racconti » Racconti gialli » Gioco al massacro
Gioco al massacro
Erano le quattro di un martedì mattina quando mi ritrovai a percorrere le strade di Torino.
Un timido sole se ne stava seminascosto dietro nuvole grigie piuttosto consistenti.
Tutt'intorno la città cominciava ad animarsi. Mi fermai al semaforo rosso e attesi.
A quel punto vidi venirmi in contro un uomo malmesso. Non gli avrei dato più di cinquant'anni, ma era capace che sotto quei vestiti e quella barba, si celasse qualcuno di ben più giovane.
Si avvicinò e mi fece segno verso il parabrezza.
Gli feci cenno di no con la mano.
Poi si chinò ad altezza del finestrino.
"Mattiniera?"
"Qualcuno deve pur esserlo."
"Pulisco il vetro?", mi domandò con perfetto accento italiano.
"Lascia stare, Mister."
Gli allungai un sacchetto, e quando lui ne ispezionò il contenuto, sorrise incredulo.
Mi ringraziò qualcosa come cinque volte prima che al semaforo scattasse il verde. Infine mi salutò, e ricambiai. Misi la prima e ripresi il viaggio.
A volte basta poco per far felici le persone.
Mi ricordai di quando ero piccola e delle volte che piangevo di nascosto al pensiero che quelle persone ai semafori fossero sole.
Le guardavo seduta sul sedile posteriore, e attraverso il vetro percepivo la solitudine e la disperazione che alcuni di loro conservavano nel più profondo degli occhi.
Dentro di me continuavo a promettermi che se da grande avessi avuto tanti soldi, avrei lasciato ad ognuna di quelle persone, una banconota da cento mila lire.
Ma il corso delle cose aveva voluto che diventassi un commissario di polizia, e lo stipendio che percepivo non mi permetteva di andare a distribuire bigliettoni in giro. Così quando potevo optavo per rifornirli di qualche genere alimentare.
Sorrisi al ricordo.
Mezz'ora dopo mi trovavo sul luogo dell'omicidio. Il mio partner mi aveva chiamata dicendomi che nei pressi di Porta Palazzo erano stati rinvenuti i cadaveri di due ragazzi.
Parcheggiai e raggiunsi a piedi il posto.
In lontananza vidi Lentini farmi segno di avvicinarmi.
Quando lo raggiunsi, mi tolsi gli occhiali da sole e fissai le cerate gialle in terra.
"Non c'è sole", disse.
Senza distogliere lo sguardo dai cadaveri, risposi: "È per non guardarti. Mi nuoce gravemente alla salute."
Lo fissai e sorrisi. Lui di rimando mi sorrise sarcastico. Poi divenne serio.
Mi misi sulle ginocchia e scostai le cerate da sopra i corpi.
Per un istante guardai altrove.
Sentii battere il cuore più veloce del solito, e in quel momento mi ricordai che non ci si abituava mai.
Non si poteva pensare di abituarsi a vedere un corpo senza vita e fare finta di nulla. Quelli che ci provavano finivano o dallo strizzacervelli o nella tomba.
In momenti come quelli, mi tornavano alla mente le parole del mio mentore quando diceva che bisognava imparare a prendere i morti per il verso giusto. Prenderli a cuore, ma senza farsi coinvolgere troppo.
Non era facile, questo no. Ma era necessario per sopravvivere.
"Ma che diavolo gli ha fatto?", chiesi tornado a fissarli.
"Inquietante, eh?", mi domandò di rimando Lentini.
Coprii nuovamente i corpi, o comunque quello che ne era rimasto e mi alzai in piedi.
"Li ha straziati. Gesù, li ha tagliati a metà", dissi.
Nessuno dei due parlò, fino a quando chiesi: "Si sa se erano coscienti?"
"Non lo sappiamo ancora. Ad ogni modo credo che abbiano comunque sofferto parecchio."
Ritornai con lo sguardo sui corpi, e percepii una pazzia più pericolosa del solito, in quei gesti atroci. Infine scossi il capo.
Insieme a Lentini tornai al commissariato e parcheggiai l'auto.
