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Una Pulce Nell'orecchio
"Un perdente non può farci niente."
"Dici?"
"Fidati di un cretino."
[Cit.]
Avevo appena posato la penna, mi ferì rileggere ciò che avevo scritto: mi accorgevo sempre più che essa viaggiava da sola su quei fogli, e che le verità che mi nascondevo (e mi nascondo tutt'ora) agli occhi uscivano liberamente, mentre dentro di me restavano solo le balle che inventavo per spiegarle.
Ero a metà circa di un romanzo che non volevo scrivere, ma che nel contempo mi esauriva per l'infinità di piccoli dettagli che intendevano esaltare me stesso e le mie idee, per mettere una firma in una storia dove non c'entravo assolutamente nulla. Per la precisione, mi era stato commissionato uno scritto che parlasse di una storia d'amore vissuta durante la prima guerra mondiale in Italia, una specie di romanzo rosa tragico e colmo di consapevolezza e esaustiva ricerca e mine antiuomo e morti. Cosa non si fa per sopravvivere.
Ovviamente la scadenza non era stata rispettata, e al secondo rinvio mi era stato dato l'ultimatum: se non l'avessi finito entro due mesi avrei dovuto pagare io, e una penale molto cara.
Lo continuavo quindi, per forza, a malavoglia intrecciavo questioni amorose e epiche battaglie sanguinose con decanti alle bellezze femminili e inni bellici. Ma la mia attenzione e tutto il mio tempo libero lo passavo a scrivere e correggere poesie, le mie poesie, l'incarnazione di ciò che non sapevo spiegare e di tutto ciò che sapevo, le poesie che un giorno avrei pubblicato e che mi avrebbero fatto diventare uno scrittore conosciuto, se non apprezzato. In effetti, non è che facessi molto altro durante la giornata se non star chino su dei fogli.
Ero all'ennesima poesia dedicata ad una donna, quel giorno, senza romanticismo e sentimentalismo alcuno, tuttavia. Anche perché una donna non l'avevo, ma la bramavo. Ero all'ennesima poesia sulla solitudine in effetti, e le parole che fluivano da dentro il mio corpo probabilmente non sarebbero mai neanche state lette dal soggetto in questione. Eh, ma è difficile provare sentimento per la donna di qualcun altro, specie se quel qualcun altro è il tuo vicino di casa, un macho man statuario, che non deve chiedere nulla a nessuno. E se impazzisci quando la senti rimbombare dentro tutte le pareti, di notte, o quando il marito torna a casa rigando la porta con le chiavi. In tal caso si sentono anche rumori di mobili per terra e urla isteriche, solitamente. Ma poi tutto finisce e ricominciamo i rimbombi alle pareti. Se tu invece sei un poveraccio che fa fatica a pagare l'affitto, e a salutarla senza balbettare nascondendosi dietro a una barba non fatta e dei vestiti malmessi, quando la vedi. Accetti la tua condizione e ti illudi che rigettando tutto ciò che non ti va della vita, magari poi descrivendo ad altri le immagini che ti portano ad affermarlo, nei tuoi scritti, e magari anche ricevendo dei consensi, potrai ottenere un briciolo di rispetto per te stesso. Ma non funziona così, e dietro quel sorriso stanco puoi solo continuare a mentire.
Mah.. mi accesi una sigaretta, guardando il cielo nuvoloso appena al di là della finestra: le nubi di fumo si sollevarono presto dalle mie labbra a riempire anche la stanza di tristezza e grigiore, un idillio di giornata, proprio. Ed era appena iniziata, erano solo le 9 del mattino e lei era appena partita in macchina, tra l'altro, l'avevo sentita scendere. Ripensandoci ora, mi viene da ridere riguardo alle mie fievoli speranze e ai miei sogni, diventati ossessioni. Ero un uomo sporco che viveva da solo con un grosso cane, che usciva di casa svogliato e annoiato, che con andatura goffa e curva cercava di adattarsi ad uno stile di vita che non gli apparteneva. Mentre lei, lei era una donna di quelle che potrebbero avere tutto e a cui invece ha tarpato le ali l'ingiusto mondo che la circonda da quando era bambina: splendida, ma non si rendeva conto di quanto questa sua arma fosse potente. Splendida per questo. Lei, Aura, una bellezza divina, perfetta. Io, Maurizio, grigio di città, mi accendo un'altra sigaretta.
Solo la settimana prima avevo avuto un altro attacco dei miei, colpa di quello stupido corpo.. Le malattie genetiche sono dei brutti animali, appiattite dietro l'erba ad aspettare il momento in cui saltare fuori di nuovo, graffiarti e tornare ad acquattarsi.
