racconti » Racconti fantastici » Una lettera di Charles Darwin
Una lettera di Charles Darwin
Emma, mia adorata,
domani il Beagle lascerà l'Australia per le isole dell'oceano indiano, il Capo di Buona Speranza, poi ancora il Sudamerica, le isole Azzorre, Plymouth.
Oltre l'ultimo porto ci sarà di nuovo e finalmente ogni luogo d'Inghilterra, i giardini di Shrewsbury dove la mia mano ha conosciuto per la prima volta la tua, le acque di quel fiume in cui ci specchiavamo camminando come figure di un sogno.
Ricordo il tuo viso chiaro, la nube d'oro dei capelli, lo sguardo che cadeva a terra in una timida dolcezza quando ti parlavo di mia sorella e di suo marito, del loro figlio di pochi mesi.
Pensavi in quell'istante a noi, al tempo che ci avrebbe contenuto, Emma e Charles, uniti e silenziosi aldilà di ogni vicenda, come chi dorma al fianco dell'altro solo sfiorandone il braccio, pensavi al tempo che ci avrebbe oltrepassato, al futuro che da noi sarebbe dilagato nei secoli: i nostri figli e poi i loro, le generazioni dell'uomo.
È tutto così vicino, Emma.
Lascia che ancora una volta io ti racconti del mio viaggio e dei suoi segni, che metta tutto questo ai tuoi piedi. Ciò che mi raggiunge e sconvolge il mio cuore tormentandolo o elevandolo non diventa infatti che un dono per te.
Dopo questo viaggio, cinque anni in cui l'incredibile del mondo ha mostrato senza alcun velo il suo volto splendido e feroce io non ho bisogno che di pace, come un bambino impaurito.
Perché ogni cosa possa quietarsi, restare indimenticabile, essere accolta pienamente e fruttificare.
Ascoltami, dunque.
Quando lasciammo le isole Galapagos per l'Australia, sapevo che il nostro viaggio era prossimo al suo termine.
Come altre volte, mentre sentivo la nave avanzare sulla immane pressione delle acque immaginavo l'oceano aldisotto dello scafo per migliaia e migliaia di piedi, i raggi del sole penetrarlo sin dove era possibile in larghe e mutevoli falde aiutando con il loro spettro, le loro energie le mutazioni, l'evoluzione delle creature che lo abitavano.
La piccola cabina di poppa, che il comandante Fitzroy aveva destinato a me solo era attraversata, quasi al centro, da uno dei tre alberi del Beagle.
Del diametro di forse quattro piedi l'albero, intorno al quale era stato ricavato il mio piccolo tavolo di lavoro, quello sul quale ho scritto tutto il mio diario e le lettere per te, Emma, andava, leggermente inclinato e rastremandosi, dalla pesante chiglia in cui era infitto sino al cielo, alla cima dove fiammeggiava il piccolo stendardo del Beagle.
A volte, chino al tavolo sui miei fogli, ne toccavo il fusto e lo pensavo come una linea, un raggio che univa il profondo degli abissi marini al disco d'oro del sole e lungo il quale, come in una spirale infinita, il mondo e ogni sua creatura procedeva innalzandosi nella coscienza, verso la luce.
L'Australia ci accolse accordandosi a noi, al nostro sentire: le sue coste, i suoi paesaggi, la rara e nascosta natura animale, le basse cordigliere di rocce rosse, il giorno unanime e luminoso ma di una luminosità lontana e rarefatta parevano anch'essi esausti, finiti, incapaci di muovere ancora verso un qualunque altrove.
Ai pochi edifici in stile inglese, sede dei funzionari del regno, si affiancavano quartieri di stamberghe ad un piano abitate da una fauna umana indescrivibile costituita per la maggor parte da criminali ed ex galeotti della madrepatria.
Intorno ai villaggi - nemmeno Sidney avrebbe potuto definirsi una città - potevi vedere gruppi di aborigeni seminudi, capaci di qualche parola di inglese.
Vagavano senza meta, sempre quasi correndo, oppure accucciati sui talloni lungo le strade polverose guardando il divenire delle cose, il cadere dei minuti.
La sera lasciavano gli abitati, dove avevano rimediato qualche scellino e dei sorsi d'acquavite, per tornare a foreste povere e rade dove, si diceva, non avessero per casa, a piccoli gruppi, che un cerchio con al centro delle braci.
Benchè gli abitanti della Terra del Fuoco fossero ugualmente primitivi, totalmente incapaci di relazionarsi a noi, di apprendere una sola parola della nostra lingua, in loro era presente una struttura sociale, che in qualche modo li costituiva: ricordo i loro abiti variopinti, le loro cerimonie di cortesia, un rituale di matrimonio.
Nell'aborigeno australiano si saldavano in qualche modo il prima dell'uomo e il suo arresto.
Tutto era terribile: fossili di un uomo evoluto altrove, coscienti senza la cifra, la chiave per poter attingere pienamente da questa condizione, per poter avanzare.