Una volta fuori, lui parlò.
"Dimmi una cosa. Tu ci usciresti con me?"
"Neanche morta."
"Grazie. Ho sempre sperato che qualcuna me lo dicesse."
Mi venne da ridere. "Scherzo, dai. Perché questa domanda, di che si tratta?"
"Marina."
"Marina Latelli della nostra squadra?"
"Lei."
"Marina Latelli della nostra squadra operativa?"
"Sempre lei."
"Ah no. Non con una collega."
"Perché no?"
Mi appoggiai alla portiera e proseguii: "Ma dai, sarebbe come vedere Hunter e McCall uscire insieme."
Lentini sorrise malizioso. "Alla fine però si scopre che Hunter era innamorato di McCall."
"Sì. Ma McCall, no."
Mi fece una smorfia, io risi e scossi il capo.
"Se ci tieni a lei, allora chiedile di uscire."
"Beh, tenere a lei... ora non esagerare."
Alzai le mani in segno di resa.
"Sesso", affermai.
"No, non è così."
"Sempre e solo sesso. Ma non sai pensare ad altro?"
Chiusi la portiera e continuai: "La prossima volta che decidi di uscire con qualcuna, ricordati di non dirmelo."
"Perché?"
"Perché sarei molto tentata a riferirle qual è il tuo unico scopo."
In quel momento qualcuno gridò. I nostri occhi si incrociarono.
Ci precipitammo al lato del parcheggio, e là trovammo i nostri colleghi intenti ad accerchiare qualcosa o qualcuno.
"Che sta succedendo?", chiesi facendomi strada fra la folla.
Il cerchio si aprì e ci mostrò il perché: un uomo livido se ne stava legato ad un palo, gli occhi gli erano stati strappati via.
Feci una smorfia e fissai Lentini, quindi riportai lo sguardo sul cadavere: qualcun altro era stato ucciso, e noi continuavamo a barcollare nel buio.
Una volta nell'ufficio di LoRusso, esordii: "Si diverte, e ce lo vuole far sapere."
"Se è stato capace di fare quello che ha fatto vicino ad un commissariato senza che nessuno se ne accorgesse, è davvero in gamba. Potrebbe fare qualsiasi cosa", aggiunse Lentini.
Il vicequestore scosse il capo. "Forse stiamo cercando un colpevole, ma è possibile che invece siano più killer."
"Io non penso", esordii.
"Perché?"
"Le morti avvengono quasi sempre in date vicine fra loro."
"Pensate potrebbe trattarsi di una faida?"
Nessuno rispose, e lui insistette.
"Una vendetta, un regolamento di conti?"
Lentini ed io continuammo a restare in silenzio. Il fatto era che nessuno sapeva cosa rispondere.
Continuavamo ad arrivare sulle scene del crimine a cose fatte, e far portare cadaveri all'obitorio in sacchi di plastica.
"Dobbiamo fare qualcosa", continuò LoRusso. "Qua la gente continua a morire."
Fu allora che la porta si spalancò, e un agente annunciò: "Pochi istanti fa abbiamo ricevuto una soffiata che sembrerebbe collegata al caso che state seguendo. Zona Regina Margherita. È meglio se vi recate sul posto."
Appena dieci minuti dopo, eravamo già là: si trattava di una cantina appartenente ad un vecchio stabile abbandonato.
Indossammo i giubbotti antiproiettile e ci avvicinammo impugnando le armi.
Attivai il puntatore laser sulla Glock 17, e il resto della squadra fece lo stesso. Lentini si posizionò a lato della porta.
A pochi centimetri di distanza dalla cantina che ci era stata segnalata sospetta, percepimmo uno strano odore, simile a quello del sangue.
A quel punto annunciai a chiunque si fosse trovato al di là della porta, che avremo fatto irruzione e che sarebbe stato meglio arrendersi.
Una volta buttata giù, la stanza sprigionò un forte odore nauseabondo. Uno di quegli odori che quando si ha addosso, difficilmente si lava via.
Tappandomi il naso col bavero della giacca, tastai il muro in cerca dell'interruttore, ma non scattò. Mi feci passare una torcia, e solo allora capimmo di cosa si trattava.
