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Che però
Stanco di leggere libri altrui, ho deciso di scriverne uno io. Sono stufo di quella muffa stantia che mi perseguita con le sue velleità intellettuali: dov'è il sangue, la passione, la leggenda inscritta nella nostra umana natura, che come un richiamo ancestrale sgorga ad ogni riga raccontandoci chi sono io, chi sei tu, chi siamo noi? Ho quindi deciso di far dono ai posteri del distillato più puro della mia vena creativa. Allora, prima di tutto partiamo dal protagonista.
Un uomo alto direi, per cominciare. A dire il vero già qua mi sono posto numerosi dilemmi. Partiamo proprio dal principio, dal cromosoma, il DNA, Dio!... Senza divagare, partiamo dal sesso.
O dal genere, perché non é certo nei cromosomi che è contenuta la virilità o il dolce poggiar del petalo di rose sulla pelle che è la femminilità. Gran mistero quello. Però bisogna scegliere, e non ci si può perdere in ragionamenti complessi. Allora, sesso o genere, che dir si voglia, maschio. Però un maschio vero, un maschio alfa, che il metrosessuale amante del sushi tradisce solo la vigliaccheria di una classe dirigente che non sa confrontarsi con la donna in via di emancipazione fallocratica e cerca quindi annaspando di adottare la tattica dell'orso che si finge già scendiletto, sintomo, questo sì, di peggior maschilismo ancora, nel disperato tentativo di mantenere il controllo fingendo un improbabile somiglianza.
E allora lo descrivo virile questo protagonista, un uomo di una volta, molto pelo in corpo e sguardo truce. Sì, perchè ovviamente c'è ancora chi ha lo stomaco di rappresentare l'archetipo di maschio che vorrebbe essere, ma lo deve sempre scioccamente sporcare con qualche dettaglio insignificante che faccia tradire la natura ultima di quest'ultimo come piccolo cucciolo spaventato in un mondo dove, troppo precocemente, scopri che quel succoso capezzolo nutriente, oh mio caro, non sarà lì a lungo per te. E allora via con inutili e insopportabili trattazioni sul crudo destino della persona sensibile, che a causa di una realtà troppo reale si è racchiusa in se stessa a riccio, infarcendo poi il tutto con nozioni di Freud masticato male e Jung pronunciato sbagliato. E invece io no, perchè sono stufo di questo relativismo banale che annienta non tanto il bianco e il nero, quanto tutti i colori della mia tavolozza creativa, fagocitati dalla famigerata scala di grigi, ultimo rifugio dei cervelli pigri in cerca di acclamazione facile. Ciò detto, un duro, ecco, un Clint Eastwood. Però non quello dei suoi ultimi film, "Gran Torino" e compagnia varia, con tutta quella morale repubblicana però di sani principi, da vero yankee con barbecue e bandiera da prato, che per il suo stesso essere così rigida e pura e inalterata da questi anni di disincanto politico risulta più rivoluzionaria e progressista dei democratici amanti dei gay ma lontani dalla gente comune. No, per Dio, io voglio il vero Eastwood, quello con lo sguardo truce, voglio l'ispettore Callaghan ( mi si perdoni il provincialismo, so che la versione non localizzata era senza "g", ma la gente deve capire ), che spara e poi ci pensa. Ecco, va bene, ho scelto il maschio. Il maschio e non la femmina, perchè questo sono e non mi va di rendermi patetico nel mimare l'abisso di una psiche che mia non è, e non certo per criterio di complementarietà posso ricostruire, come se io fossi un vaso di bronzo attorno al quale rimodellare il mio calco. Che la mela e Platone si fottano. Poi descrivere una femmina, cosa vuol dire? Una donna, una femmina, la femminilità o in ultima istanza la madre terra, l'utero atavico che accoglie il cosmo e ci appare nella sua incarnazione antropomorfa fatta di morbide e languide carni, che solo un occhio vile ed in ultima istanza arrogante e presuntuoso può pensare di cogliere e raccontare, macchiandosi così di un'infamia peggiore della più bieca chiacchera da bar? Il sottoscritto certo presuntuoso non è, e allora mi sono deliberatamente e umilmente sottratto a questo onore-onere.
E allora andiamo di maschio, e alto. Alto perchè non si può più leggere veramente di questi omuncoli medi, che sotto tanta mediocrità nascondono un'umanità fatta di atti eroici o di incredibile forza d'animo. Che riescono a fronteggiare una rissa da bar solamente con il loro sprezzo per tanta indicibile barbarie che fa sì che, pur contusi e tumefatti, escano da quell'esperienza capendo che l'umanità è solo confusa e che abbiamo perso il linguaggio dell'amore. No, io lo voglio alto e massiccio, taglia forze dell'ordine, voglio uno che da una rissa da bar esca con un occhio nero, le nocche rosse e lo spirito goliardico di chi sa non temere la violenza ma giocarci; una punta di paura per forza, perchè io non sono stupido e non saprei del tutto modellare uno sciocco bruto attaccabrighe irredento. Al contrario, la goliardia deve apparire come la più solida delle difese, di chi ha capito di essersela passata brutta ma non vuole scioccamente farsi travolgere dall'oblio del terrore. Alto, ma non una pertica esagerata, troppo facile farsi coprire il fianco dall'espediente delle qualità fisiche invidiabili che però emarginano il soggetto da una vita fatta di piccola e normale quotidianità; quotidianità che narra il supereroe nella sua epica post-moderna ma che discrimina la persona che è stata dotata dalla natura di qualche tratto distintivo che la differenzia da questa umanità di replicanti, vittime di una globalizzazione che è in primo luogo mentale e solo in ultima istanza economica. A tal proposito devo vedere se fare la presentazione di questo libro in un ARCI, però facendo capire che non sono il sinistroide farloccone che approfitta di un malcelato spirito corporativo da nuova enclave culturale per far passare trippa per caviale; allo stesso tempo non voglio neanche assumere la posa del dissacratore iconoclasta dei valori della sinistra tradizionale, che però ambisce in un qualche modo a porre una didascalia ai margini della vignetta del progressismo odierno facendo capire che non ha più senso assumere una precisa identità politica perchè sono i movimenti, oggi, a non avere più credibilità.
