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L'altro lato della Luna
Non ho mai creduto nelle favole o, forse, erano loro a non credere in me. Non confidavo neppure nelle persone, perché sapevo che, prima o poi, avrebbero trovato il modo per uccidermi con una parola, uno sguardo, un'assenza, una bugia o, peggio ancora, col silenzio. Io detesto il silenzio, preferisco un urlo, uno schiaffo, mi accontento anche di un rumore, ma il silenzio proprio no. Non lo digerisco, mi rimane sullo stomaco a vita. Ed è proprio nel silenzio che, anche ora, mi perdo.
È notte fonda, mi rigiro nel letto cercando quel qualcosa che non trovo. Qualcosa che ho perso nel caos assordante di un rumore muto. Metto le cuffie alle orecchie per accatastare i pensieri in un angolino e non permettere loro di farsi così tanta strada dentro me. Ma è una di quelle notti in cui l'eco dei ricordi continua a risuonarmi nella mente. Ne sento i brividi così forti che mi stringono il cuore.
"Sarà l'abitudine, sarà che ogni giorno eri con me. Indimenticabile. Ancora mi vieni in mente, così incessantemente, come una goccia che cade leggera ma scava dentro me..."
Irene Grandi racconta il mio vuoto mentre, via dai miei occhi, scorre una lacrima. In fretta, la nascondo dentro un pugno fragile, l'asciugo e, con la stessa facilità, vorrei cambiare il corso del mondo. Ma è...
"... davvero difficile lasciare i ricordi e andare giù..."
Blocco quella musica e mi avvicino alla finestra. Alzo gli occhi al cielo e tra le stelle, la intravedo, bella come non mai, lì, a fissarmi, la Luna, che mi mostra il suo volto più bello. Poi, perdo la cognizione del tempo. Volo via da qui. Mi ritrovo ad un po' di tempo fa. È tutto diverso e il mio umore fa rima col bagliore presente dentro il mio sguardo. Avevo solo sedici anni, eppure mi sembrava di poter governare l'universo. La mia vita dipendeva da un incontro, da una parola. Bastava poco a rendermi felice, in fondo. Mi sentivo così suprema che quel pensiero riesce ad impossessarsi anche del mio presente facendomi credere di poterlo rivivere davvero quel vecchio mondo. E allora ci provo. Ritrovo la brezza di quella magia. E se la fantasia me lo permetterà, tenterò davvero di plasmare ciò che non va.
Lo vedo passare davanti a me, si volta per salutarmi, mi fissa un attimo e poi continua per la propria strada. Io sorrido, forzata dalla situazione, abbasso gli occhi e vado via. Mi sento stupida perché non ho le parole e nemmeno il coraggio per fermarlo, urlargli contro, dirgli quanto conta per me. Si chiama Massimo. Non è il bellissimo di scuola, quello che tutte vogliono, ma non possono avere. Non è il classico principe biondo con gli occhi azzurri. Se devo dirla tutta, non è nemmeno così simpatico, elegante, gentile e affascinante. Beh, glieli vogliamo trovare tutti i difetti? Sì, ma tanto non servirebbe a niente. Quelle maledette farfalle nello stomaco sarebbero capaci di illuminare anche il marciume, dannazione!
Lo conosco da sempre, da quando eravamo piccoli e giocavamo nel parco sotto casa e, anche se è qualche anno più grande di me, si può dire che siamo cresciuti insieme. Abitiamo l'una di fronte all'altro e la sua presenza la ritrovo adesso. Credo di averlo chiamato col pensiero e lui, stranamente, ha risposto, mi ha concesso questo grande onore.
Lo vedo tornare a casa e ricordo quante notti insonni ho passato ad aspettarlo, qui, poggiata sul davanzale di questa finestra, a cercarlo inutilmente mentre lui "dormiva", beato e tranquillo, in un letto diverso dal suo. No, non ero pazzamente innamorata di lui, anche se può sembrare il contrario, né lui di me. A dire il vero, un po' innamorata lo ero, ma questo era meglio che lui non lo sapesse perché... non lo so perché, ma credevo fosse meglio così! Era piacevole pensare che un giorno si sarebbe accorto di me, ma non di me amica, di me donna.
