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Si fa quel che si può (seconda parte)
Allegria! Felicità! Gioia! Perché rovinarsi la vita?
Al mattino, tutti gli spiacevoli ricordi della notte precedente si erano dissolti, lasciando la mente fresca e riposata.
Mary si affacciò dalla finestra per guardare il solito ma meraviglioso paesaggio delle Highlands scozzesi. Stava arrivando l'autunno, la sua stagione preferita. Tutto si tingeva di quell'arancio autunnale. Anche l'aria; anche la sua anima.
Adorava, la sera, distendersi sul divano con addosso la coperta della sua vita, davanti al caminetto. Lì tutti, persino i suoi piccoli fratelli, Paul, Frederick e Vincent (sì, era l'unica femmina), diventavano dolci, e gentili, anche se non lo erano.
In autunno, la pioggia non la deprimeva. Di solito.
Perché non sapeva, quella mattina, che di lì a poco sarebbe tornata nella più misera disperazione, e che ci sarebbe stato un alternarsi confusionale di gioia e infelicità per giorni e giorni, fino ad un evento inaspettato. Ma procediamo con ordine.
Dopo pranzo, si era messa nel salottino vicino al salone per fare qualcosa. Qualcosa di importante. Sebbene non le dispiacesse leggere quei libri un po' stupidi che trovava nel palazzo e disegnare i tipici paesaggi scozzesi, provava ribrezzo al pensiero che potesse fare solo ciò nella vita. Oltre a sposarsi, e avere tanti belli (o brutti) bambini, ovvio.
E così si era rifugiata lì, immobile sulla poltrona, in cerca di un'ispirazione su cosa fare. Stava per venire, la sentiva, tendeva le orecchie alla ricerca di un segno... ma facendo questo sentì solo rumori fastidiosi: la nonna che russava, Paul e Frederick che litigavano, le domestiche che sparecchiavano la tavola facendo confusione con l'argenteria, qualcuno che camminava pesantemente.
Non le piacevano quei rumori. Le provocavano irritazione. E non finivano mai. L'ispirazione, se mai ci fosse stata, era svanita. Poi Vincent, che aveva quasi la sua età, entrò nella stanza. Non era propriamente antipatico, ma in quel momento quasi lo detestò. La guardava perplesso.
"Che hai?" borbottò lei.
"Niente. Che hai tu?"
"Niente..."
Vincent se ne andò.
"Chiudi la porta!" disse lei stancamente.
Lui la lasciò socchiusa, il che la fece imbestialire. Pianse di nuovo.
Non aveva reali motivi per piangere, sebbene si sforzasse di trovarli.
Pianse per tutto il giorno. Non ininterrottamente, ovvio. Però lacrimava per ogni sciocchezza. Si sentiva una fallita.
Per la prima volta, le nuvole lacrimanti là fuori rispecchiavano ciò che accadeva sulla sua faccia. Era in sintonia con loro. E quindi, le raggiunse. Vale a dire che uscì fuori.
L'aria era frizzante e nebbiosa. In qualche modo, incitava all'azione. Ma lei non sapeva cosa fare, e quindi dopo qualche istante ritornò dentro.
Un'occasione mancata? Oh, le succedeva spesso. Forse era veramente una fallita. E "cogli l'attimo", forse, erano solo tre belle parole.
Quella sera, si ubriacò di nuovo. E anche la sera dopo. E quella dopo ancora.
Non si rendeva conto di quello che succedeva attorno a lei, né ci prestava attenzione. Era però abbastanza consapevole di ciò che le stava succedendo: era diventata quello che si dice adolescente. In un giorno. Così, tutto d'un tratto. Prima era pur sempre lei, eppure non era lei: era più allegra, tranquilla, senza problemi. Ora tutto era caos, e stava male.
I parenti però sembravano non accorgersene, e questo la infastidiva assai. Non era possibile che riuscisse a nascondere tutto: nemmeno l'attore più bravo ce l'avrebbe fatta. Erano loro, che non coglievano.
In certi momenti avrebbe voluto andare da loro e piangere, ma poi si rendeva conto che non era il caso.
Un giorno, si finse malata. E infatti lo era, solo che nell'animo.
Si chiese da dove fosse cominciato tutto. Forse il tavolo decadente al tramonto era stato un avvertimento. Già, forse. Un avvertimento del suo declino. Cercò di reprimere il pensiero, precipitandosi a dormire.
Eppure, vennero giorni più felici.
Una mattina si svegliò e fu come se tutta la freschezza del mondo si fosse riunita in lei.
Prima, tutte le sue attenzioni erano rivolte verso sé stessa e i suoi sbalzi d'umore, ma ora captava un po' anche quello che succedeva al di fuori di lei: notizie confuse, di patti non rispettati, e di odi fra famiglie.
Non le importava molto, comunque; quella mattina aveva un solo pensiero fisso: uscire. E uscì. Aveva sempre voluto farlo, ma non l'aveva mai fatto: si sentiva costantemente in trappola, non solo fra quelle mura, ma anche fra i suoi pensieri giudiziosi. Eppure, dopo la tempesta di lacrime, come era svanito il dolore, erano svaniti anche quei pensieri. E così, in un molle pomeriggio ozioso, mentre tutti erano impegnati in qualche stupida attività, Mary si trovava da sola in uno dei tanti salottini a riposare, e le venne l'idea di uscire, e rompere tutta quella calma soffocante.
E così fece, davvero.
Uscì da una porta secondaria, indisturbata e silenziosa, e prese a vagare per il paesino accanto al castello, in compiaciuta solitudine.