"Dio mio", pronunciò Lentini come sotto shock.
Rimasi a fissare quella piccola cantina colma di cadaveri ammassati, senza riuscire a muovermi.
La scena sembrava presa da uno di quei film sull'Olocausto. In tanti anni che lavoravo in polizia avevo continuato a chiedermi come la mente delle persone potesse arrivare a compiere determinate azioni.
Me l'ero chiesto la prima volta che avevo visto un cadavere e che avevo pianto fino ad addormentarmi, esausta. Me l'ero domandato la seconda, la terza, la quarta e poi la quinta, la sesta, la settima. Fino ad arrivare ad un punto in cui avevo capito che c'erano domande delle quali preferivo non conoscere le risposte.
"Abbiamo sbagliato tutto", dissi scuotendo il capo.
Lentini mi fissò. "Che stai dicendo?"
"Possiamo dare una risposta alla nostra domanda."
"Per quale motivo?"
A quel punto lo fissai e incrociai il suo sguardo. "Perché forse abbiamo a che fare con un misantropo."
Chiamammo rinforzi oltre i soliti massimali.
Il pazzo che aveva commesso quel massacro aveva assassinato dieci persone.
A primo impatto capimmo che le vittime erano state uccise in periodi diversi: alcuni erano in stato di decomposizione avanzata, altre morte da qualche giorno, e una appena qualche ora fa.
Pensai che alcuni di quei cadaveri potessero trattarsi di scomparse denunciate mesi fa, quando intere famiglie si erano recate in commissariato per appellarsi a noi affinché trovassimo i loro cari.
A quel punto mi raggiunse la voce del vicequestore LoRusso.
"È terribile."
Mi voltai, e mi misi a braccia conserte.
"È molto di più."
Feci una pausa. "È furbo. Ha coperto con la terra i cadaveri che aveva ucciso per primi. Ha placato l'odore per assicurarsi che nessuno sentisse il fetore prima che lui avesse finito il suo lavoro. Scommetto che è stato lui stesso a fare la soffiata."
"Cos'è che ti porta a pensare che sia un misantropo?"
"Il fatto che queste vittime non siano collegate fra loro."
"Ma i misantropi non tendono ad alienarsi dalla società?"
Feci spallucce: "In genere sì, in alcuni casi la misantropia elevata porta anche al suicidio, all'eremitismo, ma potrebbe anche darsi che in questo caso il nostro killer abbia deciso di comportarsi in modo diverso. Dopo tutto, non dimentichiamo che parliamo di qualcuno insano di mente. "
LoRusso annuì. "Se si tratta davvero di un misantropo, è pericoloso il doppio."
Non risposi, ma sapevo che aveva perfettamente ragione.
Scossi il capo. "Chiunque sia, come lo fermiamo?"
"Non lo so", disse fissando i corpi. "Però ci devi riuscire", riprese tornado a guardarmi.
Quando pronunciò quelle parole, per la prima volta dopo tanti anni che lo conoscevo, scorsi nei suoi occhi la paura.
Non dissi più nulla, e lui fece lo stesso. Mi diede una pacca sulla spalla e si allontanò.
Dopo aver parlato con la Scientifica, mi incamminai verso l'auto.
Fissai il cielo e mi sistemai meglio la giacca. Tirava un'aria gelida e il tempo prometteva nuovamente pioggia.
Arrivata all'auto, trovai Lentini ad aspettarmi.
"E tu che fai qua?", chiesi.
Lui mi fissò, ed esitò.
"Mi sono sentito male là dentro."
Per quanto fosse una situazione tragica, mi venne quasi da sorridere. "E questo ti crea problemi?"
"Certo", rispose con ovvietà.
"Guarda che non c'è niente di male ad avere paura. Credi che per me non sia stato così?"
"Non lo so."
"Beh, te lo dico io. È stato così. Siamo persone, prima di essere poliziotti", continuai scuotendo il capo. "Essere un poliziotto non significa non avere sentimenti."
Fissò la strada, quando disse: "Tu credi?"
Io annui con ovvietà.