"Donna", che parolone!, avevo solo sedici anni, se mi avesse sentito, sarebbe scoppiato a ridere. Di me ragazza!
Mi sono sempre appigliata ad ogni minimo contatto, agli sguardi che mi lanciava, ai suoi sorrisi, alle nostre smorfie, a quelle parole frettolose e un po' storpiate. E ogni piccolezza ai miei occhi appariva immensa, succede sempre così, no?
Ci credevo. Credevo che prima o poi avrebbe iniziato a crederci anche lui. Ma nel momento in cui ho creduto che ci stesse credendo, ho dovuto ricredermi.
Ecco, ricomincio con i miei stupidi giri di parole! È la rabbia che ancora provo a confondere i termini nella mia testa e a giocare con loro. È la stranezza di riprendere in mano emozioni troppo spesso sfiorate, ma mai toccate veramente. Mai assaporate davvero.
Poi un flashback. È la festa del liceo. Siamo in macchina insieme, scambiamo poche parole, tanti sorrisi. E quelli a me bastano. Raccontano la nostra alchimia, quella sintonia che non è semplice trovare. Mi svela qualche pettegolezzo sulla tipa che gli va dietro e io mi sento morire d'invidia e vorrei sapere se sa di me almeno una piccola parte di quel che che sa di lei. Vorrei chiederglielo. Lo faccio. No, non lo faccio. Non ho voglia di rimanerci male, non ho intenzione di passare la serata a rimuginare sulla sua superficialità. E, allora, mi aggrappo ad ogni minimo appiglio sperando che mi regga. Sperando di non cadere o, per lo meno, di non farmi poi così male.
Scendiamo dall'auto e dividiamo le nostre strade come due perfetti sconosciuti.
Prima di entrare, intravedo un'ombra.
È Martina, una ragazza che ho già visto qualche volta a scuola. Aspetta. Non so cosa. Non so chi. Ma quell'attesa sembra avere un profumo speciale. O forse di speciale non ha niente, sono soltanto quelle farfalle che continuano a plasmare la realtà, a far apparire tutto per come non è.
Si accorge della mia presenza e mi saluta. Io ricambio con un sorriso. Poi una moto mi passa davanti per andarsi a fermare proprio vicino a lei.
È un ragazzo. Non lo conosco. Si perdono in un abbraccio. Poi un bacio. Poi lui, frettoloso, la incita a salire e fuggono via così, dirigendosi verso interminabili mete. Quelle irraggiungibili. Impossibili. Inimmaginabili. Quelle che svaniscono alla luce del giorno.
Massimo ha raggiunto i suoi amici. Io cerco i miei. E la serata passa in fretta per lasciare spazio alla notte, per dare il via libera ai sogni, quelli a cui solo la fantasia dà veramente vita. Quelli che, al solo pensiero, ti sembra di toccare il cielo con un dito, ma se freni un attimo l'entusiasmo e ti stropicci gli occhi, ti accorgi di non averlo mai raggiunto realmente quel paradiso. Di averlo solo immaginato. Massimo viene a chiamarmi, io prima di andar via saluto tutti, poi lo seguo. In macchina lo sento strano e distante, non azzarda parola e io che di parole non sono mai sazia, faccio di tutto pur di strappargliene qualcuna. Arriviamo sotto casa. Spegne il motore e poi si volta verso me. Con occhi certi, mi scruta. Io i miei li abbasso per non far notare l'imbarazzo. Mi alza il viso con la mano e si avvicina a me sempre più. E solo ora mi rendo conto che non siamo altro che due stupidi che si sono aspettati a vicenda rimanendo zitti, attendendo il caso, la sorte, il destino o semplicemente il momento adatto. Le nostre labbra si sfiorano, si accarezzano, si abbracciano. La magia aleggia nell'aria e mi sento così felice che un sogno così credo di non averlo mai neppure desiderato. Ricordo che quella notte non ho chiuso occhio neppure un solo istante. Ricordo che fremevo dalla voglia che giungesse il giorno successivo per vederci, per viverci. E, invece, un'altra verità mi ha fatto compagnia insieme alla luce del sole: il silenzio.
