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Il quadro
Una volta il penitenziario di B. era considerato sicuro: il massimo della sicurezza, dato che fin dall’epoca della sua costruzione nessun “ospite” era mai uscito di propria volontà, senza i timbri e le firme regolamentari.
Chi entrava a B. e sentiva rinchiudere alle proprie spalle il grande portone in ferro restava per qualche attimo in ombra, chiuso com’era, quell’angolo di cortile a nord, tra l’alto muro dell’edificio carcerario vero e proprio, la palazzina degli uffici amministrativi e la lunga muraglia di cinta esterna.
L’assenza di luce era dunque il benvenuto che ogni detenuto riceveva non appena varcata la soglia dell’istituto di pena e chi vi avesse prestato attenzione (ma erano ben pochi, quelli) vi avrebbe potuto riconoscere facilmente la metafora della propria nuova condizione.
Anche M. era uno degli assegnati al luogo; non ultimo tra gli arrivati, ma neppure tra i “veterani”, la sua destinazione alla comunità penitenziaria datava però ormai un consistente numero di anni: quanti bastavano a trasformare un essere riottoso e ribelle in persona diversa, marcata da una pacata rassegnazione.
M. sapeva che a quel suo settimo anno di carcere ne sarebbero seguiti altri: quanti sarebbero stati non avrebbe potuto quantificare, poiché il loro termine non dipendeva da alcuna volontà umana, anni la cui durata indefinita e infinita segnava lo sguardo di tutti coloro ai quali era stata assegnata la massima punizione.
Ora era di nuovo mattina: M. riprendeva a poco a poco la coscienza del proprio essere, mentre un dolore sordo lo stringeva all’interno. Ormai, dopo tutto il tempo trascorso oltre le sbarre, questo modo di risvegliarsi era diventato un’abitudine; sapeva così con certezza che una volta aperti gli occhi lo sgomento avrebbe lasciato il posto ad un senso di quiete profonda: la quiete delle consuetudine e delle non scelta, la quiete della non speranza.
Eppure M. continuava a considerare con stupore la capacità di adattamento che l’essere umano dimostra sempre nelle situazioni più estreme: ci si abitua alla condizione di non libertà regolata da ritmi di vita ripetuti e monotoni, giorno dopo giorno, all’infinito.
Che valeva disperarsi o imprecare?
Che senso aveva, ora, ripensare al passato, se nel passato (quando viveva libero e infelice) stava racchiuso l’attimo di follia che l’aveva rinchiuso in quella cella?
Il senso dell’esistenza M. era riuscito a ricrearla lì, in quel luogo innaturale, fondandolo sulle abitudini che erano le sue uniche certezze: con esse gli era permesso di vivere in un presente che annullava ogni altro tempo.
Non più passato né futuro: solo le ventiquattro ore di un presente immutabile.
Lo stato delle cose si era mantenuto, così intatto, fino al giorno in cui, nella biblioteca dell’istituto di pena, aveva incontrato il libro che gli aveva parlato con passione di Munch e di Ensor, di Van Gogh e di Gauguin…
Un libro d’arte tra le sue mani! Un libro da guardare e leggere, da sfogliare e toccare: con gli occhi, con il cervello in fiamme, poiché la soluzione (che non sapeva, prima, esistere) stava lì, tra le sue mani.
E poi, a seguire, la richiesta alla Direzione e l’attesa di una risposta che non si era fatta aspettare troppo e che aveva portato sul suo tavolo i pennelli e i tubetti di colore e, soprattutto, “loro”: le tele candide, bianche come i muri calcinati delle case greche viste in un documentario alla televisione, case in riva al mare, case sognate in notti di sogni lievi.
La sua vita era allora cambiata; non più lo scorrere delle ore a segnare il giorno, ma quegli unici, brevi momenti a dare il senso a tutto: al mattino apriva gli occhi, in attesa di sedersi davanti al quadro che si componeva giorno dopo giorno; alla sera li richiudeva sull’ultima immagina dipinta, portata con sé nella notte, a tenergli compagnia.
Era iniziato per M. il periodo più bello della sua vita, vissuto in uno stato costante di esaltazione derivato dall’ossessione frenetica del dipingere e dall’azione terapeutica che sentiva di ricavare dal suo agire.