Ma ora, a monte di tutto ciò, che ancora fumerei se potessi, ditemi.. doveva fregarmene qualcosa? Se Kafka aveva pubblicato 3 romanzi e io stavo scrivendo il terzo e una raccolta insieme, significava che già qualcosa avevo ottenuto. Ero soddisfatto, di buttare via ogni sorriso ma perseguendo un obiettivo costruttivo, almeno. C'è gente che si spegne e basta, io almeno spegnendo sigarette scrivevo. Non mi sentivo sicuramente malato a livello fisico, questo intendo, la mia mente era troppo occupata a pensare cose molto più interessanti e morbose.
Quel giorno decisi di andare a fare una passeggiata, tanto per sgranchirmi le gambe e approfittare un poco della pioggerellina stanca che bagnava le vie già da parecchi giorni. Inutilmente cercai di convincere Maya, il mio grosso cane femmina, ad uscire, ma lui, stanco forse più di me, seduto bello piantato a terra mi fece intendere che proprio non c'era da discuterne.
Presi il giubbotto e la porta, e uscì colpito dai soffi del vento che mi entravano nelle ossa attraverso spiragli nella tela sgualcita. Passeggiai fino a raggiungere il bar, il bar anzi, per il corso ce n'erano mille altri ma l'obbiettivo mio era ben chiaro. Bar Chucky, la bettola più classica alla quale possiate pensare. Oramai di rito, ordinai il mio caffè al barista appena mi prestò la sua preziosa attenzione, impegnata ad annuire ai soliti avventori del suo bar, o suoi amici come considerarli? Mi sedetti, e fingendo di leggere il giornale li osservai come facevo abitualmente. L'ispirazione (quando uno la cerca) vien fuori scrutando il mondo, dai propri occhi o da quelli di qualcun altro, e quale luogo migliore di uno dove non esista alcun manierismo, dove non ci siano ostacoli e tabù nelle parole di chi lo frequenta?
Mi alzavo per andare in bagno ricordo, quando improvvisamente inciampandomi nelle mie stesse scarpe finii disteso per terra. Scrosci di risa di quei poveretti, e un barista che gentilmente mi chiedeva se mi ero fatto male, continuando a asciugare il bicchiere e guardandomi appena. Tutto nella normalità, ma se avessi avuto 60 chili di cane dietro magari avrebbero riso di meno, pensai. Tutto nella norma anche nel bagno, dove le ragnatele e le macchie sul pavimento erano statiche da mesi. Mi piacevano anche i bagni pubblici, devo ammetterlo, mi piaceva sporcare dove nessuno avrebbe notato la differenza rispetto a prima. Tirata l'acqua, salutai e uscì.
Ma quella notte non la scorderò. Solo ora, che il mio cervello forse si è rimpicciolito, credo che il dolore che ricordo sia solo una minima parte rispetto a quello che provavo durante quel momento e gli altri precedenti.
Ero a letto già da un paio d'ore, stavo scrutando la televisione rigirandomi nelle due piazze che odoravano di me e di me soltanto, oh e leggermente di cane, quando un piccolo colpo di tosse mi formò un crampo in gola, di quelli che capitano anche quando si sbadiglia troppo fortemente. Mi sedetti piano e cercai di inghiottire per buttarlo giù, ma fu passato quel piccolo blocco che mi accorsi che le mie boccate si facevano sempre più affannose, e man mano annaspavo come se stessi annegando. Il dolore ai polmoni era insopportabile, combattevo contro lo svenimento mentre milioni da lame infuocate cercavano di farsi strada attraverso i miei alveoli.
Con le lacrime agli occhi tastai in fretta in basso alla ricerca dello sportello del frigo portatile che tenevo sotto il letto, dove riponevo le siringhe già pronte all'uso. Senza neanche pensarci o guardare mi infilai l'ago nel braccio, premendo in fretta lo stantuffo che mi facesse rifluire la vita in corpo.
Nell'arco dei minuti che seguirono, in cui i movimenti del mio torace si fecero più regolari e il sangue iniziò di nuovo a scorrere alle braccia, seduto tenevo gli occhi chiusi aspettando, ancora una volta, di tornare ad avere piena coscienza di me.
Dalla parete alla mia sinistra si udivano ritmicamente ansimi, un bussare ripetuto, se mi fossi concentrato sulle voci probabilmente sarei impazzito, già la immaginavo sussurrare il mio nome.