Ero davanti scuola a parlare con Martina. Avevamo avuto poche occasioni per confrontarci, per scambiare qualche parola, fino ad allora. Quella mattina, invece, ci siamo trovate entrambe al distributore del caffè e non so come, non so perché, abbiamo iniziato a chiacchierare. È stato tutto così spontaneo e automatico che non riuscivo a spiegarmelo ed era assurdo trovarsi così d'accordo e affini con una sconosciuta. Dopo poco è arrivato lui, Massimo. I nostri sguardi si sono incontrati. Gli ho sorriso. Lui ha sorriso me. Gli stavo andando incontro e poi lui ha cambiato strada. Ha invertito direzione dopo aver preso a pugni e distrutto non solo il mio cuore, ma anche le mie aspettative, i miei pensieri, le mie fantasie, gli anni trascorsi insieme. Anche le mie corde vocali perché la voce per urlargli contro non l'ho mai trovata, per dirgli cosa penso della lurida persona che è. Non ce l'ho fatta neppure quella volta che, chiedendogli i miei mille perché, mi ha risposto "c'è un'altra!". Poi ho scoperto che non era "un'altra", ma ce n'era anche un'altra ancora e poi ancora...
Mi sono sentita morire perché mi erano stati strappati dalle mani i sogni più profondi che avevo e, senza quella forza che m'infondevano, mi sentivo troppo fragile. Martina è stata un grande scoglio a cui aggrapparmi per non naufragare nel mare in tempesta. Sembra stupido dirlo, ma senza di lei, temo che non ce l'avrei fatta. Ha fatto presto a diventare un po' l'altra parte di me, quella più dura, più coraggiosa e forte.
Non ho mai fatto sconti alle persone, non ho mai permesso loro di entrare gratuitamente nella mia vita, dovevano meritarlo. E Martina, anche se non lo sapevo ancora, aveva il pass. Lei sarebbe stata la mia vita.
Ci siamo raccontate, ci siamo vissute e la sua storia non era tanto diversa dalla mia. La sua storia era un po' la mia. Leggeva nel mio sguardo le risposte alle domande che mi poneva ed era bello riuscire ad essere trasparenti, riuscire a tradurre la versione più complicata che sono i pensieri che ci ruotano, confusi, per la testa. Non era un'amica per me, no, era molto di più. Ricordo come fosse ora anche un altro giorno. Era un pomeriggio d'estate, ero a casa sua, aspettavo che finisse di prepararsi per andare a mare. Ammiravo le nostre foto sparse sulle pareti della camera, poi le è arrivato un messaggio, mi ha chiesto di leggerlo al posto suo. Ho afferrato il Nokia poggiato sulla scrivania e ho eseguito l'ordine:
«Ci vediamo stasera alle otto! Baci... »
È uscita dal bagno chiedendomi chi fosse. Io l'ho guardata con gli occhi pieni di lacrime. Lei ha guardato me, poi ha capito.
"Non è come credi!" - ha sussurrato.
"Non è come credo?" - ho risposto delusa - "Forse non è come credo, ma nemmeno tu sei come credevo! Divertiti stasera con Massimo."
Ha provato a fermarmi, a spiegarmi, ma io sono fuggita via, senza sapere dove. Correvo alla ricerca di una spiegazione, di un motivo, di una medicazione per quella ferita che stava perdendo troppo sangue, avevo un'emorragia all'anima. Mi ha cercata spesso per parlarmi, ma non gliel'ho permesso. Ha insistito, mi ha telefonato miriadi di volte e non ho mai risposto. Poi, un giorno, una lettera è arrivata dritta tra le mie mani per continuare a infilare il coltello nella piaga, come se già non avesse fatto male abbastanza. Ma io non avevo bisogno di giustificazioni, Martina era già stata condannata, la sentenza era stata tratta, non c'era modo o mezzo per assolverla, era tutto inutile.
