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Con le unghie e con i denti (dedicato ad Elvira Sellerio)
Con le unghie e con i denti, o perlomeno con quelli che mi rimangono, me ne sto attaccata alla vita, tenacemente appesa al respiratore che, col suo sibilo monotono, sembra cantare in anticipo la marcia funebre. Fa le prove generali, perché forse vorrebbe liberarsi al più presto di me. Ma io non mi arrendo.
Voglio tornare a casa. Da quando sono arrivata qui ho intuito che, se le mie condizioni vanno di pari passo con l'ornamentazione dell'ambiente, ormai c'è ben poco da fare. Questo reparto sembra un albergo a quattro stelle: tinte pastello, fiori freschi, quadri e tappeti. Pulizia e quiete, in un'oasi di verde. Passi ovattati nel corridoio. Tendaggi eleganti, tivu e frigobar in camera.
Le giornate scorrono seguendo lo scandirsi della solita routine. Al mattino presto c'è il primo giro dei farmaci, che io, a volte, confondo con l'ultimo della notte, perché c'è ancora buio e non so se ho dormito poco o tanto. Segue la pulizia, la colazione, poi niente. Le ore sgocciolano lente, appiccicate alle gocce di umidità sul vetro che si dissolvono con l'intensità della luce in aumento. Passa una rondine. Che gentile! Passa proprio davanti alla mia finestra. È primavera. È appena passata Pasqua, anche se nessuno scommetteva sulla possibilità che ci sarei arrivata. Naturalmente non me lo avevano detto in faccia, ma lo avevo letto chiaro sui volti di chi mi danzava intorno.
Leggere è la mia professione, adesso in mancanza di meglio mi esercito a leggere gli sguardi. La processione degli amici si è fatta rada, filtrata da chi mi impone riposo, perché io possa continuare, per qualche giorno in più, a soffrire. È bello soffrire. Attenzione, non sono masochista. Solo, nelle mie condizioni, soffrire è l'unica modalità di rendersi veramente conto di esserci. La sofferenza è diventata l'essenza stessa della mia vita. In fondo tutti soffrono e si lamentano di qualcosa. Dunque la sofferenza è la vera essenza della vita di tutti. Si viene al mondo piangendo e il pianto imprime il marchio di destinazione: tutti destinati a soffrire, anche se non ci rassegniamo. Tutta la vita spesa a combattere per conquistare un angolo di felicità, nel quale tentare di avvolgerci, perché ci preservi dal soffrire. Invano.
Poi arriva il dolore, che è un male diverso. Ora soffro perché ho dolore, e temo le aggressioni del mio dolore. C'è un ultimo lembo di misericordia che mi preserva dal dolore, che è il peggiore dei mali, che devasta la mia capacità di stare in vita, riducendola a un cupo rantolo, e segue a una disperata richiesta di sollievo. E il sollievo arriva, pietoso, dopo l'abisso del dolore. All'improvviso non sento più il mio corpo, è solo un istante, l'effetto dura poco. Il dolore bussa di nuovo. Sordo, a dire che lui è sempre lì, stordito ma presente, che non mi faccia illusioni! E io resisto, ho deciso di resistere: con le unghie e con i denti, me ne sto attaccata tenacemente alla mia flebo.
La morfina mi ha impastato la lingua, quando arriva il medico di turno biascico le parole, perciò non riesco a chiedergli in tono percepibile quando mi manderà a casa. O finge di non capire. Al solito, la sua visita è breve: mi stringe la mano, affettuoso e paterno, anche se avrà poco più di metà dei miei anni. Sorride misurato, di routine. Il bianco del suo camice sparisce nel buco nero della porta. La porta è un varco buio che divora tutti i frammenti della mia vita. La mia vita è in pezzi. Essi, i pezzi, emergono dal dimenticatoio del passato e mi si materializzano ai piedi del letto, nomi e volti della trascorsa vita che la mia memoria non conserva più tanto bene. Vengono a trovarmi e si rimettono ordinatamente al loro posto, nel grande mosaico scomposto del ricordo. Poi spariscono da quella porta che li ingoia e, per me, muoiono. Inghiottiti dai viluppi di un'altra vita parallela, mentre qui la mia, col suo fluire inerte, ne conserva solo brandelli: testimonianze d'aver vissuto.