Ad occhi chiusi, in silenzio, solo la televisione ad un volume così basso da chiedermi cosa ci facesse accesa prima, se la stavo guardando davvero. E poi ancora il suono della città che vive, della gente che muore, il ronzio dei lampioni. Ma, sopra ogni cosa imperversava ancora il suo respiro. Sotto ogni cosa, invece, l'ultima ruota del carro, lo strumento che nell'orchestra è a volume così basso e fa così poche note, poca scena, da essere messo dietro il tizio con la tuba, di modo che non venga notato. Il mio.
Maledizione pensavo, dovevo ancora andare a farmi visitare. Odiavo le perdite di tempo, odiavo avere tempo e doverlo usare, ora non devo più definire il tempo e non ne ho più bisogno, ma era dura una volta dover usufruire di tutte e 24 le ore della giornata.
Odiavo avere impegni, odiavo gli orologi.
Maya iniziò ad abbaiare, e quella nota ancora aggiunta al mio già grottesco e ossessivo coro mi diede la spinta per cercare di risollevarmi e, poco per volta, tornare a respirare normalmente.
Rimproveratola e poi subito fattola salire accanto a me, presi a carezzargli la testa mollemente. Ero tornato nel mondo dei vivi, di nuovo, e come tutti loro mi stavo perdendo nel tempo cercando di attribuirgli un significato, trovandomi invece con la mente completamente sgombra ad osservare la grossa testa pelosa appoggiata alla mia gamba che già russava beatamente.
Senza pensieri e parole definite, le sensazioni di morte che mi toccavano quando stavo male presero a torturarmi ancora. Ero davvero ad un passo dalla tomba ogni volta? Così mi sentivo. Avevo già pensato molte volte di star fermo e lasciar decorrere il corso della natura, ma un insano istinto di sopravvivenza ogni volta mi costringeva a prendere quella maledetta siringa e a tornare, ai 100 all'ora, dal profondo dell'oceano fino in superficie. Lo pensavo ogni volta.. e ogni volta dimostravo ancora e ancora, a me stesso, di essere un insetto intrappolato nella mia stessa vischiosa tela.
Era già la terza volta se non più nell'ultimo mese che, uscendo di casa per andare a bere qualcosa coi miei pochi amici, giravo le spalle e davo clamorosamente buca all'appuntamento. Mi accorgevo sempre più di non avere voglia, né tempo da perdere dietro scene patetiche in cui puttanelle svampite e boriose mostravano con orgoglio le loro voluttà. Io avevo tempo solo per pensare, e scrivere. Non ero fatto per vivere. Ma per scrivere. Soffrivo di quella malattia chiamata noia, ero stufo della vita che mi ero costruito e di quello che non facevo. Sentivo il rintocco di ogni secondo pesare, la mia abitudine divenne la mia condanna, finche i confini tra dormire e essere svegli si fecero sempre meno evidenti, e se ciò giovava alla mia scrittura di sicuro non si poteva dire la stesso per il mio peso, al quale ogni giorno toglievo qualche etto.
Come se non bastasse avevo deciso di provare a scambiare qualche maledetta chiacchiera in più con Aura, da giorni, ma mi bloccavo davanti a ogni possibilità di parlarle, era come se un muro si ergesse all'improvviso davanti a me. Ma forse è stato meglio così, non poteva pensare male di me almeno, non mi conosceva e il perfetto equilibrio che aveva il nostro rapporto non era stato rotto.
Entro poco si sarebbe trasferita, avevo sentito durante uno dei miei orecchiamenti, e ciò stava a significare che non sarebbe tornata più mia neanche per quei pochi istanti di sguardi dalla libera intesa. Mi piaceva anche come il fumo della sigaretta che fumava veniva soffiato via, quasi rabbiosamente, quando la vedevo sul balcone la sera.. né i suoi capelli verranno più mossi dallo stesso vento che scuote i miei peli di ratto, quando c'è vento sul balcone.
Eppure ecco che è continuata, la vita, e nel peggiore dei modi. E ancora sono convinto che il mio fegato in quei giorni avrebbe potuto fare la differenza.
Passò quel giorno, e dopo di lui ne passarono molti altri più lenti ancora, in cui il mio unico traguardo fu di isolarmi definitivamente da tutto quello che mi distraeva dal distruggermi l'animo e con lui ogni forma di soddisfazione che potesse arrecarmi.
Ero solo, un giorno di quelli, anzi in compagnia di un cane, anche se mi sentivo io un cane a briglie sciolte che non trova la strada da percorrere. Ero a 2000 metri d'altitudine seduto a dirimpetto di un fossato senza fine che pensavo alla monotonia, di sicuro fumavo, a gambe incrociate sulla roccia antica e fredda, quando avvenne il fatto che mi portò ora a scrivere come sto scrivendo, qui dove sono.
