dovevo, di inginocchiarsi e con la mano aperta premetti il suo viso di lato sul ceppo.
Alzai la spada e ne feci gravare il peso dove mi aveva insegnato mio padre.
Poi, in un grande semicerchio, lasciai cadere la lama.
Il colpo fu perfetto.
La testa di riccioli biondi rotolò poco lontano dal ceppo, il suo tronco si alzò di scatto come colpito da una frustata e quasi sollevandosi da terra.
Dal collo reciso si alzò un potente getto di sangue che ricadde a terra solo dopo il corpo, spruzzando di gocce il viso di alcuni uomini che si erano avvicinati e imbevendo le larghe tavole di legno del palco.
L'urlo sordo della folla, un urlo che conoscevo bene e che conteneva così tante cose, si alzò come un'onda.
Rifluendo, lasciò un istante di silenzio assoluto.
Solo in quell'attimo, prima che il tempo ordinario sommergesse ogni cosa riprendendosela, essi comprendevano ciò che era accaduto, la sua sacralità, riuscivano oscuramente a rendere un vero onore, qualunque fosse stata la sua colpa, a chi era morto.
Non era forse vero che in questo mondo così rotto ed incerto, dove il Male vive e fermenta in ogni luogo e in ogni istante il condannato ne aveva assunta su di sé una parte, venefica, mortale, che aveva così risparmiato loro?
In vent'anni giustiziai, a Praga e in altre città, più di duecentocinquanta persone.
Quindici, i traditori della Montagna Bianca, in un sol giorno.
Oh i volti e il silenzio e le parole di quei minuti sul patibolo mentre il giudice dichiara la colpa e rintoccano le campane.
Alcuni balbettavano il nome della madre, altri confessavano a me e al cielo una colpa più tremenda di quella per la quale erano stati condannati.
In alcuni, per il terrore della morte, il cuore si rompeva in petto, dovevo sorreggerli e inginocchiarli al ceppo.
Erano già morti quando la lama cadeva.
Con il tempo avevo imparato a rispettare la regola che mi imponeva un assoluto silenzio.
Regola giusta e sacra perché il boia, come le stelle e i pianeti, deve agire impersonalmente.
Egli è infatti colui che uccide simbolicamente il Male, ed è, per colui che muore, il pontefice verso un altro mondo.
Come già mio padre, dopo ogni esecuzione giravo per le osterie.
Birra fresca e forte, il profilo e la figura delle ragazze che la servivano, beni piccoli ma così grati, riservati a chi ancora è vivo.
Così, boccale dopo boccale, dopo essere stato il rosso Angelo della Morte, io ritornavo umano.
Pensavo ai morti, alle loro colpe.
Pensavo a quanto fosse alta e necessaria, questa giustizia.
Occorreva opporre al Male, agisse questo nei piani del traditore o dell'usuraio, nel demone dell'incendiario o del violentatore, nel disordine degli omicidi della passione, ciò che è diverso da lui: il rigore di una giustizia alta e impersonale, un rito di tale bellezza da risultarne degno.
Tutto era terribile, ma sopra ogni altra cosa sacro.
Poco importava persino che il condannato fosse colpevole o vittima di una congiura del principe o di un altro uomo che assisteva all'esecuzione, ciò che contava era che la giustizia si manifestasse.
Un ordine trovava la sua immagine, veniva stabilito, diceva le sue parole: nel tempo avrebbe agito.
Quel raggio di luce, la spada, mostrava ciò che è davvero nell'uomo, torrenti di sangue color rubino, e separava le sue due parti, la testa e il cuore dove l'Anima è infitta.
Come appariva chiaro che l'uomo consiste, è, nel cuore e nel suo fiume di sangue, mai nella labirinti della mente.
Quando infatti l'Anima era già liberata e in un altro mondo si apprestava a raccogliere il premio e a lasciare il pegno della propria azione, la testa rotolata sul patibolo conservava per qualche secondo coscienza.
La folla terrorizzata, in una voce più alta di quella che il condannato aveva ancora sul ceppo, udiva qualche tronca parola dalla bocca al suolo: la fine di una preghiera, un nome, una atroce bestemmia, qualcosa di incomprensibile.
Nel 1754 un editto dell'Imperatore sancì che le esecuzioni avrebbero da allora avuto luogo per impiccagione e non per filo di spada.
Il tempo che giungeva temeva il sangue e la sua ostensione, l'immagine violenta.
Nell'illusione che tutto sarebbe stato più giusto e più umano, più sopportabile, tutto andava perduto.
La bellezza, la verità del rito di giustizia rimasero inespresse, morte come le parole nella gola dalla lingua vomitata dell'impiccato, come il suo sangue bloccato nel corpo e non disperso.
All'epoca il lavoro del boia, considerato ingrato e maledetto, era ben compensato.
Chiesi di rinunciare al mio incarico e mi trasferii con mia moglie, dalla quale non avevo avuto figli, in una casa nelle campagne di Vary.
Pochi anni dopo mi uccise una febbre tifoide che, lentissima, era durata mesi, il rovescio che dovevo vivere di quella morte nel fulmine che così tante volte avevo dato con l'acciaio.
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0 recensioni:
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- La figura del boia che è solo un mestiere, svolto con grande professionalità e distacco. Imparare un'ARTE necessaria. Un'idea fantastica, un racconto scritto benissimo, scorrevole, che cattura dalla prima all'ultima parola. Mi ha catturato la dualità Angelo della morte che torna umano, anche troppo umano. Meglio morire di spada che lentamente, dopotutto è una forma di grazia.
Non c'è altro da dire 5/5
- L'esecuzione come un'arte, il boia un nobile artista. Oggi diremmo un serio e valido professionista.
Acuta l'osservazione dei rantoli incomprensibili ma di probabile intuizione, quasi come un rito liberatorio che poi vengono strozzati da giustizia umana, come hai scritto.
Non avresti potuto fotografare meglio il momento dell'esecuzione, nemmeno con una macchina fotografica.
Perfetto.
- Hai reso alla perfezione un modo di pensare alla vita che per fortuna, ma aimè sempre troppo tardi, va tramontando. Mi ha appassionata fin dall'inizio questo tuo scritto, ben strutturato e mai banale, nemmeno nelle parti più truci (in cui di solito il rischio è cadere nella scontatezza). Veramente ottimo.
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