La loro vita rispecchiava in qualche modo quella, sozza e degradata, dei criminali che abitavano le basse stamberghe dei villaggi, uomini e cittadini del regno.
Provavo una compassione infinita, per quei primitivi.
Nel mio sentire li vedevo come un vicolo cieco dell'umano, come materia vegetale che agli inizi delle ere, costretta a mutare dalle radiazioni solari, dal destino e dalla vocazione di tutto ciò che esiste non fosse riuscita che a fiorire per sempre in mille specie di cardi, in muffe dai sottili veli grigi perché altrove, in un giorno del tempo, avessero potuto avvenire i miracoli della rosa e del giglio.
Tutto è stato così difficile e grandioso, Emma, ma nulla è altro da noi, nessuna linea può separare davvero le cose del mondo, che resta uno, uno soltanto.
Il 13 gennaio, ancora nel porto di Sidney, il comandante Fitzroy mi informò che si sarebbero dovuti effettuare dei lavori alla nave e che avrei dovuto liberare la cabina.
Alcuni uomini la svuotarono lasciando per poche ore ogni cosa sul molo, davanti alla nave.
Vi erano i due bauli delle mie cose, i libri e il materiale da tavolo, il grande asse di legno che occupava tutta una parete della cabina e su cui avevo appeso, impagliati e preparati dal marinaio James Pay, alcune delle creature più strane e memorabili trovate durante i miei viaggi: la rossa ùria patagonica dal petto d'argento, una tarantola di dimensioni incredibili che fulminammo con la punta di una spada mentre muoveva veloce nel giardino di una casa a Bahia, molti insetti, rettili e varani, e poi serpi d'acqua dagli occhi globulari, bisce albine in stretti contenitori di formalina, un esemplare di iguana sudamericana cui una atroce deformità aveva ritorto e sospinto verso l'alto la colonna vertebrale, che premeva la pelle della schiena come a volerne uscire tramutata in una lama piena di nodi.
Come sempre, gruppi di aborigeni erano attorno alle navi.
Osservarono le mie cose a lungo e in silenzio, in particolare il pannello di legno, la grande iguana deforme.
Le braccia, appoggiate sulle ginocchia, oscillavano verso destra e sinistra, come spazzando il terreno: un gesto che avevo imparato a riconoscere e che esprimeva stupore, meraviglia, ammirazione.
Il giorno successivo io e altri quattro uomini ci proponemmo una spedizione di un giorno verso l'interno.
Passato il fiume Nepean con un traghetto, mentre ci apprestavamo a riprendere il cammino vedemmo un gruppo di aborigeni correre a passo leggero verso una radura.
Uno degli uomini che mi accompagnava scambiò qualche parola con il giovane che li guidava dandogli qualche moneta.
Lui fece cenno agli altri di fermarsi.
Rapidamente si esibirono per noi in uno spettacolo che consisteva nel porre un piccolo pezzo di tessuto chiaro, credo una parte di un berretto inglese distrutto, a terra a una distanza di quaranta, cinquanta passi.
Uno di loro, quasi senza rincorsa, scagliava la sua lancia in una altissima parabola che la faceva ricadere a terra trafiggendo il centro del piccolo fazzoletto, correva verso la lancia, la toglieva dal terreno e spostava il tessuto più in là.
Allora un secondo aborigeno scagliava la sua lancia, colpiva il bersaglio, lo muoveva più in là.
Questo per dieci volte.
Alla fine calcolammo che la distanza tra l'ultimo colpo di lancia, dallo stesso punto e il bersaglio a terra avesse superato i centoventi passi.
Lo spettacolo, pur così semplice, mi colpì enormemente.
Sembrava avvenire, nella sua irreale perfezione, in una altra dimensione e attivava con ogni evidenza in quegli uomini facoltà non ordinarie, a noi sconosciute.
Alla fine, gli aborigeni si rimisero in fila e ripresero a correre verso la loro meta di prima, la piccola radura dove li vedemmo fermarsi.
Dissi agli uomini che erano con me che non li avrei seguiti e che ci saremmo rivisti a sera, alla nave.
Intendevo raggiungere gli aborigeni, restare qualche attimo con loro.
Il traghettatore del fiume viveva con altri in una baracca da questo lato del fiume che sarebbe sempre stata in vista, inoltre non si era mai registrato alcun caso di aggressione o violenza da parte dei nativi.
Raggiunsi la radura.
Gli aborigeni erano immobili, lance e scuri di pietra erano accatastate le une sulle altre in un angolo, uno di loro soffiava in un lungo tubo cavo e ricurvo, dal quale usciva un suono basso e profondo.
Mi avvicinai al giovane che prima era parso la loro guida, dissi lentamente e con vero sentire quanto mi aveva colpito lo spettacolo delle lance, gli misi in mano ancora alcune monete.
Guardandolo in viso, mi accorsi che era tra coloro che avevano indugiato nei giorni precedenti intorno al Beagle e alle mie cose.
Mi disse: "Venire. Vedere. Tu".
Risposi che non avevo che poco tempo, che avrei dovuto tornare per sera alla nave, che l'indomani avremmo lasciato il porto.