Forse tanto rimuginare poetico mi aveva stordito, insieme alla fiasca di vino che ultimamente avevo ben valutato come compagna, tanto che mi sdraiai sulla schiena, solo la maglietta a separarmi dal crudo contatto con la pietra e la terra. Ero marcio di vino e triste, la brace mi stava bruciando le dita e non facevo nulla per evitarlo.
Chiusi gli occhi e mi appisolai quel poco che bastò al cervello di ordinare al corpo di addormentarsi, mandando così a stendere tutti quei pensieri tendenzialmente maniacali.
Ero in un prato, mi rendo conto di quanto ciò possa aver influito su quello che vidi o forse sognai, fatto sta che, come risucchiato da una forza che mi costrinse a guardare il mio pre-morto corpo, ancora più smagrito di come lo ricordavo, agghiacciai alla vista, mi si contrasse lo stomaco, mentre sciami e sciami di insetti di diversi generi e grandezze mi atterravano addosso, arrivando da ogni dove e cospargendomi di ali e busti colorati. Insidiandosi in ogni mia cavità e facendo rimbombare il loro ronzio da dentro, finche altri ne arrivavano e compivano lo stesso tragitto fino a riempirmi come un pupazzo, finche dentro di me non restava più lo spazio per nessuno di loro.
Il sudore che vedevo e sentivo calarmi dalla fronte, rossa, era gelido e rendeva ancora più deforme la mia espressione contorta dal quel dolore lancinante.
Vedevo dentro i miei occhi, e, come in una sfera di cristallo, oltre essi compariva il vuoto interno in cui stavano volando sciami e sciami di ronzanti insetti.
Mi risvegliai di soprassalto, sbarrai gli occhi prima di riprender contatto con me stesso e la pioggia sferzante sul viso, il rottweiler che ululava come un disperato, chino sulle zampe, l'erba attaccata alle mie braccia e una bottiglia aperta sdraiata vicino a me il cui contenuto fino al collo per pochi millimetri quasi traboccava il suo canale.
Alzandomi di scatto mi resi conto di quanto ancora ero ubriaco, e tirando giù una sorsata del vino appena acchiappato dal suo sgocciolare, ripensai alle ore precedenti, buie. Era ormai sera, dimenticavo. Che sogni strambi che avevo fatto, pensavo, mentre alzavo la Franciacorta stretta nella mano piena di terra.
Annata 2004, ottimo, morbido.. un'altra golata, mi allacciai meglio gli scarponi e discesi la strada dissestata redarguendo ogni tanto il cane che se ne andava per i fatti suoi.
Chissà perché, ricordo che con l'ubriaco risveglio mi era venuto un gran buonumore e una gran voglia di divertirmi, fare, urlare, forse assicurarmi quei pochi spiragli di conforto che, alla fine, eran gli unici a farmi sentire vivo o almeno degno della vita stessa.
Talmente poche cose necessitavo, talmente poco avevo, che alla fine valeva la pena tenermelo stretto, credevo.
Probabilmente, avrei anche continuato a scrivere il romanzo che da troppo tempo trascuravo.
Chissà, forse le sbronze da eremo potevano servire a qualcosa, forse isolandosi e cercando di capire meglio me stesso finivo per capire meglio anche i rapporti che avevo col resto, e le poche cose a cui tenevo davvero. Le mie necessità. Le mie priorità. Le mie ossa.
Pensando a questi bianchi pilastri, finii il fondo della bottiglia e alitando il mio consenso al vino, lo gettai nel primo bidone che trovai sicuramente appartenente alla civiltà.
Arrivai alla macchina. Scivolai avanti il sedile, una matassa di peli bagnati entrò, girate le chiavi due scatti alla leva e la visuale si fece più nitida una volta lavato via il fango dal vetro. Lo specchietto retrovisore rifletteva l'immagine di un uomo dismesso ma in maniera trattenuta, un uomo che cercava di esserlo. Un uomo ubriaco e convinto, per ora.
Play, The Stooges, no fun, e via sorridente fino a casa.
La serratura dischiuse la mia alcova intrisa di lettere, e sporcizia e ricordi. Scodinzolando la creatura corse verso la pallina di gomma e la cuccia. Sorrisi con una cicca tra i denti.
Accesi la televisione tanto per farle compagnia, mentre mi spogliavo dalle vesti fradice e ne cercavo delle pulite, ammesso ce ne fossero.
Dopo una doccia mi sentii rinascere, in placenta di morbida tela, scontroso per natura ero adesso febbricitante nel mostrare al mondo il mio rinnovato candore.