Secondo giro di farmaci, pranzo, poi niente: riposo. Sono stanca, vorrei andare a casa mia, a riposare davvero. Vorrei una parentesi, fra le mie cose di tutti i giorni che ho lasciato all'improvviso e troppo in fretta. Quando sono uscita, l'ultima volta, pensavo di ritornare presto, perciò ci sono tanti libri fuori posto, le carte sparpagliate sul comodino, le collane sparse nel primo cassetto del comò, tutta la biancheria sulla poltrona, in disordine. In cucina ci sono le camicie da stirare, e il frigo è da sbrinare, e i gelsomini sul balcone vorranno essere annaffiati, perché non piove più da tanto tempo. Il dolore riprende il sopravvento, soffoco. Mi aumentano l'ossigeno, non basta, questa volta soffoco davvero. Chiedo aiuto, con gli occhi fuori dalle orbite, arrivano due infermieri, si agitano intorno, armeggiano, iniettano. Tregua: ce l'ho fatta. Respiro. Il dolore, ricacciato, torna ad essere sordo. Poi niente.
Fa capolino dalla porta un ragazzo, non ricordo di averlo conosciuto. Infatti non lo conosco, deve essere un volontario che dedica una parte del suo tempo libero a far compagnia agli ammalati. Il mio amico, che mi assiste ininterrottamente da ieri sera, ha dormito male, sulla poltrona letto. Approfittando della presenza del ragazzo mi chiede se può allontanarsi, andrà a fare due passi, magari prende un caffè, fa un giro e torna. Farfuglio qualcosa, lui capisce che gli rispondo di fare pure con calma, tanto non penso di allontanarmi... oddio! Adesso sono pure spiritosa! Sorride, si volta, esce. Mi chiedo se resusciterà dal buco nero della porta. Lo rivedrò?
Il ragazzo è giovane, avrà vent'anni, alto e magro, sembra più pallido del camice che gli hanno imposto per circolare qui dentro. Si vede che è alle prime armi, ha lo sguardo smarrito, forse anche un po' impaurito, non sa da dove cominciare. Rompo io il ghiaccio e lo tolgo dall'imbarazzo, gli chiedo come è il tempo lì fuori. Sorprendentemente mi capisce subito, risponde che non mi perdo un gran che, sembra bello ma è ancora freddo e umido. Continuo a masticare altre parole che lui interpreta senza apparente difficoltà. Incoraggiata proseguo la conversazione di cortesia e gli chiedo di cosa si occupa nella vita. Mi risponde che è universitario, fa Lettere, la sua passione è scrivere e desiderava tanto conoscermi. Che delusione, anche qui, non mi lasciano in pace! Non ho la forza di esprimere il disappunto, in fondo sono abituata, da una vita subisco continui assalti opportunisti. Vivo barricata da anni, neanche fossi una star. Il male mi ha costretto ad abbassare la guardia. Chiudo gli occhi per pensare velocemente al modo di sbarazzarmi di lui, ma la sua voce continua, esile e imperterrita:
-Ho pensato che potrebbe farle piacere... se le leggessi qualcosa, perciò ho portato...
