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Aragona 1936: Destino Segnato
Correva da talmente tanto tempo da non riuscire neppure più a sentire il dolore alle gambe, quasi non fossero più parte del suo stesso corpo. Il bagliore dell’incendio alle sue spalle ormai era scomparso, eppure il giovane vedeva ancora la luce danzante inseguirlo sempre più vicino…
Così continuò a correre, giù dalla collina attraverso i filari di viti, per il campo di granturco, con le piante che gli sferzavano le braccia e le gambe, sempre più doloranti… e ancora attraverso un rigagnolo e poi di nuovo giù per un’altra collina.
Cadde, stremato, sulla terra annerita da un diverso, ma altrettanto devastante, incendio.
Si rialzò faticosamente e ricominciò a correre, furiosamente, disperatamente, come braccato dal demonio in persona.
Finalmente raggiunse i resti bruniti di una piccola casupola, la stessa che aveva visto dall’alto della collina. Sapeva di non essere ancora al sicuro, eppure non poteva più continuare a correre, doveva lasciar riposare almeno un poco il suo corpo esausto.
Cadde in ginocchio.
Si rialzò faticosamente, trascinandosi, e infine si abbandonò contro un muricciolo diroccato, quasi senza accorgersene si addormentò.
Riaprì gli occhi e si accorse con orrore di essere ancora nel monastero. La sua corsa era stata inutile? Lo avevano già trovato e catturato? O forse la corsa e la fuga erano stati solo un dolcissimo sogno e ora era tornato alla crudele realtà?
Intorno a lui uomini e ragazzi urlavano in preda al panico, mentre correvano in tutte le direzioni per mettersi in salvo e dal fuoco e dai colpi di pistola, lui era come paralizzato, non riusciva a muovere un muscolo. Continuava a fissare la porta ed ecco arrivare il Priore: il volto sereno, mentre si avviava verso i suoi carnefici, le mani rudi che lo afferravano, il povero saio che si lacerava e infine i colpi di spranga sulla schiena e le braccia nude. Miguel cercò di distogliere lo sguardo, non voleva e non poteva assistere a quella scena, eppure in quel momento non aveva il controllo del corpo; non riusciva a smettere di osservare.
I militari Rojos, truppe della sinistra repubblicana, raccolsero il corpo lacero e sanguinante di padre Sebastian lo strattonarono giù per le scale, il sacerdote inciampò, forse nell’orlo del vestito strappato o forse per una caviglia rotta; fece ruzzolando gli ultimi gradini fra le risa scomposte dei soldati.
Tra calci, spinte e insulti, i Rojos portarono il padre nel grande cortile interno del monastero assieme a decine di giovani seminaristi e frati più o meno anziani; costruirono una corona di spine con dei rovi di more e la calcarono in testa al priore finché il suo viso non divenne una maschera di sangue, poi lo legarono ad un ceppo e iniziarono a fustigarlo con quello che riuscirono a trovare: rami spinati, corde, frustini da cavallo. Alcuni dei più giovani seminaristi crollarono in ginocchio, atterriti, incapaci di restare in piedi, altri scoppiarono in lacrime, altri ancora vomitarono, e ogni volta il padre superiore veniva fustigato più forte. Miguel dalla sua posizione non poteva udire le parole di insulto e di scherno che venivano rivolte ai religiosi, ma poteva ben immaginare cosa volessero quei bolscevichi senza Dio, volevano costringere i giovani a rinunciare alla loro fede, volevano piegare la loro volontà con la violenza.
Poi accadde una cosa talmente incredibile che Miguel si rifiutò di credere ai propri occhi.
Due soldati entrarono nel chiostro portando la grande croce lignea della via crucis, la misero per terra e vi fecero sdraiare sopra Padre Sebastian; si avvicinò un uomo con un martello e 3 lunghi chiodi da carpentiere, ne appoggiò uno al polso del sacerdote e vi picchiò con il martello. L’uomo che ancora viveva dentro quelle carni martoriate non potè fare a meno di urlare, un urlo profondo di puro dolore che penetrò nella testa di Miguel come una lama affilata.
Un ragazzo di non più di 18 anni non resistette alla scena e scappò verso l’uscita in preda al panico, uno dei soldati non ci pensò due volte e con la freddezza di un carnefice lo colpì con un proiettile alla nuca; il corpo inerte si accasciò e un brivido corse lungo la schiena dei presenti, poi un altro colpo di martello spezzò l’aria e un nuovo urlo interruppe il parlare sommesso. Nessuno ebbe più il coraggio di proferir parola, tutti temevano, ma allo stesso tempo desideravano, sentire l’ultimo chiodo, perché almeno dopo le urla sarebbero cessate. Puntuale esplose l’ultimo colpo di martello, seguito da un nuovo grido, questa volta più debole, segno che tutte quelle sofferenze erano troppo per un corpo d’uomo.