Quindi dicevamo maschio, alto, adulto. Adulto, già, perchè? Perchè la meretrice sorte mi consegna nell'età dei venti,
ma troppo lontano sia dall'adolescenza propriamente detta perchè io possa ancora impersonificarmi credibilmente, sia dall'età adulta vera e propria, sospeso nel mio limbo di lavori precari e improbabile ricerca di sè. Ciò nonostante i miei poveri timpani, e oserei scommettere anche i vostri, sono stufi dell'eterna litania dei giovani senza più futuro, sospesi fra un nichilismo pre-intellettuale e un entusiasmo creativo che se non avessimo a che fare con una società perversamente gerontofila e squisitamente plutocratica potrebbe essere realmente incanalato per ridare linfa vitale a questo mondo depauperato da crisi dei valori e social network. Inoltre quest'età è un divenire fluido, fumo colorato che passa nel vuoto cilindrò delle età, e quindi non ho alcuna intenzione di vestirmi di presunzione e abbracciare la vuota pretesa di farmi cronista sincero, obbiettivo osservatore di questa primavera dell'esistere che si declina in sì tanti diversi modi. D'altra parte, meglio l'ingenuo e pur inesatto punto di vista del giovane incompleto che mima l'adulto sicuro, che il desolante spettacolo dell'ex adolescente che cerca di tradurre in grafia il tipico dialogare di una generazione che non è più sua coetanea.
Una persona sicura, perchè il tormento sterile del protagonista psicolabile, che però alla fine si scopre più saggio e capace nella vita del collega di ufficio conformista, non è che un clichè e mi si accappona la pelle al solo pensiero di abbassarmici. Una persona che sappia cosa vuole e sappia come ottenerlo, non abbia mai dubbi su chi ama e chi odia, e che non si presenta esponendo la sua diagnosi psichiatrica.
Ma allora quale espediente narrativo può disequilibrare la situazione iniziale, cosa può far procedere l'entropia dell'accadere lungo le prossime pagine che dovrò incidere d'arte? Ovviamente l'ambiente che circonda il protagonista. Lo spazio.
Il cosmo, il vuoto siderale, quello che volete. Sì, il protagonista è un astronauta in missione. Quale alternativa sarebbe stata migliore? La grande città? Ho la nausea per le infinite disquisizioni sull'uomo che si disumanizza, sulla freddezza dei rapporti sulla metropolitana, sul cemento che inghiotte gli alberi, e tutte le altre amenità da Marcuse da happy hour. La piccola provincia? E allora sotto tutti con l'ambivalenza che non può che nascere da un contesto ancora a misura d'uomo ma che, deformato dall'insopportabile prezzo del quieto vivere, cela i peggiori segreti ed emargina qualunque fonte di diversità anzichè accoglierla come nuovo sangue per spezzare la triste catena dell'endogamia sociale e culturale dei paesini, ormai spoglie campagne urbanizzate. E allora poniamolo nello spazio, dove possiamo svincolarci dai limiti imposti dalla moltitudine dei simboli e dei significanti con i quali abbiamo narrato la vicenda terrena, per addentrarci nel buio che nasce dal vuoto.
Senza però intellettualismi alla "2001 Odissea nello spazio" perchè in questo modo non facciamo che riportare i nostri dilemmi terreni nelle profondità dell'ignoto, che in un qualche modo appare come tentativo disperato di reificare un paradiso perduto, un luogo etereo originario verso il quale tornare riscattandoci dal peccato; riscatto, questo, non più sotto forma di crescita interiore e spirituale bensì come evoluzione della tecnologia e del sapere stesso che ci ha reso dannati. Allo stesso modo aborro lo spazio come inferi inospitali, dove creature aliene non fanno che porci di fronte alla nostra inadeguatezza morale, intellettuale, tecnologica e tal volta organica, per poi sviluppare le vicende dando modo di sentirci per certi versi indispensabili negli equilibri del cosmo, e dotati di una qualche dote che farebbe sì che la nostra specie, prescelta senza più una divinità che la scelga, sopravviva a qualunque attacco o invasione. No, niente alieni per la mia creatura, voglio una minaccia impersonale, qualcosa che nella sua infinità stupidità e assenza di coscienza, ci metta di fronte a tutta la povertà della nostra presenza nell'universo. Una minaccia che ci ponga di fronte ai nostri istinti di sopravvivenza pura, con la quale non possiamo dialogare e perderci nelle bugie del linguaggio. Che non sia portatrice di nessun cambiamento, per quanto deleterio.
Che sia cieco caos e distruzione. E voglio che il mio uomo sia lì, unico messaggero inconsapevole della stirpe prometeica che non accetta l'insulto della natura al libero arbitrio. Voglio un'idea che spazzi via qualunque se e ma, che apra la strada al giusto riconoscimento che c'è ancora qualcuno capace di partorire idee che non vogliano apparire nuove, ma che siano nuove.
Voglio un asteroide e un astronauta che cerca di distruggerlo.
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