Gli scappò un sorriso e annuì. A quel punto gli dissi che sarei andata dal medico legale per tentare di accelerare i tempi delle autopsie.
Infine salii in auto e partii.
Parcheggiai nel piazzale dedito al personale d'ufficio e m'incamminai.
Le strutture che trattano morti sono sempre poco piacevoli e sovraccaricate di leggende metropolitane, ma quella che ospitava la Scientifica di Torino era in puro stile film dell'orrore.
Aprii la porta d'ingresso e quell'odore fetido di disinfettante misto al sangue mi si insediò nelle narici.
Feci una smorfia e continuai a camminare. Svoltai a sinistra e raggiunsi l'ascensore che mi portò fino al piano sotterraneo.
Percorsi quel corridoio grigio per l'ennesima volta e per l'ennesima volta pensai che quel posto assomigliava tanto ad uno di quei vecchi istituti di igiene mentale.
Mi soffermai a fissare dei segni sulle pareti verdi e grigie quando percepii una presenza. Mi voltai e vidi un ragazzo sulla ventina, in fondo al corridoio.
Lo guardai, e notai una grossa ferita sulla fronte.
Lui mi fissava standosene in piedi con le braccia lungo i fianchi. Infine emise una risatina e corse via.
Presi ad inseguirlo, ma svoltato l'angolo non lo vidi più.
Feci per tornare indietro, quando ad un passo mi ritrovai il medico legale.
"Cazzo!", esclamai portandomi una mano al cuore.
Lui rimase impassibile. Una tacca più basso di me, bianco come un cencio, magro e freddo come il marmo.
"D'accordo che lavora con i cadaveri, dottore, ma potrebbe distinguersi da loro. Non credo che si offenderebbero", continuai io.
D'avenia si fece scivolare gli occhiali sul naso, e con un lievissimo sorriso ironico, disse: "Lei è sempre così spiritosa, commissario."
Lì per lì mi venne da ridere, però mi trattenni.
"Che stava cercando?", mi chiese.
Feci cenno verso il corridoio.
"Ho visto un ragazzo, ed era ferito."
"Come dice?"
"Un ragazzo: avrà avuto vent'anni. Indossava una specie di camice bianco, sembrava un paziente."
"Gli unici pazienti che può vedere qua sono quelli distesi su un lettino, e non possono andare a fare passeggiate."
"Non c'è dubbio, ma..."
"Credo che lei veda troppi film dell'orrore", m'interruppe.
"Ma quali film dell'orrore. Le assicuro che ho visto un ragazzo. Si è messo a ridere e poi si è messo a correre."
"Questo piano è riservato, e non c'è nessun membro del personale al di sotto dei trent'anni."
"Sì. E allora chi era?"
Si riposizionò gli occhiali, mi fissò, e sussurrando rispose: "Forse un fantasma."
Infine riprese a camminare.
"Mi segua", disse senza voltarsi.
Ricacciai uno sguardo verso il corridoio, ma di lui neanche più l'ombra.
Seguii D'Avenia nella stanza, e mentre lui si sistemò alla scrivania, io rimasi in piedi a braccia conserte.
"Sapete già quando potrete procedere ad eseguire le varie autopsie?"
Mi fissò come se avessi detto che la Terra è quadrata.
"I cadaveri che avete ritrovato sono ancora in viaggio, commissario."
"Sì, lo so."
"Credo che eseguiremo l'autopsia sui corpi, domani in giornata. Ed è già troppo presto."
"Troppo presto?"
"Non è colpa mia se i vostri cadaveri sono arrivati dopo. Anche per i morti vige la precedenza."
"Non discuto, ma qua è un tantino diverso."
"Sì, lo so. La teoria del misantropo. LoRusso me l'ha accennato per telefono."
"E quindi?"
"Quindi domani in giornata", ripeté senza dissuadersi.
Alzai gli occhi al cielo per trattenermi dal dire qualcosa che non avrei dovuto.
In quel momento bussò qualcuno che rimase sulla porta.
"Dottore, il cadavere è pronto. È in sala."
Io feci una smorfia.