Non gli rispondo. Invece soffoco, levatemelo davanti! Soffoco! Schiaccio il pulsante d'emergenza, arrivano le infermiere, trambusto, un'iniezione, un'altra, mi aumentano l'ossigeno. Il ragazzo è sparito nel vortice. Meno male. Riposo. Arriva il prete. Che cosa vuole quest'altro da me? Quante volte devo pentirmi, ancora? Gli ho detto che non lo gradisco, ma lui è più cocciuto di me. Oggi però sono troppo stanca per ribattere, perciò vince lui. Sopporto ad occhi chiusi le sue giaculatorie smozzicate, i mormorii veloci che si concludono tutti scandendo amen, l'unica parola comprensibile. Mi viene da ridere pensando che la sua pronuncia è peggiore della mia, ma per fortuna il mio sbuffo di ilarità è scambiato per un singhiozzo. Meno male, la reputazione è salva. Torna il mio amico. Visita medica pomeridiana, Ultimo giro di farmaci, prelievo, medicazione, pulizia generale, cambio della flebo. Arriva la cena. Non ho fame. Vorrei tornare a casa. Niente più.
Quando riapro gli occhi c'è mia cognata. Il mio amico se ne è andato, domani lavora, è di turno. Mia cognata è un tipo all'antica, sta facendo una coperta all'uncinetto, penso con una punta di divertita cattiveria che potrei mortificarla dicendole che oggi non si usa più? Come sono diventata saccente! Ogni tanto getta uno sguardo annoiato allo schermo della tivu. Io seguo i notiziari con indifferente apatia: sono fatti degli altri che soffrono, perlopiù, di stupide vicende. Cosa sanno loro del mio dolore?
Ultima morfina e pensiero poetico: la mia finestra è un tappeto nero trapunto di stelle d'oro. Riposo. Sogno che mi stanno soffocando, aiuto, arriva l'infermiera, aumenta l'ossigeno, un'iniezione, poi niente.
Fuori è nuvolo. Di notte ho avuto tre crisi, ma ne ricordo una sola. Il medico di turno, durante la visita, mi ha comunicato che l'innesto della flebo si è infettato, al più presto dovrò subire un piccolo intervento per sostituire l'attacco. Niente di preoccupante. Se lo dice lui, meno male!
Hanno chiamato i miei parenti, per avvertirli che non ci vuole molto. Lo so perché se lo son detto fra di loro, mentre io fingevo di dormire. Qualcuno è scappato fuori, a piangere più comodamente. Qual'è la novità? Sarà la terza o la quarta volta che li avvisano, potrebbero anche rassegnarsi. Non hanno capito che tanto siamo tutti quanti condannati? Prima o poi. Il telegiornale ha parlato di un grave incidente alle porte di Bologna: quattro ragazzi morti, due in fin di vita. Fino a ieri nessuno li aveva avvisati che mancava poco. Sorpresa! Sono diventata cinica, lo so, ma è l'unica soddisfazione che ricavo dal sentir notizie: c'è una lunga processione di anime che mi ha preceduto, da quando mi hanno detto, per la prima volta, che non c'è più niente da fare. Ad alcuni, però, non l'hanno mica comunicato in anticipo. Chissà se hanno sofferto! Magari non se ne sono neanche accorti, o magari hanno lasciato a metà qualcosa. Invece per me c'è un angoscia sottile, che risiede nell'aspettare il momento finale, che mi attanaglia il cuore. Provo sollievo temporaneo solo quando sento la notizia di qualcuno che se ne è andato prima di me, senza preavviso. Allora mi dico che poteva capitare a chiunque, anche a me, un bell'incidente stradale a vent'anni e mi sarei tolta il pensiero, senza passare da questo purgatorio penoso. Perché la meta finale, in fondo, è uguale per tutti. Cambia solo il percorso.
Io ne ho percorsa parecchia di strada, affannandomi senza tregua. Forse, sbagliando la metà delle scelte. Forse, ma senza rimpianti. Forse, con alcuni rimorsi. Certamente ho tante cose da fare ancora. Se solo ne avessi il tempo, vorrei tornare a casa per fare un paio di telefonate di lavoro, perché stanotte ho avuto un'idea che vorrei realizzare. Strano che non ci abbia pensato prima. Forse il senso del vivere è tutto racchiuso nel fare. Facciamo cose che riempiono la vita di senso. Finché abbiamo un disegno da realizzare, una cosa da fare, un progetto da ultimare, non possiamo permetterci di mollare la presa.
