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Ciao, papà
<<Finché dentro il cuore,
l'Anima Ebraica anela
e verso l'oriente lontano,
un occhio guarda a Sion...>>
Questi versi carichi di amore religioso e di speranza, che fanno parte dell'inno ebraico, composti da Naftali Herz Imber, erano canticchiati dalla voce dolce, sottile e infantile di una bambina di sei anni. Era al centro della minuscola stanzetta in cui ci trovavamo, almeno in venti persone, a condividere altrettanti piccoli letti e spazi personali, se così possiamo chiamarli.
La bambina, che nonostante il viso magro e smunto dovuto alla mancanza di cibo adeguato e i biondi capelli lunghi che le arrivavano fino alla vita stretta, era graziosa e giocava con la sua bambolina di pezza, fattagli dal padre, che aveva usato piccole parti degli stracci che noi chiamavamo abiti.
Non sapevo che ora fosse data l'assenza di un qualunque strumento rude e grezzo per misurare il tempo. Potevo solo dedurlo dal fatto che il secondo pasto della giornata, la cena, ancora non era arrivato. Stavo in quel momento rannicchiato nell'angolo più lontano di quella stramaledetta porta di ferro, che ci teneva imprigionati in quella stanza. I miei camerati erano tuttalpiù vecchi e anziani, che si contorcevano nella loro agonia, e che passavano quasi tutto il loro tempo a dormire, poichè inutili per l'operosità del lager. Il padre della bambina, Leah era il nome di quella, stava seduto, sul letto, appoggiato al muro, guardandola giocare e sorridendo tristemente. La sua uniforme era tutta stracciata, stropicciata e sbrandellata alle maniche e sui gomiti. Il suo numero,"1588", si stava del tutto staccando dalla camicia azzurra rigata. Il suo corpo era quasi scheletrico, un ammasso d'ossa debole e incapace di stare in piedi, del resto uguale a noi, se non per lavorare diciassette ore di seguito.
I suoi occhi infossati sarebbero stati impossibili da attribuire ad una persona, se non vi fosse stato quello strato di pelle sottilissimo a testimoniare che quel teschio era vivo, e che una volta camminava sulla terra. Dalla mia postazione, un buio angolo oscuro tra le pareti di legno, potevo nascondermi parzialmente alla vista dei demòni che entravano da quella porta, trascinando con sè anime innocenti e docili, che non avevano nessuna delle colpe che gli erano state additate dal diavolo che in quel priodo governava la germania... ebbene, sì! Ho scritto la parola germania con la lettera minuscola, proprio per sottolineare il disonore e la colpa che lo stato aveva in quel periodo, e che avrà sempre, per mezzo di un uomo maledetto, che rovinò un intero popolo.
Definivo quell'angolo, un mio rifugio, una tana in cui nascondermi, per passare il tempo a drogarmi di pensieri felici e di ricordi di un tempo passato, di quando Avigail era ancora viva, e di quando il piccolo Noah giocava ancora per i prati e correva dietro le farfalle... mi drogavo di questi ricordi sbiaditi e infangati da quella bestia che era la cattiveria, e il disprezzo per un intero popolo. Quel giorno o quel momento in cui si avvicina la sera, dovrei dire, la porta sprangata si aprì, rivelando la figura di un soldato armata fino ai denti, che imbracciave quelle armi dalla canna lunga, capaci di freddare un uomo in pochi secondi. Entrò nella nostra stanzetta traballando, e blaterando parole in tedesco di cui non colsi il senso, accompagnate dalla classica risatina di ubriaco. Stava andando al centro della stanza, ballando come un ballerino scoordinato. Si fermò a tre passi dall'esatta ubicazione della bambina, scrutò con i suoi acquosi occhi azzuri quei reietti che eravamo, e non trovando nessuno spunto per i suoi, sicuramente orrendi e atroci, divertimenti girò i tacchi e si avviò verso la porta. Fece per uscire, quando la sua caviglia fu toccata appena da una manina, quella di Leah. Il padre, fino a quel momento rimasto immobile e incapace di muoversi, come tutti noi, trasalì e puntò le sue orbite ormai quasi vuote, sul piccolo corpicino della figlia, che, probabilmente per gioco, aveva compiuto quel gesto. Il soldato si arrestò, si voltò e scrutò con avidità assassina e pedofila, il volto della bambina. Gli si dipinse sul volto un sorrisetto che ancora oggi ricordo e che non scorderò mai, ma a un tratto, quando sembravano ormai ovvie le sue intenzioni si fermò, osservò con disprezzo quel faccino docile che avrebbe perso il suo colore roseo di lì a poco, e scagliò una calcio devastante sotto il mento della bambina, che con uno rumore di ossa delicate spezzate, si accasciò al suolo ancora con la bambolina in grembo. Allora il padre esplose in urlo nero, angoscioso, straziante, ammorbante e infinito, e alzandosi di scatto dal letto per recarsi verso il corpo esanime della piccola creatura, fu freddato da una raffica di colpi, che lo fecero accasciare proprio affianco al corpo della sua figliola. Dopo questo gesto, il soldato lasciò la stanza sbattendo la porta e serrandola di nuovo, e ci abbandonò a quella scena e a quel silenzio che l'anima non poteva sopportare. Restammo tutti in silenzio, e così fu per tutta la notte, senza muovere un muscolo, e senza dire nulla in memoria di quelle due anime, in viaggio verso un luogo a cui, ormai, non credevo più. Restai sveglio tutta la notte, pensando e ripensando al rumore della mitragliatrice ancora nelle mie orecchie, che non voleva andare via.
Come poteva d'altronde?
Prima che ci venissero a svegliare, anche se presumo che nessuno aveva dormito, riuscii solo a mormorare queste parole, con voce rauca e con le guance rigate da lacrime di sangue <<Ciao, papà>>.
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