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SESSANTOTTO EURO
Senza di me la mia vita non ha senso. Non è il credo del "perfetto egoista" ma quello di un/una "sopravvivente". Provo a decontestualizzarmi, anche se ammetto che senza internet e l'aria condizionata sarei diverso/a. Mi svesto della mia identità sessuale, eppure rimango lo stesso uno/a "sporco/a borghese" con tutti i sensi di colpa che ne derivano verso chi sta peggio di me solo per una semplice casualità. Ho iniziato ad annotare in questi giorni episodi all'apparenza banali ma che sfuggivano alla mia logica. È il caso di F. T. (le iniziali sono inventate), la cui esistenza si è intersecata con la mia per una durata di circa dieci minuti. F. T. fa il vigile urbano, un mestiere come tanti altri, ma il suo sguardo porta con sé tutta l'angoscia del vivere nella sua peggiore espressione: la malvagità. Il punto d'incontro fra le nostre due vite è una strada come tante altre, in una mattina primaverile. Con la sua paletta mi fa segno di fermarmi, le nostre vite stanno per sfiorarsi. I nostri sguardi s'incontrano parlando di noi e nel suo intravedo l'odio di chi disprezza la vita.
F. T. , 45 anni, è sposato e ha due figli adolescenti. Odia il suono della sveglia che gli ricorda che sta per iniziare una giornata qualunque, soffocante presagio di una vita qualunque. "Alzatevi, ragazzi, dovete andare a scuola", sono le solite parole che risuonano ogni mattina
dall'altra stanza, pronunciate dalla solita voce femminile. F. T. guarda l'orologio e s'impone di alzarsi:
basterà compiere pochi passi per "subire" il primo contatto umano della giornata."Papà, mercoledì andiamo al luna park?" - stavolta è una voce maschile, non ancora matura, ad articolare questi suoni. Alla stessa età F. T. faceva capolino nel mondo con la sua voglia di scoprire, mostrarsi, farsi apprezzare, non come quegli "stupidi" e "superficiali" dei suoi compagni di scuola. "Domenica andiamo allo stadio" - oppure "Organizziamo una partita di calcetto"- erano le frasi che gli capitava di ascoltare più spesso. "Io non andrò allo stadio, né parteciperò alla partita di calcetto" - pensava F. T che non sopportava i suoi coetanei. Il suo mondo era quello dei "grandi", aveva voglia di crescere velocemente, ma anche lui aveva commesso lo stesso errore dei suoi compagni. È vero che rifiutava i valori degli adolescenti che lo circondavano, ma aveva accettato, senza alcun giudizio critico, quelli degli adulti: la carriera, il denaro, il potere, l'apparire.
Ed eccolo insieme ad altri suoi colleghi in quella mattina primaverile, impegnato in regolari servizi di controllo. "La sua auto non è in regola perché ha lo specchietto rotto, le costerà 68 euro" - percepisco queste parole che mi riprometto di non dimenticare, deglutisco il suo sguardo che ho necessità di assimilare anche se mi fa male. F. T. si allontana per redigere il verbale. Ho la netta percezione di ciò che mi fa paura di quell'uomo: mi terrorizza il suo sguardo perché mi racconta la storia dell'umanità e delle sue tragedie, le cause delle guerre e di tutti i mali che ci portiamo dietro dalla notte dei tempi, mi terrorizzano le sue parole perché mi parlano di una società dove il denaro è il valore supremo. F. T. non lo sa, ma io ho pianto per lui, per il suo piacere di umiliarmi e di infliggermi quella he secondo lui, per me, rappresentava una punizione,
per la sua schiavitù e per il suo rancore verso il mondo...
F. T. non sopporta il suono della sveglia ogni mattina alle 7. "Alzatevi, ragazzi, dovete andare a scuola" - sente la voce della moglie nella stanza vicina che esorta i suoi figli ad alzarsi per andare a scuola. F. T. si appresta a vivere il suo primo contatto umano. Decide quindi di darle una mano nell'ardua impresa di costringere i ragazzi ad alzarsi: utilizza prima la sua arte oratoria (per circa 2 minuti) poi passa alle maniere forti (buttandoli giù dal letto). "Buongiorno ragazzi, alzatevi! - dice con tono deciso - Dovete andare a scuola, lo dovete fare per voi stessi". Niente da fare, a questo punto è necessario passare alle maniere forti. Giù dal letto tutti e due, prima urla e strepiti e poi tutta la famiglia a ridere. F. T. ama ridere insieme ai suoi familiari, ai suoi colleghi, ai suoi amici, solo, ha imparato a ridere perché lo fa stare bene. Ha imparato a conoscersi, a volersi bene, ad accettare i suoi limiti, ad apprezzare quello che ha piuttosto che a desiderare quello che gli altri hanno. A
volte si ritrova a confrontarsi con quel silenzio che gli parla del nulla e dell'assenza di significato della condizione umana e si sente invaso da una profonda angoscia. Improvvisamente sente il clacson di un'auto fuori dalla finestra di casa sua e pensa a chi, come lui, condivide quella stessa condizione e poi alcune parole sussurrate..."Sto bene con te, Francesco", "Anch'io sto bene con te...".
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0 recensioni:
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- Sì, hai colpito in profondità. Molto brava
- molto bello, un viaggio introspettivo ben fatto. è contestualizzato in maniera strana (la storia dellaa multa) maa non è male per nulla
- scorcio di vita quotidiana, generosamente descritto con qualche riflessione introspettiva.
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