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Suora 1793
Mia figlia mi guardò sbigottita, poi: "Non voglio andare in convento". Allora, risoluto: "Non
ho chiesto il tuo parere". Per nulla intimorita, lei ha aggiunto: "Una monaca perde il nome, il corpo e i propri cari". A quelle parole, dissi: "Le tue considerazioni mi deludono, Giovanna".
Pulendomi la bocca, seguitai: "Mi deludono perché credevo di darti una grande gioia. Pensavo di allietarti dandoti la notizia che ti ho affidando il compito di rappresentare la nostra famiglia nell'esercito dei servitori di Dio". In seguito, vedendola aprire la bocca, stroncai ogni suo tentativo di risposta: "Comunque, le nuove entrano a novembre" e dicendo: "risparmiaci i tuoi pianti", mi alzai da tavola.
Intanto che andavo alla porta, scorgendola asciugarsi le lacrime con la manica del vestito, aggiunsi: "Io voglio il bene dei miei figli. Dunque, abbi fiducia in me!"
Quando entrai nel parlatorio, lei era già lì. Dopo una breve esitazione, la udii spezzare l'imbarazzato silenzio con: "Padre mio, carezzatemi". Sforzandomi di nascondere l'inquietudine, mi avvicinai e infilando le dita nei fori della grata le ho sfiorato la guancia. Appena l'ho toccata, Giovanna ha chiuso gli occhi. Anch'io li ho serrati, ma per tenere a bada il groppo alla gola e in quell'attimo l'ho rivista nel giorno in cui ha preso i voti: una ragazzina di quattordici anni, una macchia bianca in mezzo alle altre novizie ravvolte in un saio bianco. Era impossibile identificare le giovinette, per il motivo che nella processione le fanciulle si muovevano a piedi nudi e tenendo il capo, già rasato, chino.
Nella vasta chiesa del convento, Giovanna procedeva assorta ma allorché mi fu di fianco, con un rapido movimento alzò la testa voltandola verso di me. Mi cercò con lo sguardo e sorrise. Così mi parve, dato che non riuscii a vedere bene il suo viso: me lo impedì il fumo che l'incenso diffondeva ardendo nei bracieri d'argento. Però le note dell'organo principiarono a conficcarsi dentro di me come stiletti e da quel momento è nato il mio dubbio. Un dubbio che mi sono portato appresso per sedici anni, infatti non passava giorno che non ripensassi alla sua espressione e che mi chiedessi: "Mi avrà perdonato o sarà ancora infuriata con me che l'ho sradicata da casa, dai suoi affetti?"
Il caldo soffocante, mi riportò al presente. Pareva un forno, quel parlatorio. Mi agitavo, ero fradicio di sudore benché fossi con la leggera camicia di mussola (la marsina e il gilet li avevo tolti prima, in carrozza). Al contrario la mia monaca, adesso suor Serafina, cinta dal soggolo e infagottata nel pesante abito nero, delicata si asciugava il sudore dal volto con un fazzolettino. Nonostante la discrezione, la sua faccia color cenere mi fece capire quanto soffrisse. Ciò accrebbe la mia smania e la mia inquietudine divenne penosa. Notandomi molto oppresso, Giovanna: "Padre caro, siete bianco come la vostra barba. Non siete più il guerriero invincibile, che ricordavo, e alla vostra età con questo sole è un'audacia insensata fare tanta strada per venire fin qui. Avete un'aria talmente affaticata! Sedetevi sulla panca".
Mentre prendevo uno sgabello per sistemarmi di fronte a lei: desideravo assaporare ciascuna delle sillabe che sarebbero uscite dalla sua bocca, il tono pacato della sua voce mi ha riportato l'immagine della Giovanna bonaria che viveva con noi. La mia mente è tornata a quei giorni lontani e ho rivisto la ragazzina paffuta, col viso da luna piena che mite giocava coi fratelli; che si dimostra la più festosa delle mie figlie.
Giovanna ha conservato quella bontà: per i nostri compleanni ci ha sempre mandato sciarpe, guanti, calze, berretti da notte fatti ai ferri o ricamati da lei e in quel momento mi ha afferrato il desiderio che quella voce serena mi parlasse della morte, della resurrezione, del risveglio accanto a Dio. Bramavo parlare con suor Serafina del peccato, dell'anima. Lei sa. Lei studia e legge libri che io ignoro. Invece Giovanna: "Ormai tutta la famiglia sarà in campagna, nella fresca villa che ci accoglieva ogni estate, quando lasciavamo il palazzotto dell'infuocata città". Continuando: "E cosa fanno i figli grandi di mio fratello Antonio e quelli dell'altro fratello; e dov'è il mio nipote Federico; e mio fratello Giacomo come ha chiamato il suo ultimo nato; e la mamma litiga ancora con le domestiche?
Sbagliavo a credere che la mia saggia suora avesse intenzione di parlare col vecchio padre della salvezza eterna. Giovanna, da quando ha preso l'abito non ha più lasciato il monastero, per cui aspirava a conoscere le notizie minuscole della nostra vita.
Sentendo la campana che chiamava per la preghiera del vespro, suor Serafina rivolgendomi un gaio sorriso: "Devo proprio andare, anche se mi dispiace accomiatarmi da voi. Però spero di rivedervi presto, padre diletto".
Alzandomi dallo scanno, mi è sfuggito un lamento. È proprio vero, a settantacinque anni certe leggerezze sono gesti stolti: le mie ossa sono doloranti. Per fortuna nessuno si è accorto del mio gemito nel chiassoso vocio dei saluti dei parenti che si congedavano da quell'incontro privo di intimità.
Porgendo alla mia monaca il libro che avevo nella sacca, ho mormorato: "Auguri per i tuoi trent'anni, Giovanna".
Lei dopo una veloce occhiata al libro, stringendoselo al petto: "Grazie per il libro di salmi ma soprattutto grazie, grazie padre amato, per essere venuto da me".
Osservandola scomparire al di là della porta, lo sconforto mi ha afferrato pensando mia figlia non vedrà ma più altro che la cella coi muri bianchi, il chiostro, il refettorio, le compagne: gli stessi volti giorno dopo giorno finché la morte non ne farà sparire qualcuna.
Che cosa l'aspetta? Una vita senza eventi imprevedibili, senza sorprese: l'estate che con le sue arsure porta via il respiro e trasforma la tunica in un guscio infuocato. La pioggia che cade nelle corte giornate d'autunno in cui il buio arriva sempre prima, finché la luce della candela rende la lettura faticosa e gli occhi cominciano a bruciare. In seguito le dita che il freddo congela e fa diventare nere quando nel cuore delle notti invernali va a mattutino a lodare il Signore nella chiesa gelida. Poi l'esultanza davanti al tepore primaverile e al sole che ritorna per scaldare e illuminare il piccolo mondo dell'abbazia.
In quell'istante mi sono domandato: Cosa avrei fatto io se fossi stato rinchiuso nella gabbia di un convento? Io che ho sempre avuto bisogno del movimento, del rumore intorno a me.
Tuttavia pur non essendo mai stato calmo e assennato, uscendo avevo gli occhi colmi di lacrime perché mi sono reso conto che ognuno di noi conosce la reclusione, dato che tutti siamo prigionieri di un abito, di un ruolo o di quattro mura. Inoltre le mie guance erano solcate da gocce di pianto perché il dubbio che mi ha tormentato in questi anni, si è rivelato falso: ha perseguitato solo me. Ora sono certo, suor Serafina è sempre stata felice.
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