"Arrivo subito", rispose D'Avenia
L'uomo sparì e il medico legale tornò a guardarmi. "Ora se non le dispiace, ho del lavoro da sbrigare."
"Il cadavere è pronto?", continuai muovendomi verso la porta. "Sembrava che stessa parlando di un piatto. È disgustoso."
Lui annuì senza badarci troppo, e rispose: "Le farò sapere qualcosa, commissario."
"Non può davvero accelerare un po' i tempi?"
"Assolutamente no."
"La prego. Quando avrà bisogno, mi ricordi di questo momento."
"Lo farò", disse con un sorrisetto ironico stampato in faccia.
Sorrisi ironica a mia volta e mi voltai. "Stronzo."
Infine mi allontanai.
D'Avenia si recò in sala, si lavò le mani e indossò dei guanti di lattice. Infine alzò il lenzuolo: un ragazzo sui vent'anni se ne stava sdraiato sulla lettiga, con una ferita alla testa, il sangue colato e raggrumato sulla fronte.
"Brutta ferita", commentò il medico legale.
"Già."
Allungò il braccio verso il collaboratore e mostrando il palmo della mano, disse: "Bisturi."
Uscii che il cielo si era fatto quasi nero. M'incamminai verso l'auto, e una volta al suo interno sentii vibrare il cellulare. Lo recuperai e fissai il display: era Lentini.
"Che c'è?"
"Ti ricordi la storia di Marina?"
"Come no."
"Le ho chiesto un appuntamento, e lei ha accettato."
Annuii.
"E io che cosa centro?", chiesi dando un'occhiata al tempaccio, attraverso il parabrezza.
"Ho bisogno di te. Mi serve una consulenza."
"Di che si tratta?"
"Te lo spiego a casa. Puoi venire da me per le otto?"
"No, non credo."
"Per favore, è estremamente importante."
Alzai gli occhi al cielo benché lui non potesse vedermi.
"Ci vediamo alle otto", dissi infine.
"Sono in debito con te."
Chiusi il cellulare, misi in moto l'auto, e partii diretta al commissariato.
Terminai di parlare del caso con LoRusso verso le sette e un quarto. Ripulii la scrivania dalle cartacce e riposi i volumi del caso in archivio.
Controllai l'orologio: erano le sette e mezza.
A quel punto mi diressi verso casa del mio partner.
Quando suonai il campanello, Lentini venne ad aprirmi. "Sei in anticipo."
Annuii. "Nella speranza che possa andarmene via prima."
Mi sorrise sarcastico, ed io ricambiai. Poi si spostò in camera ed io mi fermai in salotto, in attesa di capire.
Da là, gli urlai: "Allora, cos'è questa storia della consulenza?"
Lentini dalla camera da letto, di rimando chiese. "Puoi venire un attimo di qua?"
Mi alzai dal divano e mi diressi in camera.
Rimasi sulla soglia quando lo trovai davanti allo specchio.
"Allora, come sto?", mi chiese facendo un giro su se stesso.
Lì per lì mi venne da sorridere.
Indossava un jeans e una camicia bianca con giacca di pelle sopra.
Annuii. "Carino."
"Solo?" domandò deluso e lasciando cadere le spalle in posa.
"E tu mi hai chiesto di venire qua per suggerirti cosa indossare per quando dovrai uscire con Marina?"
"Precisamente."
"Ma tu sei pazzo, io ho da fare. Mettiti un paio di jeans e una maglia, starai benissimo."
Feci per andarmene, ma lui mi pregò di restare.
"Aspettami qua. Farò in un lampo", mi disse.
Entrai nella stanza e mi misi seduta sul letto.
Un'ora dopo eravamo ancora là.
"Te ne sarai provati dieci, e stavi bene con tutti", dissi esausta.
"No, non hai detto che stavo bene. Hai detto che ero carino."
"Smentisco. Eri un fico da paura."
"Ora è tardi per smentire."
Alzai gli occhi al cielo e mi feci cadere all'indietro sul piumone.
"Non disperarti. Ho ancora bisogno del tuo parere."