Occorsero quattro soldati per sollevare la croce e piantarla nel buco preparato.
A quel punto i militari, evidentemente soddisfatti del loro lavoro, si voltarono verso la folla di seminaristi prigionieri, indicarono loro il loro priore e li schernirono, quasi non fossero degni di vivere.
Dall’alto della croce si levò una preghiera sommessa -Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno- poi il sacerdote si accasciò svenuto, incapace di sopportare ulteriori sofferenze.
Nel cortile i prigionieri iniziarono a salmodiare -Il signore è il mio pastore, non manco di nulla, su pascoli erbosi mi fa riposare…-
I militari rimasero a bocca aperta davanti a tanta devozione, avevano sperato di piegarli, avevano sperato di convincerli e invece eccoli lì, in punto di morte eppure ancora fedeli a un Dio crudele che non li avrebbe aiutati.
La preghiera si concluse con un unico grido -Viva Cristo Re- subito seguito da una raffica di spari.
Nessuno dei giovani missionari si rialzò.
Miguel si svegliò in un bagno di sudore. Si guardò intorno ancora terrorizzato, non era più nel monastero. L’incubo era finito.
Una parte di lui era sollevata per il fatto di aver solo immaginato quel massacro, ma un’altra parte aveva invece la consapevolezza che quello non era stato solo un incubo, ma piuttosto una visione, e che quello che aveva visto altro non era se non il destino dei suoi fratelli missionari, destino che doveva essere anche il suo.
Era salvo; eppure perché non riusciva a gioirne?
In realtà si disprezzava per aver abbandonato i suoi compagni. Come aveva potuto rinnegare il suo Dio? Come aveva potuto fuggire, abbandonando quei compagni che lo avevano accolto come una famiglia?
Si ricordò del suo arrivo al monastero, cinque anni prima, tutto sembrava così bello e semplice, abbandonare le tribolazioni della vita per la pace e la tranquillità del chiostro.
Era il 1931, l’anno della vittoria del partito repubblicano, e già nell’aria si sentivano i fumi di quella che sarebbe stata la più sanguinosa guerra civile del ventesimo secolo.
Miguel aveva sfidato tutti per entrare nel monastero claretiano; sua madre che lo voleva vedere sposato per trasmettere il nome di famiglia, suo padre che lo aveva già arruolato nelle truppe regie, persino quella fidanzata assegnatagli dalla famiglia che abbandonò ancor prima di conoscere.
Solo e diseredato approdò al monastero. Forse anche allora era semplicemente fuggito, fuggito da un padre padrone troppo oppressivo, fuggito da quella madre che non gli aveva mai dato un briciolo d’affetto, fuggito soprattutto dalla violenza delle armi e dell’esercito, fuggito da una guerra che non sentiva sua.
Eppure la guerra lo era venuto a cercare anche tra le pareti dell’antico monastero e lui, ancora una volta, era fuggito.
Era un vigliacco, era sempre stato un vigliacco e questa consapevolezza lo colpì come un macigno.
Si rialzò con circospezione dal suo nascondiglio guardandosi attorno, uscì, coperto dal mantello della notte, ancora sconvolto da quel terribile sogno, così reale.
Cercò tremante qualche segno dei suoi inseguitori, con un misto di inquietudine e sollievo si rese conto che non lo cercava più nessuno, una parte di lui sperava di scorgere qualcosa fra le ceneri fumanti, sperava di essere catturato per porre così fine a tutto, ma il destino aveva in serbo per lui molto altro ancora.
Raggiunse un piccolo sentiero che si diramava fra i campi incolti, arsi dalle fiamme di chissà quanti incendi, forse i miliziani erano già passati di lì mentre lui dormiva, o più probabilmente ancora prima, all’inseguimento magari di un altro giovane sacerdote.
Camminò su quel sentiero per ore, assorto nei suoi cupi pensieri, senza sapere dove sarebbe andato, lasciandosi guidare dalla fortuna che gli era già stata così vicina in quella terribile giornata.
E la sorte lo condusse nell’ultimo posto dove si sarebbe aspettato di arrivare.