Chiesi dove mi avrebbe condotto.
Non comprese nulla, non conosceva evidentemente che poche parole.
Si era già girato e mi trovai a seguirlo, per un sentiero segnato e piano in un bosco di alberi radi e bassi.
Il terreno era secco, di un giallo scuro e screpolato.
Camminammo forse per venti minuti fermandoci davanti a due piccole pareti di basalto che proseguivano in una specie di strettissimo canyon.
Lo percorremo per un centinaio di metri arrivando a uno slargo dove si apriva una grotta dalle pareti umide.
Una decina aborigeni, uomini e donne, stavano d'intorno come vegliando.
La mia guida mi condusse all'ingresso della grotta, mi guardò dilatando i suoi grandi occhi, il bianco venato, quasi conquistato dal nero torbido dell'iride.
Gridò: "Cielo! Terra! Cielo! Terra!"
Una, due, tre volte.
La forza del suo urlo mi disorientò.
Fui invaso da un senso di oppressione, per un istante il calore dell'aria mi parve insopportabile.
Entrai con un passo nella grotta.
A terra, al centro di uno spazio circolare, sopra un letto di paglie verdi e gialle, vidi un essere.
Era un essere umano, giovane, un adolescente, di sesso femminile.
Le sue palpebre erano chiuse, come cucite, il suo cranio quasi senza capelli.
Non era che un torso, dalla spalla destra usciva un moncherino informe, parte di una mano, nulla dalla sinistra, privo di gambe il bacino si deformava in sporgenze ad angolo.
Pensai che il suo corpo rassomigliasse una stella, una stella distorta.
Respirava con un suono leggero e ondeggiava in un moto continuo, che nauseava.
Diverse ciotole di terra cotta semipiene di cibo mostravano che gli aborigeni nutrivano quel corpo, se ne prendevano cura: il letto di paglie era pulito.
Su un lato della schiena intravvidi delle spaventose piaghe da decubito, rosse e ricolme di pus.
Chiusi per un attimo gli occhi.
Quel giovane corpo deforme era per gli aborigeni una divinità.
Una divinità che non si invoca, cui nulla si chiede e che pure è tale e suprema per la sua immagine, il suo mistero.
Presto - in realtà non comprendevo come in quelle condizioni avesse potuto sopravvivere per così tanti anni - quella giovane sarebbe morta ed essi avrebbero dovuto pensarla altrimenti.
Nella dissoluzione del corpo fisico e nella sua assenza eterna, senza rimedio, l'avrebbero forse dimenticata.
"Cielo! Terra! Cielo! Terra!" il grido che la mia guida aveva lanciato sulla soglia della grotta mi era spaventosamente chiaro.
I primitivi sanno di venire dal cielo sulla terra.
Anche al gradino più basso dell'evoluzione l'uomo è cosciente di essere Uomo, in modo oscuro egli è religioso prima di essere qualunque altra cosa.
La semplice coscienza degli aborigeni, le stagioni, i riti dell'umano, del vivere e del morire, le cure di ogni giorno, i lampi della mente e dell'amore sono un senso sufficiente per il cielo che scende sulla terra, per ricevere l'esistere.
Ma lei?
L'impossibilità di dirne il senso, lo spazio di differenza tra lei e loro, la sua immagine intraducibile: tutto questo la rendeva una divinità.
Non immaginavano che il loro contemplarla non fosse che una domanda, una domanda rivolta a Dio e il loro curare quel corpo la volontà di conservarlo sino a che, dal cielo, da quella bocca fatta di un taglio nero e sottile, nel loro animo, potesse essere data una risposta.
Uscii dalla grotta barcollando.
"Cielo! Terra!"
Avrei voluto, Emma cara, abbracciare la mia guida e dirgli ciò che so.
Che lei, povera creatura suscitata dalla materia sotto l'influsso dei raggi cosmici e sotto l'ala del grande Demiurgo - di cui Dio è Signore ma per noi, qui, per la nostra comprensione, solo silenzioso testimone - non era che il ramo dell'albero, altrimenti vitale e proteso all'alto, che la linfa non raggiunge e abortisce orrendamente i suoi fiori cadendo poi al suolo in secca cenere di legno.
Nell'avventura della coscienza lei non è una divinità ma un eroe, come chi cade su un campo di battaglia.
Così avrei dovuto piegare il ginocchio e rendere saluto e riconoscenza, in quella grotta, anziché fuggirne vinto.
Io, proprio io, non ne fui capace.
Albeggia, amore mio.
Un anello luminoso cinge la baia, presto il sole la taglierà con uno stretto raggio d'oro sulle acque, che colpirà il Beagle.
Salperemo oggi.
Spengo la candela, ripongo la lettera che io stesso ti consegnerò.
Non ti avrebbe raggiunta prima, comunque, e come affidare cose come queste al caso e ai suoi vortici?
Non manca molto, Emma, attendimi,
tuo
Charles
Laguna di Re Giorgio, Australia, 30 gennaio 1836
123456
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0