Con le unghie e con i denti me ne sto tenacemente attaccata alla mia vita, piena di cose da fare. Arriva il dolore, ed è insopportabile. L'iniezione, poi niente.
Nel pomeriggio torna il ragazzo, imperterrito e tenace, anche lui come me? Venti anni. Se capitasse a lui un incidente me lo toglierei di torno. Come sono diventata cattiva! Per espiare la colpa del mio segreto desiderio gli concederò qualche minuto, in fondo non mi costa nulla. I suoi occhi si illuminano anche se il sorriso rimane stanco, quasi malinconico. La conosco bene io questa generazione di giovani perennemente depressi, che sprecano il loro tempo migliore a piangersi addosso. Ne ho incontrato tanti esemplari. Magari sono solo spaventati dal mondo che li respinge ottusamente e si chiedono se riusciranno a sopravviverci. Alcuni fanno i volontari solo per uscire dalla crisi esistenziale, per trovare egoisticamente il senso di una vita che non sanno mettere in piedi. Spesso sono solo capaci di commiserarsi e si lasciano sfuggire le occasioni giuste, per mancanza di grinta. Questo impudente, almeno, ci sta provando. Anche se con me, non caverà un ragno dal buco!
Comincia a leggermi un racconto surreale, non riesco a seguirlo bene, mi pare di capire che ai confini della sua più sfrenata fantasia ci siano delle bizzarre creature aliene, forse dei marziani, che intrattengono dialoghi filosofici con le rocce del nostro pianeta. Dopo un po' si ferma, mi dice che il primo capitolo finisce lì. Grazie a dio. Domani mi leggerà il secondo. Non mi chiede niente, anche se si capisce che ci terrebbe ad avere un mio giudizio, ma è tanto timido. Quando sta per sparire dalla porta mi sorprendo nel sentire la mia stessa voce smozzicargli flebilmente: - bello, interessante, davvero interessante. Il volto gli splende, sprizza gioia da ogni poro, mormora un grazie, a domani. Penso che, uscendo dalla mia camera, i suoi piedi non tocchino più per terra. Ma io sono diventata scema? Cosa mi è passato in mente, di fargli un complimento? Ora non me lo leverò più di dosso! Ben mi stia, così espierò il mio nuovo peccato: grandissima ipocrisia!
Negli ultimi giorni sono stata molto male. Sono arrivati perfino i miei figli, e se li hanno chiamati si vede che sono proprio peggiorata. Non posso più deglutire, mi hanno provvisto di una sonda per l'alimentazione, provo tanto dolore diffuso. Ho continui crampi. Le crisi respiratorie sono diventate più frequenti. Sono stanca, vorrei tanto andare a casa, a riposare. È tornato il ragazzo, si è reso conto della situazione e con molto tatto si è astenuto da leggermi il minacciato secondo capitolo. Mi ha fatto compagnia per un po', in rassegnato silenzio. Gli ho espresso profondo senso di gratitudine con gli occhi.
Ho superato il momento critico, l'ho capito da sola, perché i miei figli sono ripartiti. Lavorano fuori e non possono mettersi in ferie a tempo indeterminato. Sto migliorando: riesco perfino, di nuovo, a stare seduta sul letto. Anche se da diversi giorni non sento più le gambe. Il medico ha detto che è un difetto di circolazione, col tono di chi avrebbe dovuto, poi, concludere con un non si preoccupi, passerà, che rincuorasse il paziente. Tuttavia, benché io abbia teso l'orecchio, non gli ho sentito pronunciare alcun non si preoccupi, passerà.