Svoltando ai piedi di una collina il sentiero si addentrava in una piccola macchia mediterranea, rumori inusuali provenivano da quel luogo, rumori di musica e di risa. Miguel sapeva di dover stare lontano dagli altri esseri umani, non si poteva mai sapere, anche dei buoni cristiani a volte potevano tradire se spinti dalla paura, non era forse egli stesso un traditore?
Poteva trattarsi di soldati, non era raro sentirli cantare la sera, in quel caso sarebbero stati soldati repubblicani o soldati del re? Chi altro se non i soldati poteva accamparsi in un bosco? Magari poteva trattarsi di un gruppo di pellegrini diretti a Compostela, erano diminuiti in quel periodo, ma non del tutto scomparsi, in quel caso sarebbe stato salvo. Sorretto da questa nuova speranza decise di addentrarsi nel bosco, se si fosse fermato a riflettere avrebbe sicuramente ricordato che quella strada non era sul cammino per Compostela, ma non si fermò a pensare. Si diresse verso l’origine della musica e con suo grande stupore si accorse che si trattava di un accampamento gitano.
Ai bordi della radura vi erano cinque grandi carrozzoni variopinti disposti a cerchio, al centro un grande falò e accanto ad esso una splendida gitana dai capelli neri stava danzando accompagnata da un uomo alla chitarra, mentre attorno a lei altre fanciulle e altri uomini tenevano il rimo battendo le mani e suonando le nacchere.
In breve il ritmo del Flamenco coinvolse Miguel al punto di fargli dimenticare le sue preoccupazioni, si trattava di una musica antica, quasi tribale, che oltrepassava i normali schemi del linguaggio per andare dritto al cuore. Quella sera parlava di donne, amanti e madri, giovani e vecchie, era la voluttuosa danza della vita, la vita che nasce, cresce, ride, piange e infine muore. Questo e molto altro divenne agli occhi di Miguel quella sera la ballerina gitana.
Era la creatura più bella che avesse mai visto in vita sua, aveva lunghi capelli neri che, tenuti fermi da un pettine di tartaruga dietro l’orecchio sinistro, ricadevano in morbide onde sulle spalle brunite, scendendo sino a metà schiena. Le grandi labbra carnose, esaltate da un rossetto vermiglio, erano leggermente imbronciate, come in un lieve rimprovero, poi improvvisamente dopo una piroetta si schiusero in un accattivante sorriso che fece sobbalzare il cuore di Miguel. Gli occhi, di un magnetico verde smeraldo, erano capaci di far cadere ai suoi piedi qualunque uomo, si posarono per un attimo sul viso di Miguel, il giovane si sentì mancare il fiato, fu come trasportato all’interno di quel mare verde, vi trovò l’oblio e la pace, svenne.
Si svegliò con un terribile dolore al capo in un morbido giaciglio di cuscini, in un ambiente a lui sconosciuto, spaventato fece per alzarsi e si accorse di essere quasi nudo, gli avevano tolto gli abiti talari, ultimo retaggio della sua vita precedente; ora nessuno avrebbe più potuto vedere in lui un claretiano, non era più in pericolo, con suo grande stupore si accorse di provare dispiacere. Ora gli altri non potevano più vederlo come un sacerdote, ma lui si considerava ancora un uomo di Dio? Se è vero che l’abito non fa il monaco, lui ora era un monaco senz’abito o piuttosto era sempre stato un ragazzo con degli abiti da monaco?
Non riuscì a formulare una risposta ai suoi interrogativi che qualcuno aprì la porta. Si aspettava di veder entrare un tetro carceriere e invece gli apparve una splendida fanciulla; trasalì nel riconoscere i magnetici occhi verdi della ballerina gitana, con un gesto pudico si tirò la coperta fin sotto il mento.
La ragazza scoppiò a ridere.
Quella risata argentina, così spontanea, fece arrossire Miguel; quanto tempo che non sentiva qualcuno ridere a quel modo, la guerra aveva intristito tutti, aveva irrimediabilmente rovinato la sua generazione. Si rivide di nuovo bambino, prima della crisi finanziaria che aveva ridotto in miseria gran parte delle famiglie spagnole, rideva e scherzava con sua sorella, la stessa allegra risata argentina della giovane gitana.
-Ti ho portato dei vestiti puliti- disse allegra la giovane.
-G-grazie” balbettò Miguel confuso “ma n-non posso portare abiti civili… D-dov’è il mio saio?-
-Beh è meglio che per un po’ non ti fai vedere in giro con quello. L’abbiamo bruciato. Cambiati e scendi per la cena-. Disse la giovane con il tono di chi deve spiegare le cose ad un bambino recalcitrante, poi uscì.