Senza muovermi da quella posizione, chiesi. "La sfilata quanti abiti ha intenzione di proporre, ancora?"
"Non ha un numero preciso."
Sbuffai, recuperai una rivista da sopra al comodino e mi rimisi seduta.
Lentini si diresse in bagno per cambiarsi ed io attesi.
Dopo poco, sbucò solo con la testa e rimase sulla porta.
"Non vale dire che sono uno schianto solo per andartene via prima."
"Sarò sincera come l'oracolo."
Avanzò rivelando il nuovo look, e per l'ennesima volta domandò: Che dici? Con questo sto bene?"
Alzai la testa da quello che stavo leggendo, e lo squadrai dall'alto in basso.
"Stai scherzando."
"Perché?"
"Perché vestito così sembri uno dei 'Cugini di Campagna'. Dove hai preso questi pantaloni?"
"Potresti smetterla di essere sempre così esplicita?"
"No. L'oracolo non conosce le mezze misure. E poi sei tu quello che vuole sincerità."
Lentini tornò nuovamente in bagno con un'aria offesa.
Io risi, ripresi a sfogliare la rivista e gli urlai: "Dammi retta, il primo che ti sei provato era il migliore."
"Il tuo tono diceva il contrario."
"Forse non sei stato attento agli altri toni. Ti assicuro che quello era il migliore."
Lentini disse nuovamente qualcosa, ma un rumore mi distolse dall'ascoltarlo.
Dopo pochi istanti, tornò in camera.
"Allora, hai capito?", mi chiese.
"Vuoi stare zitto?"
Tesi l'orecchio. Poi mi voltai verso di lui.
"Ho sentito un rumore", sussurrai.
"Sarà il temporale fuori."
"No, non è il temporale."
"Tu pensi che possa essere il nostro killer?"
"Non lo so."
"Chiamo LoRusso?"
Ero indecisa. Poteva non essere niente, ma poteva anche essere qualcosa di molto pericoloso.
Se il killer era stato tanto abile da farcela sotto agli occhi al commissariato, figurarsi cosa avrebbe potuto fare con noi due soli in casa.
Annuii. "Sì, chiamalo e digli di mandare una volante."
Lui fece per muoversi, ma lo afferrai per un polso e sapendo di dargli fastidio, scherzai: "Prima di venire in perlustrazione però cambiati i pantaloni."
Lui si guardò e scrollò il capo.
Dopo aver effettuato la chiamata al vicequestore, recuperammo le armi d'ordinanza e ci muovemmo ad ispezionare la casa.
Una volta arrivati in cucina, qualcuno parlò.
"Adesso tocca ai poliziotti."
Ci voltammo di scatto con le armi tese. Un uomo sulla quarantina se ne stava in piedi intento a tenerci sotto tiro con un fucile a doppia canna.
Rise quando ci ordinò di abbassare le armi e farle scivolare lentamente verso di lui.
Diedi un'occhiata veloce a Lentini ed annuii appena.
"Come vuoi."
"Sì, anche perché non credo che abbiate molto scelta."
Una volta fatto, tornammo in piedi con le mani alzate in segno di resa.
"Avvicinatevi tra di voi", ci ordinò.
Mentre ubbidivamo, chiesi: "Visto come stanno le cose, potresti almeno dirci chi sei?"
L'uomo rise nuovamente, e ogni volta che lo faceva sembrava divertirsi un mondo.
"Mi dispiace, Fermi. Ma devo avvisarti che con me non funziona."
"Che cosa?"
"Il dialogo. Farmi pentire delle mie azioni e cercare di salvarmi dai miei peccati. Insomma: tutto quell'universo di cazzate che v'inventate voi poliziotti per raggiungere un accordo col killer di turno, con me è fiato sprecato."
Lo lasciai continuare. Sapevo che aveva qualcos'altro da dire.
"La negoziazione è qualcosa all'infuori dei miei vocaboli, signori. Il mio scopo è uno solo."
"Quale?", domandai dopo pochi istanti.
"Giocare."
Lentini s'intromise.
"Non sei un po' grande per i giochi?"
"Non per quelli che faccio io, ispettore. Glielo assicuro."
