Riuscire a parlare davanti al pubblico.
L'adrenalina sale come lava nel petto che ansima e ti dà la carica.
Vorresti fuggire ma ti senti responsabile anche per i tuoi compagni di avventura e così respiri a fondo. Il diaframma in fuori, scarichi l'aria lentamente, e trrr... trrr... il verso che ti aiuta a lubrificare le corde vocali disidratate.
Ecco, tocca a te... vai. I riflettori ti accecano, non vedi che l'ombra delle teste degli spettatori che attendono la tua battuta.
Il sogno vissuto da bambina riaffiora.
Con l'amica del cuore ti chiudevi nello sgabuzzino della cucina. Le mamme di entrambi erano le uniche spettatrici. Uscivate, tenendovi per mano, e gesticolando cantavate la filastrocca imparata a memoria. Loro vi guardavano con orgoglio e alla riverenza finale applaudivano entusiaste. "Brave, brave. Ancora, ancora..." e tutto ricominciava.
Avevo rimosso il ricordo dell'io bambina che si sentiva protagonista e fiera di aver fatto divertire la persona che amava di più.
Negli anni il pubblico è mutato. La sensazione provata all'università era quella di controllare la mente del professore che mi interrogava. Mi sentivo uno stregone e pensavo: " Sei nelle mie mani e ti posso portare dove voglio!"
Poi gli spettatori sono aumentati.
Io parlavo di numeri, di regole. Insegnavo la matematica come un enigma da risolvere e di questo mostro riuscivo a trasmettere l'aspetto giocoso.
I ragazzi non applaudivano alle mie spiegazioni ma era sufficiente guardarli negli occhi per convincersi che l'entusiasmo e la passione erano il filo che ci univa e si traduceva da parte loro in riconoscenza.
Da adulta sono tornata indietro nel tempo e gli spettatori, quelli veri, mi osservano dal parterre.
Appena entrata in palcoscenico la paura vola via e nasce in me la voglia di prendere per mano il pubblico. Il filo ritorna come la ragnatela che intrappola le menti di chi mi ascolta in silenzio per ipnotizzarle nella storia che rappresento.
Non so se ci riesco con gli adulti ma con i bambini ne sono sicura : sono gli ascoltatori che preferisco. Sembrano pulcini che attendono il cibo dalla mamma chioccia e così mi faccio chiamare: la gallina Giorgia.
E alla fine della lettura o dello spettacolo l'applauso risuona e tra il pubblico riconosco un sorriso: quello di colei che, da molto lontano, continua ad osservarmi.