Sentendo parlare della cena Miguel si accorse dei morsi lancinanti della fame che attanagliavano il suo ventre, improvvisamente si ricordò che non toccava cibo da almeno due giorni.
Ancora debole e malfermo sulle gambe si vestì e uscì dal carrozzone; non si era mai sentito così ridicolo, con i pantaloni alla zuava che ricadevano morbidamente sulle gambe troppo magre e sui suoi ridicoli sandaletti da frate sembrava il pagliaccio di un circo, ad aggravare il tutto contribuiva l’abbronzatura striata dei piedi che si allungava fin alle caviglie per lasciar posto a due stinchi di un bianco lattiginoso. La parte superiore del suo corpo era quasi accettabile, anche se la candida camicia dalle ampie maniche lasciava scoperto gran parte del torace, cosa che lo faceva sentire molto a disagio.
-Dovrò procurarmi degli stivali - pensò il giovane specchiandosi.
Quando scese dal carrozzone, a conferma di quanto era ridicolo, vide due giovani gitane ridacchiare guardando nella sua direzione, distolse lo sguardo imbarazzato e cercò la giovane che gli aveva portato gli abiti poco prima. La rivide nella sensuale danza cui aveva assistito la sera prima, a quel pensiero si sentì invadere da un fremito e non potè impedire al sangue di correre verso i suoi lombi; si impose di recuperare il controllo, era pur sempre un uomo di Dio, ma non fu così facile.
Vide la ragazza accanto ad un carrozzone, in una posizione un po’ appartata, impegnata in un’animata conversazione con un giovane uomo dai lunghi capelli neri; esitò, ancora turbato dalla reazione del suo corpo, poi si fece forza e si avvicinò. Si accorse che stavano parlando di lui. Si arrestò senza sapere cosa fare quando l’uomo si voltò e lo scorse, gli lanciò un’occhiata di disprezzo, sputò per terra nella sua direzione e si allontanò furioso.
Miguel imbarazzato fece per andarsene, ma la ragazza venne in suo soccorso, gli sorrise radiosa e gli disse: -Non curarti di Ramòn, non ama molto gli stranieri, ma in fondo è un bravo ragazzo, vedrai gli passerà. Vieni ti presento il nostro capo, gli piacerai-.
Senza dire una parola Miguel seguì la gitana fino al più grande dei carrozzoni.
Seduto di fronte all’ingresso un uomo sulla quarantina stava accordando una chitarra, aveva il fisico atletico di una pantera e lo stesso atteggiamento austero e misterioso, la carnagione era abbronzata, segno di una vita all’aria aperta e i lunghi capelli spruzzati d’argento erano raccolti sulla nuca in una lunga coda. Miguel riconobbe in lui l’uomo che aveva suonato la sera prima accanto al fuoco la straordinaria melodia che lo aveva incantato, il gitano alzò lo sguardo, aveva gli stessi magnetici occhi verdi della ballerina, il giovane sacerdote si sentì nudo davanti a quello sguardo indagatore, sembrava che gli scrutasse dentro l’anima.
L’uomo porse a Miguel una sedia e gli fece cenno di sedersi, mentre le gitana si allontanava lasciandoli soli.
-Io mi chiamo Diego Leòn Aleandro Diaz e sono il più anziano della carovana, chi sei giovane sacerdote?- Disse l’uomo osservando il giovane con i suoi occhi ferini.
Miguel deglutì e cercando in sé stesso la forza per sostenere quello sguardo, era una prova, se fosse riuscito a superarla forse avrebbe potuto restare con la carovana, almeno per un poco.
-Sono Miguel, Miguel Antonio De La Crux, figlio di Don Armando, … - il giovane raccontò tutta la sua storia, l’attacco al monastero, la fuga e la musica che lo aveva salvato.
Quando ebbe finito, il gitano rimase in silenzio per un tempo che a Miguel parve infinito, poi parlò: -Miguel, un nome antico… da quel che vedono i miei occhi Miguel, il tuo cuore è sincero, mia figlia aveva ragione, ma il tuo animo è inquieto, chi sei veramente Miguel?-
Un pesante silenzio si insinuò fra i due uomini.
La voce tremante del giovane sacerdote lo interruppe -Io… io… non lo so…- tutta la tensione accumulata dal momento dell’attacco investì il giovane con la forza di un fiume che rompe gli argini, non riuscì più a resistere e scoppiò a piangere.
Il capo gitano lo fece sfogare, restando in silenzio, con quel tatto tipicamente maschile, finché il giovane si riscosse riacquistando la dignità.