Via via che i giorni passavano, il paesaggio sulla tela si componeva con sempre maggior precisione, grazie alle pennellate minuziose e calligrafiche: ai muri candidi delle semplici e geometriche case raggruppate sul mare si era aggiunto il minuscolo faro che, dall’alto del promontorio, dominava la baia, dipinta quest’ultima, in un azzurro così intenso da ricordare il lapislazzulo di mille miniature. E poi le barche, inermi gusci di noce sospesi tra i due infiniti del mare e del cielo, e la grande nave mercantile che all’orizzonte pareva segnare il limite massimo tra la realtà raggiungibile con occhi umani e il fantasma del nulla che seguiva.
Su quella imbarcazione M. aveva dipinto idealmente anche tutto l’equipaggio, immaginando nel suo ventre di ferro l’andirivieni degli addetti alle macchine e, sottocoperta, il comandante intento a consultare carte nautiche; lassù, su uno dei ponti, stava invece l’ufficiale in seconda con un binocolo rivolto proprio a scrutare lui, M.
Naturalmente nulla di tutto questo traspariva dall’immagine sulla tela, così come invisibili restavano i pescatori delle minuscole barche, i bambini e le figure femminili a popolare le ripide viuzze del borgo marinaro e le stanze al di là delle finestrelle spalancate alla luce.
Una vita immensa scorreva in quella tela, una vita libera, apparentemente tranquilla e felice: una vita vera.
Di quella vita respirava ora anche M., sempre più estraniato nella sua cella, distratto agli elogi di tutti coloro che avevano modo di osservare il dipinto, ormai prossimo ad essere terminato.
L’ultima pennellata venne data a sera.
Gli attrezzi ripuliti e asciutti apparivano riposti con ordine, così come i tubetti di colore, le pezze di stoffa, il diluente.
M., seduto davanti al grande quadro sorretto dal cavalletto, fissava immobile l’azzurro che dominava la sua creazione: avrebbe voluto perdersi in esso, confondere ogni propria parte di corpo con tutti quei tocchi di blu, avrebbe desiderato respirare di quell’aria azzurra, così azzurra e libera.
Avrebbe voluto.
Quando il mattino successivo, nella concitazione dei momenti di emergenza, scattò l’allarme per la scomparsa di M., nessuno ebbe più il tempo di prestare attenzione alla tela dipinta, dove una minuscola e sottile figura sedeva a fianco del faro, sul promontorio, incantata ad osservare l’azzurro del mare e, immobile al di sopra di tutto, l’azzurro del cielo.
Al momento dello sgombero della cella, poi, il quadro venne riposto nel magazzino, in attesa di una sistemazione migliore.
Una volta il penitenziario di B. era considerato sicuro.
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0 recensioni:
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- Solo il finale vale quattro stelline. Davvero piacevole...
- Un buon racconto, concordo che è interessante la metafora del potere evasivo dell'arte. L'idea della fuga nel quadro sarà magari scontata e infatti l'ho usata anch'io di recente (ma prima di leggere questo racconto) per una storia di altro genere. Ma nella lettaratura, almeno quella non fantascentifica, conta non quello che si dice ma come lo si dice e tu il concetto l'ho hai espresso bene. Saluti.
- C'è un che di già sentito nell'idea del quadro che "assorbe" delle persone reali e la trasformazione del penitente in un animo sensibile, supposto vero l'attimo di follia che l'ha condotto all'ergastolo, mi pare un po' buonista. Tuttavia è indubbiamente interessante la metafora del potere evasivo dell'arte, a volte unica ancora di salvataggio per vite bruciate.
ayumi il 29/10/2007 17:51
carina!! è davvero bella come storia e poi... io adoro particolarmente disegnare e so che è una sensazione stupenda vedere ciò che fino a poco prima era nella tua mente, riversato sulla tela!! è davero entrare in un altro mondo ed estraniarsi da tutto!! l'unico problema che io molto spesso disegno a scuola e non ascolto più le spiegazioni!!!!^_^ ma fa niente!!
comunque davvero complimenti... mi è piaciuta molto la descrizione del quadro!!! bravo!!
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