Ho provato a cancellare tutto. A rimuovere dalla mia mente ciò che mi aveva fatto così male. Non era un compito da poco.
Il mio cuore ha accumulato così tante fatiche, che sembrava volesse esplodere. Un giorno non ha retto più davvero. Non ricordo niente di allora. Solo caos, confusione, un venir meno delle mie forze, di me. Sono stata portata urgentemente in ospedale. Hanno detto tante parole i medici a riguardo, ho visto scendere troppe lacrime in quei giorni, ma era tutto così confuso, che non capivo. Poi sonno. Buio. Nero pece. Poi luce. E credevo fosse un addio. Era tutto così bello e dolce lì, che avrei potuto viverci in eterno, non mi sarebbe dispiaciuto affatto. Invece, il risveglio mi aspettava ed è stato atroce. Avevo dolori ovunque e un taglio enorme sul torace. Il mio non aveva retto davvero, avevano dovuto comprarlo nuovo, il cuore.
Tra le mani mi sono trovata un foglio. Anzi, no, non un foglio, ma il foglio. Era la lettera di Martina. Stremata, ho aperto quelle parole per vedere cosa ne pensava il nuovo acquisto, per sapere il suo parere a riguardo, magari lui sarebbe stato capace anche di perdonare.
"Luna,
ho sempre creduto nella nostra amicizia e non l'avrei tradita per nessuna ragione al mondo. Ricordi quante volte te l'ho ripetuto? Ho mantenuto la mia parola.
Io e te eravamo un po' un tutt'uno e mi fa male parlare al passato del legame più bello e profondo che io abbia mai vissuto. Ricordi quando ci dicevamo "Io sono te e tu sei me"? Io rimango di questa convinzione, dentro te c'è un po' di me. Dentro me c'è un po' di te. Lo senti? Ti sto abbracciando."
Lo sento. Batte forte. Dei flash mi assalgono. Sono io, in moto. Sulla moto di Martina. Sola, senza di lei. Vagheggio per la città. Al semaforo c'è il verde quindi, tranquilla, passo, ma con fretta una vettura mi si scaglia contro. Cado a terra violentemente, sbatto la testa, perdo i sensi. E poi non lo so. Tutto il resto non lo so. Non capisco.
"Darei la vita per te, Luna. Farei di tutto pur di vederti felice. È vero, mi ha chiesto di vederci, Massimo. Ma vederci per te. Tra qualche giorno partirà e mi ha lasciato qualcosa da darti. Voleva che tu non sapessi niente per non poterlo fermare. Ti prego, chiamami, Luna. Vieni da me, parlami, lo sto odiando questo silenzio. Il silenzio è distruttivo, il silenzio si ciba del tempo che non torna indietro. Apri di nuovo le tue braccia verso di me. Sono io, Martina, anzi, no, sono te. Sono l'altro lato della Luna."
E tutto torna. Torna il sogno. Io sono lei. Torna la cicatrice. Lei è me. E mi sento morire dentro. Una stretta all'anima. Una stretta al cuore. Il cuore che lei mi ha regalato.
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- come dice Ray a Jim nel film quando gli legge la prima canzone: "cazzo Morrison, è magnifica"... ecco questo è il mio commento... ci sono anche dei punti che non ho capito, dovrei rileggerlo ma per pigrizia non lo faccio, (lo dico per mantenere l'amosfera di sincerità creata dal racconto) poi ci hai infilato immagini stra belle tipo "il silenzio si ciba del tempo" è verissimo, quanto tempo sprecato dietro a chiarimenti mai chiesti...
- Molto bella... e può essere fonte di ispirazione...
- Complimenti, ottimo racconto...
- Complimenti, molto bello! bravissima!
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