-Mi scusi- disse Miguel con un filo di voce.
Diego assunse un’espressione seria e guardando il sacerdote dritto negli occhi disse:
-Puoi restare con noi tutto il tempo che vorrai, ma finché lo farai dovrai obbedire alle mie regole, sono poche e semplici: rispetta il clan, aiuta il fratello e non tradire gli amici. Non mi interessa cosa fai nel tuo privato o cosa credi dentro di te, ma finché rimarrai con noi tu non sarai più un sacerdote, ma un gitano. Abbiamo già abbastanza nemici, non possiamo prendere anche i tuoi. Accetti le nostre regole?-
Miguel si fermò a riflettere un attimo e decise che quella poteva essere l’occasione che Dio gli aveva dato per capire chi era veramente, per trovare se stesso, le cose accadono sempre per un motivo anche se a volte l’uomo può non comprenderle.
-Le accetto- disse, alzando lo sguardo, finalmente sereno, verso quello del suo interlocutore e gli porse la mano come a suggellare il patto.
Il gitano si sputò sul palmo aperto e poi strinse la mano di Miguel.
I due uomini si guardarono negli occhi e per un attimo furono davvero fratelli, l’incanto si ruppe non appena le mani si sciolsero, dopo pochi intensi attimi, e i due si alzarono dirigendosi verso il falò, centro vitale della comunità.
-Questo è Miguel, da oggi farà parte della nostra Famiglia- disse Diego. Non chiese agli altri se erano d’accordo, lo comunicò loro, semplicemente, con la sicurezza di chi non è abituato ad essere contraddetto.
In tutto la comunità era composta da una ventina di individui, dieci donne, sei uomini e alcuni bambini, si avvicinarono a Miguel con fare festoso, per primi i bambini, curiosi come sempre, poi gli altri ognuno per dare il suo benvenuto al giovane, tutti tranne uno.
Il ragazzo che chiamavano Ramòn rimase in disparte, guardava di nascosto la scena fingendo indifferenza.
Ma Miguel circondato dal popolo festoso, felice di aver trovato una nuova casa, non se ne accorse.
Ad un certo punto una vecchia gitana disse: -Nessuno ha fame stasera?- , i bambini corsero verso la donna urlando -Io- -Io- e dopo di loro tutti presero posto attorno al fuoco e iniziarono a mangiare, come una famiglia.
Miguel pronunciò mentalmente una preghiera, com’era abituato a fare, ringraziò il signore per quel pasto e per averlo salvato, ringraziò per quella nuova famiglia e inevitabilmente si trovò a pensare all’altra famiglia che aveva tradito, ai suoi fratelli che forse non erano più, provò a pregare anche per loro, ma non riuscì a trovare dentro di sé le parole adatte. Iniziò a mangiare, meccanicamente, perso nei suoi cupi pensieri. Avrebbe mai trovato la pace?
Il giorno successivo la carovana si rimise in moto.
Miguel trascorse circa un mese con i gitani, adattandosi alle loro abitudini e al loro stile di vita, non gli dispiaceva viaggiare di villaggio in villaggio, né gli dispiaceva la compagnia, era come essere parte di una grande famiglia. Aveva l’incarico di accudire gli animali era una delle poche cose pratiche che sapeva fare e impiegava il resto del tempo ad insegnare a leggere e scrivere ai ragazzi; in questo modo poco per volta entrava a far parte della piccola comunità.
Cercava il più possibile di evitare la compagnia di Maria Helena, la bella gitana che lo aveva soccorso, poteva sembrare ingrato, ma la realtà era che la ragazza lo turbava più di quanto lui stesso volesse ammettere. Desiderava la sua compagnia eppure non voleva infrangere quei voti che aveva preso da così poco tempo e la presenza di lei troppo spesso gli faceva dimenticare chi era. La ragazza provò per i primi tempi a cercare la sua compagnia, poi, con la capacità di aspettare tutta gitana, decise che sarebbe venuto un tempo per tutto, anche per lei e quel giovane; così ricominciò la sua vita quotidiana, in paziente attesa che i tempi maturassero.
Qualcosa cambiò il 18 di Agosto, quando la carovana giunse a Barbastro, nel riconoscere la città dove aveva vissuto tanti anni Miguel trasalì, e se qualcuno lo avesse riconosciuto? Lorena, giù all’emporio, ove scendeva una volta al mese per fare provviste; Felipe, il maniscalco, ove portava a far ferrare i cavalli; Antonio, il calzolaio, ove prendevano i sandali tutti i frati del convento. Si guardò allo specchio e stentò egli stesso a riconoscersi, come potevano costoro riconoscere in quello zingaro abbronzato dalla barba incolta il giovane e pallido sacerdote che era stato?