Ci sono alcuni amici piuttosto anziani, come me, che si ostinano a volermi stare perennemente accanto, si alternano in una girandola di affetto che mi commuove. Anche loro hanno degli acciacchi e l'hospice, per quanto camuffato da resort, rimane sempre un reparto ospedaliero. Da alcuni giorni approfitto delle visite pomeridiane del ragazzo, per concedere delle brecce di libertà ai miei amici di turno. Lo scotto da pagare è di ascoltare le sue insulse letture, fingendo un minimo di gradimento. Quando diventa proprio insopportabile mi invento una piccola crisi, così lui tace per qualche minuto. Mi sta raccontando una storia proprio stramba, o forse sono io che non gli presto troppa attenzione e quindi non riesco a legare le parti. Penso che forse dovrei chiedergli di lasciarmi i suoi fogli, magari per tentare di rileggere i brani che non ho capito bene. In realtà la mia vista è sempre più appannata. Leggere è il lavoro che ho svolto durante tutta la mia vita, e adesso? Sembra il colmo, nemmeno i migliori occhiali riescono a supportarmi. Tuttavia, in uno slancio inconsueto di generosità penso che potrei provarci, almeno come intenzione. Quando glielo chiedo non sta più nella pelle dalla gioia. Dice che sono la sua prima lettrice autorevole e che nella sua vita non poteva desiderare di ricevere un regalo più grande. Mi promette che il giorno successivo mi farà avere una copia completa del romanzo, stampato a grossi caratteri, affinché io possa leggerlo agevolmente. Va via, davvero felice.
Durante la notte ho avuto una crisi più grave del solito. C'è stato del trambusto ma non ricordo quasi nulla, solo di aver sognato le strane creature nate dalla fantasia di quel ragazzo: si radunavano intorno al mio letto in una piccola e disciplinata folla, volevano conoscermi e parlarmi. Ma io non rispondevo. Non potevo rispondere, non avevo tempo da perdere, perché avevo tante altre cose importanti da fare. Esse allora cominciavano a dialogare con gli oggetti inanimati della mia stanza che via, via, prendevano vita. Anche la bombola dell'ossigeno prendeva vita e sibilava sempre più forte, assordante. Si affastellavano, in una girandola di voci confuse, la boccia della flebo, i quadri alle pareti, le poltrone, il tavolino. Ad un tratto il tendone di raso verdino mi cadeva sugli occhi, poi sul naso e sulla bocca. Io soffocavo e gridavo aiuto. Poi niente: guardavo in alto, sul soffitto volteggiava l'ombra lunga del ragazzo, con i suoi tanti fogli ordinati sottobraccio. Io non riuscivo a vederlo in volto, ma so che mi sorrideva felice e mi tendeva la mano. Quasi in saluto.
Oggi pomeriggio il ragazzo non è venuto. Lo aspettavo con ansia, perché il mio amico ha la pressione alta e gli avrebbe fatto bene andare un po' a casa a distendersi. Qui, nel divano accanto a me non si vuole coricare, dice che si spaventa di poter essere scambiato per un paziente e di ritrovarsi, da un momento all'altro, intubato! Insisto perché vada a casa comunque. Rimane. Pazienza. Ormai sono un peso, per tutti.
Si dice spesso che ci vuole più coraggio a vivere che a morire. Sono tutte balle. Piango in silenzio.
Il ragazzo se ne è andato stanotte. Non era un giovane volontario, ma un altro paziente del reparto. Adesso sua madre mi ha portato una busta gialla, voluminosa, uguale ad altre centomila almeno che avrò ricevuto e aperto nel corso della mia vita. Mi ha detto solo che il ragazzo, prima di addormentarsi, si è raccomandato tanto di farmela avere.
A morire ci vuole vero coraggio, a riconoscere e ammettere quando, con i fatti, il senso si è compiuto. Coraggio a lasciarsi andare, a scivolare via verso l'ignoto, a mollare la presa tenace e a non aggrapparsi più, con le unghie e con i denti, a questa vita. Quando essa non è più portatrice di senso. Quando, con i fatti, il senso si è compiuto, allora Cristo si è abbandonato alla volontà del Padre.
Se lo ha trovato lui, questo coraggio, allora, in fine, forse, potrò riuscire a trovarlo anch'io.
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