Mi intromisi.
"Che cosa ti abbiamo fatto?"
"Fatto?", continuò quasi offeso e facendo spallucce. "Voi non mi avete fatto nulla."
A quel punto ricordai l'ipotesi della misantropia.
Nella speranza che la volante chiamata in soccorso arrivasse da un momento all'altro, presi tempo chiedendogli: "E allora perché?"
Sogghignò e rispose: "Odio puro. Una mattina mi sono ritrovato ad odiare fortemente ogni tipo di essere umano, e a non sopportarne neanche la vicinanza."
"Non sei un vero misantropo", esordii.
"Come prego?"
"Ti saresti allontanato dal mondo intero. Ti saresti anche suicidato se fossi un vero misantropo."
"Le consiglio vivamente di ripensarci. Ho fatto di meglio, commissario. Io ho inventato un gioco."
Annuii disgustata. "Un gioco?"
"Niente di più. Un bel gioco al massacro. Dopo che lo fai un po' di volte non ti sembra poi così difficile."
Rimasi a fissarlo.
"Che c'è?", riprese. "Sorpresa che non sia uno dei tuoi killer del cazzo al quale fare un discorsetto per impedirmi di uccidervi come cani?"
"No", feci una pausa sapendo che rischiavo a parlare così. "Anche perché non lo potresti capire."
Lui rise divertito.
Lanciai un'occhiata a Lentini che mi fulminò con lo sguardo. Poi ritornai sul killer.
"Non hai neanche idea di quanto godrò quando ti avrò fatta a pezzi."
Sorrise e mi si avvicinò.
"Ho perso anche troppo tempo", esordì. "Ora vi spiego cosa facciamo."
Successe d'un tratto, all'improvviso.
Si voltò verso Lentini e fece fuoco.
Ora o mai più. A quel punto ne approfittai e mi ci scagliai contro, facendogli così volare il fucile lontano della sua portata.
Mi afferrò per il collo e mi portò spalle al muro. Io mi liberai della presa e gli sganciai un diretto in pieno viso e un calcio allo stomaco che lo fece piegare.
Erano in tanti a dirmi che gli anfibi addosso ad una donna erano antiestetici, ma quando dovevi tirare calci, cazzo se facevano male.
Il suo corpo barcollò, ma non cadde a terra.
A quel punto le sirene della polizia si fecero sentire.
L'uomo voltò lo sguardo verso la finestra. Quindi tornò a fissarmi, e afferrandomi nuovamente per le braccia, mi guardò.
"Ritornerò", disse.
Poi si mise a correre verso l'uscita. Recuperai la mia arma e lo inseguii fuori.
Mi voltai in ogni direzione, ma era come se si fosse dileguato. Vidi la volante avvicinarsi, le andai in contro e ordinai agli agenti di chiamare un'ambulanza. Poi tornai dentro alla ricerca di Lentini.
Intento a premersi una mano sulla spalla, vidi il mio partner seduto spalle al muro.
Mi inginocchiai e gli controllai la ferita.
"Andrà bene. Non è niente di grave."
"Tu stai bene?"
Annuii.
Poi Lentini parlò.
"Meno male che abbiamo avvertito LoRusso. Quello ci avrebbe ammazzati tutti e due."
Esitai.
Infine dissi: "Ritornerà, prima o poi. E cercherà di terminare il suo gioco."
"Come lo sai?"
A quel punto lo fissai.
"Perché è stato lui a dirmelo."
1234567891011
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
1 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- È un racconto poliziesco pieno di sangue e di morti ammazzati dove il quotidiano di una coppia di difensori dell'ordine si snoda lungo una pista lastricata di morti ammazzati che l'ennesimo serial killer ha tracciato per loro. Questo quotidiano, magari a volte un po noioso, l'Autrice lo addolcisce con pennellate di bontà dal lei della coppia, che è anche il Capo. Con improbabili pulsioni affettive i due componenti della squadra investigativa si cercano senza avere il coraggio di fare insieme "cose vastase". Si capisce che il rispetto per la divisa è più importante del sesso o di un sbirluccichio d'amore.
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0