Si fece coraggio e decise di scendere dal carrozzone.
Quel giorno c’era grande movimento a Barbastro, come in occasione della grande fiera di S. Fermino, quando tutti gli abitanti della campagna si recavano al grande mercato e poi all’arena per vedere i tori, la stessa atmosfera festosa: le famiglie, con i bambini saltellanti, le giovinette agghindate a festa, con gli sguardi ammiccanti sotto gli occhi attenti delle governanti, i giovani baldanzosi, orgogliosi sui loro destrieri o sulle nuove motociclette fiammanti.
Solo che non sera il giorno della festa, abolita in quella regione dal governo repubblicano, dove andava tutta la gente? Incuriosito Miguel si inoltrò nella folla festante, prestando attenzione a non incrociare lo sguardo di nessuno di quelli cha avrebbero potuto riconoscerlo, la prudenza non era mai troppa.
Trasportato dalla massa umana Miguel arrivò alla piazza centrale, qui vi era un enorme assembramento di soldati che tenevano la folla distante dalla murata della cattedrale di Santa Maria, i fucili spianati e le facce torve facevano intendere che si trattava di una festa ben strana, tuttavia Miguel non capì finché non vide arrivare un camion militare con un cassone aperto. Alla guida i due uomini più truci che il sacerdote avesse mai visto, due avanzi di galera liberati dalla follia del governo repubblicano, e nel retro quindici uomini, ammassati come animali, emaciati dalle troppe percosse ricevute, ma con uno sguardo sereno, come non ci si sarebbe mai aspettato da uomini nella loro condizione.
Miguel prese la sua borraccia colma d’acqua e si avvicinò a quei disgraziati; intanto la folla, inferocita ed eccitata, lanciava contro i prigionieri ogni genere di improperi, accompagnati da una selva di pietre e verdure marcie. Le urla della folla si facevano via via più potenti man mano che il carro si avvicinava al centro della piazza -A morte!- -A Morte tutti i Preti!- -Viva il popolo operaio!- -Distruggiamo i monaci ladri!- all’udire quelle parole Miguel sentì un brivido corrergli lungo la schiena, un terribile presentimento lo assalì, corse disperatamente verso il camion.
Appena fu abbastanza vicino il suo presentimento si rivelò esatto in tutta la sua terribile concretezza: i prigionieri erano i suoi fratelli claretiani. Un’infinita tristezza lo travolse come una marea in piena, osservò i volti sereni dei suoi fratelli e di nuovo si sentì un traditore, cercò Dio dentro di sé, cosa aveva fatto lui in quel mese in cui loro erano stati vessati e torturati? Cercò il conforto nella sua fede, ma vide solo buio.
Il camion si fermò, Miguel riuscì ad avvicinarsi ai suoi fratelli, voleva essere con loro, pensò di farsi arrestare per porre fine ai suoi tormenti, per essere finalmente libero, quando una voce familiare lo chiamò: -Miguel, sei tu!- Sul camion riconobbe Faustino Perez Garcia, -Sei vivo! Siamo stati tutti tanto in pena per te!-
Miguel restò senza parole, il suo amico stava per andare a morire e pensava a rallegrarsi perché lui era ancora vivo. Lo guardò negli occhi e non riuscì più a trattenere le lacrime: -Perdonami. Perdonami. Io vi ho abbandonato… vi ho traditi… dovevo essere qui con voi-
Faustino allungò una mano tra le sbarre della gabbia e alzò il viso di Miguel, lo guardò negli occhi e disse, sorridendo, sereno come Miguel non era mai stato in vita sua:
-Perché piangi fratello mio, oggi è un giorno di gioia. Oggi salirò al cielo e vedrò la nostra bellissima Madre e vivrò per sempre nella gloria di nostro Signore. Oggi è il giorno più bello della mia vita-.
-Ma…ma… io non posso vivere sapendoti… sapendovi morti- disse Miguel spostando il suo sguardo da uno all’altro di tutti i fratelli, in tutti loro vide la pace e la serenità degli uomini che hanno accettato il proprio destino e che se ne vanno in pace.