Paesino che poteva sembrare ridente e pieno di vita, ma era tutta un'illusione, ora se ne rendeva conto.
Tutti quei contadini, quelle venditrici di fiori, quelle pastorelle, sembrava adorassero i loro lavori e la loro vita, ma invece amavano l'idea di amare la loro vita. Tutti sorridevano, tutti salutavano tutti, e preparavano tutte quelle feste di paese, e regalavano sciocchezze ai bambini di passaggio, e passavano tutte quelle ore a chiacchierare di argomenti di nessuna importanza con i vicini di casa.
Ma tutte queste attività erano solo modi per riempirsi la mente di stupidaggini, e non rendersi conto di quanto la loro vita fosse in realtà vuota, e priva di nuove vere esperienze.
Mary si stupì di pensare in quel modo, perché di solito era un po' più gentile, e quando pensava male di qualcuno, si trattava di una sola persona, come ad esempio uno dei suoi fratelli, o comunque di poche persone. Accusare un intero villaggio di essere persone vuote era una grande responsabilità, eppure sentiva che tutto ciò che aveva pensato era esattamente vero.
O forse No.
Stava pensando male di tutto, mentre andava verso le pendici del paesino: delle porte, delle finestrelle, dei sassi, dei tetti, dello scricchiolio dei piedi sulla strada. Solo del cielo non avrebbe mai potuto pensar male.
Poi però si rese conto che forse, dopotutto, pensar male di ogni cosa è uguale a pensar bene, perché di fatto una cosa è, non è buona o cattiva, bella o brutta, è e basta.
O forse no, una cosa è davvero bella... ma chi può dirlo? Chi mai può esserne certo? Nessuno.
In quel momento si fermò. Quanto era stupida! È ovvio che ognuno può avere la propria opinione i propri gusti le proprie convinzioni, e non ce ne sono di giuste o sbagliate.
Sì, ma allora?
Una cosa è bella perché mi piace... ma perché la giudico con la mia idea di bellezza, e un altro può demolirmi sbraitando e sostenendo che no, non è una cosa bella. Eppure, se giudico una cosa bella e tutto la pensano così, non si può mai sapere se tutti abbiano toro, e se magari questa cosa sia, in realtà, orribile. Quale è la realtà, allora?
Non si può essere sicuri di niente.
E Mary ebbe disgusto di sé stessa e dei suoi pensieri. Sentiva come se qualcuno fosse entrato nella sua mente e li avesse annotati tutti, sghignazzando, e urlando a mezzo mondo che si stava annoiando a morte.
E, di colpo, tutto diventò blu.
Bianco e nero, anzi. C'è differenza.
Sì, il bianco ed il nero. Tutto perdeva il proprio colore, e acquisiva la sua vera realtà. Era deliziata. Non c'erano più pensieri, soltanto ammirazione per ciò che stava vedendo: strade deserte ed intricate che non portavano da nessuna parte.
Vagò e vagò, poi si fermo dinanzi all'ennesima casetta e pose la mano su uno dei mattoni screpolati. Era caldo.
E poi tornò al castello, mentre quella atmosfera lentamente svaniva. Si precipitò saltellando nel salottino da cui era partita, si tuffò sul divanetto e si addormentò, inebriata da quella straordinaria esperienza cromatica.
Si svegliò d'improvviso e vide davanti ai suoi occhi l'uomo dei suoi sogni. Solo che era suo fratello.
"Mary, è ora di cena" disse piano.
"Um..."
Lei si alzò, goffa, e lo seguì attraverso gli innumerevoli corridoietti dalle tende bianche.
"Perchè ti eri messa a dormire?" disse Jerome, voltandosi un attimo.
"Um, non lo so. Non si può dormire, in questa dimora?"
"Si può, si può."
Arrivarono in sala da pranzo, dove il resto della famiglia la stava aspettando.
Mangiò di tutto, senza rendersene conto.
Percepiva i discorsi degli altri, ma si rifiutava di ascoltarli. Continuava a fissare fissamente la scriminatura dei neri capelli di Jerome. Fece però ben attenzione a posare gli occhi qualche centimetro sopra i suoi, così i loro sguardi non si sarebbero incrociati.
"Mary? Che hai?" fece la madre.
Sobbalzò. "Oh! Niente. È tutto a posto."
"Ah, io non ti capisco. Sei proprio come tuo padre." sospirò, guardando il marito. Ma Lord Fudgericks sembrò non accorgersene. Non aveva aperto bocca per tutta la serata.
"Charles!" strillò lei.
Lui sobbalzò. "Cosa? Oh, non è niente." e ritornò nel silenzio.
Mary storse la bocca. Era sorpresa, ma del resto era suo padre. Qualche somiglianza doveva pur esserci.
"Come va con il nuovo allenatore di equitazione, Paul?"
E via con discorsi del genere, tutti stupidi ed inutili. Mai una volta che si dicesse qualcosa di interessante. In mezz'ora, parlarono di domestici, di pulizia, di contese, della crisi economica, del re, degli scandali a corte e del valore della tranquillità. Quando arrivarono a parlare dell'importanza del matrimonio, Mary decise che avevano proprio oltrepassato il limite, e così fece un finto starnuto, e disse gentilmente:
"Sono stanca. Potrei ritirarmi?"
Suo padre era un morto vivente, sua madre era troppo impegnata ad ingurgitare arrosto, e così nessuno rispose.
Jerome però alzò poi lo sguardo dal suo piatto, sorrise e accennò di sì.
Lei abbandonò l'allegra famigliola e si ritirò nei suoi appartamenti.
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