-Miguel non devi dubitare dei disegni dell’Altissimo, egli oggi ti ha mandato a noi con un compito ben preciso. Non a caso tu sei vivo e libero. Guarda ciò che accade oggi e raccontalo affinché il mondo non dimentichi cos’è avvenuto in Spagna nel 1936.- Estrasse un piccolo rotolo dalla tasca e lo porse all’amico. -Prendi questa è la nostra testimonianza, rendila pubblica, fa che gli uomini non dimentichino!-
Una delle guardie colpì Faustino con il calcio del fucile urlandogli -Stai zitto stupido! Nessuno può fare più niente per te! Tanto meno questo stupido zingaro!- per sottolineare maggiormente le sue parole sferrò un calcio a Miguel?"Morirai! Morirete tutti, da ladri quali siete!- detto questo, evidentemente soddisfatto iniziò a ridere. Miguel era accasciato a terra, stringeva forte con una mano il foglio che gli aveva dato Faustino, mentre con l’altra si teneva il ventre dolorante dove il soldato lo aveva colpito.
Alzò lo sguardo e i suoi occhi incrociarono quelli di Faustino che sorrise e gridò con tutto il fiato che aveva in gola: -Viva Cristo Re- e gli altri come un sol uomo risposero -VIVA CRISTO RE!!!- anche Miguel si trovò a sussurrare la stessa frase fra le lacrime.
Una mano, delicatamente, lo aiutò ad alzarsi, Miguel riconobbe Maria Helena, lei amorevolmente gli asciugò le lacrime e gli fece cenno con l’indice sulle labbra di non parlare. Si guardarono negli occhi per un eterno minuto poi distolsero lo sguardo, entrambi imbarazzati da quel lungo contatto.
Il camion arrestò la sua corsa al centro della piazza.
I militari con bruschi strattoni e insulti fecero scendere ad uno ad uno i quindici giovani missionari, Miguel li conosceva tutti, su ognuno di loro poteva vedere i segni delle sofferenze e del martirio, lividi, bruciature, contusioni, trasfiguravano i volti dei giovani, stranamente senza imbruttirli, ma aumentando la loro bellezza. Non si poteva non restare affascinati da quei giovani che avanzavano a testa alta verso il muro della cattedrale, consapevoli che quello sarebbe stato il loro ultimo giorno di vita, ma felici perché quello sarebbe stato anche il primo giorno della loro nuova vita al fianco del loro Dio.
La gente assiepata nella piazza, bramosa di vedere il sangue, inveiva contro i giovani sacerdoti, gridando: -A Morte!- -Ladri!- - Uccideteli!- mentre loro, guidati da Faustino avanzavano tranquilli perdonando e benedicendo quella folla che li aveva condannati.
Un rullo di tamburi tuonò nella piazza ammutolendo la folla.
I soldati con strattoni e colpi di bastone costrinsero i sacerdoti a disporsi lungo la murata laterale della cattedrale; una fila ordinata di tonache nere, immobili, i volti sereni, le mani giunte in preghiera. Di fronte a loro un’identica schiera di soldati, in ginocchio, gli sguardi fissi, i fucili spianati.
Il ritmo dei tamburi accelerò.
Un grido si levò dalla schiera dei sacerdoti, la voce di Faustino urlò con tutto il fiato che aveva -Viva Cristo Re!- e come un sol uomo tutti gli altri gli risposero -VIVA CRISTO RE!- Poi una raffica di fucili inchiodò i sacerdoti al muro.
Miguel trasalì.
I tamburi si spensero.
I corpi, sconvolti dai colpi, rimasero in piedi per cinque infiniti secondi, quasi non fosse successo nulla; poi crollarono lasciando sul muro centenario solo una tragica striscia di vermiglia.
Miguel non resistette più e fuggì dalla piazza; si fermò esausto in riva al fiume, alzò lo sguardo al cielo e urlò: -PERCHE’?-
Helena lo raggiunse, affannata per la corsa, lo tirò a sé e lo strinse al petto, come una madre stringe il suo bambino, Miguel non potè più trattenere le lacrime; pianse, disperatamente, per l’impotenza della sua esistenza, per la sua inutilità, per la sua vigliaccheria, pianse per i suoi compagni e per tutte le altre vittime di quella guerra scellerata che sembrava non aver fine.
La donna lasciò che si sfogasse, in silenzio, stringendolo e carezzandogli dolcemente il capo.
Quando l’uomo si riprese alzò lo sguardo e lo sollevò verso il viso di Helena, gli occhi verdi della ragazza lo fecero di nuovo sentire nudo, inadeguato, inutile. Distolse lo sguardo. Si ricordò della lettera dell’amico e della importante missione che gli aveva affidato.
Si alzò, senza guardare negli occhi la gitana le disse in un lieve sussurro: -Grazie-
Lei non rispose, alzò solo le spalle, poi si avviò verso al carovana.
Miguel rimase a riflettere ancora qualche minuto, cosa fare ora? Guardò le acque del fiume scorrere, come sarebbe stato facile abbandonarsi tra le loro dolci braccia e porre così fine a tutto. Morire… Dormire… più nulla… lui novello Amleto, come il giovane danese non poteva abbandonarsi al sonno eterno, non ancora.
Tornò al campo e nella solitudine del suo carrozzone lesse la lettera di Faustino; era indirizzata alla congregazione e raccontava la storia di quei 51 giovani sacerdoti, assassinati solo perché “portavano la sottana” e recatisi a morire con la gioia di Maria nel cuore, con la consapevolezza di chi sa che sta per iniziare una nuova vita, migliore.
Ricopiò la lettere in quattro copie e chiuse ciascuna di esse in una busta.
Lasciò una copia ai gitani, chiedendo loro di conservarla fino alla fine della guerra e di consegnarla al termine ad un priore di un monastero claretiano. Con sua grande sorpresa fu proprio Ramòn, lo scorbutico gitano che lo aveva ostacolato al suo arrivo, a giurare di consegnare quella lettera e difenderla con la vita, giurò col sangue e Miguel capì che l’avrebbe fatto.
Si accomiatò dai gitani e partì per la sua strada, a piedi, pellegrino sulla terra, ultimo fra gli ultimi, per compiere la sua missione.
Provava una grandissima tristezza nel partire, abbracciò Diego, che lo lasciò andare con un sorriso augurandogli buona fortuna, salutò tutti tranne Helena, era troppo doloroso separarsi da lei.
Aveva di nuovo abbandonato una famiglia.
Helena lo inseguì, non poteva lasciarlo andare senza averlo salutato, lo raggiunse; trafelata dalla lunga corsa era ancora più bella, con i capelli scomposti, il respiro un po’ affannato, le guance rosse dalla fatica. Lo guardò con uno sguardo di rimprovero ed esclamò: -Non vorrai andartene così, senza neanche salutarmi vero Miguel?-
-I.. Io?- Rispose il giovane abbassando lo sguardo.
La gitana si avvicinò, gli prese il volto e lo baciò sulle labbra, intensamente, lasciandolo quasi senza fiato; poi disse: -Questo è per te, per la nostra amicizia, per tutto quello che ci sarebbe potuto essere tra noi e che non ci sarà mai, affinché tu non mi dimentichi come io non dimenticherò mai te-.
Gli sorrise, dolcemente e se ne andò per sempre.
Miguel rimase a bocca aperta, osservò la figura di donna allontanarsi, non riuscì a dire una parola, non la trattenne anche se avrebbe voluto.
Non la rivide mai più.
Fu solo nella primavera successiva che finalmente raggiunse Burgos, sede della giunta militare dei nazionalisti, qui decise di andare a parlare con il vescovo.
Ormai stanco da tanta desolazione e dal peso che si era portato nel cuore fino a quel momento raccontò tutta la sua storia all’alto prelato e gli consegnò la lettera di Faustino.
Ne consegnò un’altra copia all’abate del monastero dove alloggiava e ne spedì una terza a Roma.
Fu trovato impiccato nella sua cella la mattina seguente, con ancora la lettera originale stretta tra le dita.
Sul tavolo solo un foglietto con queste poche parole: “Non sono degno di essere sacerdote, non posso più vivere con il peso del mio tradimento, Maria, madre di noi tutti, perdonami per quello che sono”.
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0 recensioni:
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- Brava...

- Bravo!
- Bello..!
- La penso come Bruna Alessia e non perché le parole non siano giuste. Forse risulterebbe più corto e snello, per intenderci, più adatto al sito. Cmq bello! Ciao Claudio
- grazie a tutti per i commenti, è pochissimo tempo che scrivo racconti e tutte le critiche mi sono utili per migliorarmi e crescere. Credo di avere uno stile un po' barocco... non ci sono "parole superflue" ogni parola è studiata ed è lì perchè mi piaceva lì, però ho capito benissimo ciò che dici.
- Scritto con cura, un po' melenso. L'assassinio, la persecuzione verso gli inermi è sempre mostruosa. Miseria contadina da una parte e alleanza dei vertici del Clero con il potere pre Repubblicano dall'altra potrebbero essere losfondo in cui collocare una tua prossima storia. Così tanto per completare il quadro.

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