Cosa dovevo fare?
A volte quasi mi dimenticavo di possedere un telefono e soprattutto una segreteria che contenesse le mie ingiustificate taciturne, osservandoli da lontano diffidente decisi che forse fosse il caso di dar voce a questi strumenti misconosciuti.
Premetti il pulsante.
Messaggio del 2509 alle ore 15. 30:
"Salve, sono Andrea dell'editoria, chiamo per informarla del fatto che il committente del romanzo a lei richiesto.. mi spiace, ma è stato arrestato. Maurizio, se posso darti del tu, immagino cosa possa provare ora. A quanto pare, comunque, era interessato alla letteratura quanto alle associazioni a delinquere. Da parte nostra possiamo solo chiederti di mandarci comunque il lavoro che hai svolto quest'anno, cercheremo di far si che non sia stato invano. Ovviamente l'anticipo che ti era stato versato puoi tenerlo, ma non garantiamo di poterti dare il resto a meno che si trovi qualcun altro disposto a comprarne i diritti. Mi spiace, se hai bisogno di informazioni chiamaci, chiedi di Andrea o di Mario, vedremo se possiamo metterci d'accordo. A presto. Ciao."
"Altri due messaggi, del.."
STOP.
Mezza bocca all'insù, mezza all'ingiù, due dita strette a un'altra sigaretta. L'accendino nella tasca dell'accappatoio, aperto, fatti pochi passi sul balcone l'accesi.
Neanche mi piaceva, quel romanzo. E, sotto di me, neanche mi piaceva quelle masse di cervelli e anime ammucchiate l'una alle altre pochi metri più in basso, in realtà.
Uno sbatacchio alla porta del balcone affianco costrinse la mia attenzione, adornata di gerani e piante dall'aspetto squisitamente aromatico, una donna bruna in vestaglia grassa con un secchio in mano uscì fuori dalla porta. Una casalinga, se con questo termine si può indicarne lo stereotipo preciso.
Salutai, e un saluto sgarbato e frettoloso mi rispose.
Aggrottai le sopracciglia spegnendo la sigaretta sulla ringhiera, la chioma crespa celava (meno male!) una donna di burro che i begli anni, era evidente, li aveva passati davvero da tanto tempo se mai fossero stati concessegli.
Gli chiesi ancora più cortesemente da dove veniva, ma ancora più fugace e con annessa appunto fuga dentro casa arrivò la risposta. Quasi scappò sbattendo la porta, dopo aver lanciato il secchio per terra tenendo lo sguardo fisso in basso.
Le mie sopracciglia si aggrottarono ancora di più, con la mano mi grattai la barba rada, quando mi accorsi che, in effetti, avevo l'uccello troneggiante sotto il molle nodo della corda dell'accappatoio.
Rientrai in casa ridendomela della grossa, oltre tutto la sorte mi aveva destinato pure un condominio pieno di individui poco malleabili e divertenti, e sicuramente io non mi proponevo ad interporre rapporti amichevoli!
Le mie timide e palesamenti misantropiche possibilità si erano già spinte al limite durante le poche parole scambiate tra me e Aura, in cui vincevo i miei psicotici pregiudizi riguardanti l'umanità e le donne, riuscivo quasi a essere simpatico, ma ora non avevano più ragione di essere celati.
Potevo benissimo uscire sul balcone nudo.
Cosa stavo facendo?
Sulla spuma di una birra chiara composi il numero di casa di un vecchio amico, che viveva perso nei monti da dove poco prima sognavo nell'erba umida, dove ero andato senza neanche avvertirlo che sarei stato nei paraggi. Per questo mi era venuto in mente.
Squillo dopo squillo aspettando mi convinsi che non era in casa, probabilmente se non era raggiungibile a quell'ora significava che era partito di nuovo per qualche posto splendido che ogni tanto mi raccontava abbronzato al ritorno dai suoi pellegrinaggi, a quanto descriveva splendidamente interiori, in linea con lo spirito il karma e altre idiozie di lui tipiche.
Oppure magari era semplicemente a cena con qualche filosofico hippie depresso del cazzo che frequenta.
Tolto l'accappatoio rimasi nudo in bagno come mamma mi aveva fatto, guardandomi allo specchio contai le costole che spingevano la pelle, notai la barba crespa e il pene verminoso che pendeva felice sotto una coltre di peli, la bottiglia verdognola che stringevo e alzavo in mano, il colorito pallido di un viso angoloso che a volte anche io stentavo a riconoscere come il mio.
I pochi peli radi sul petto, le braccia più magre di come da ragazzino avevo cercato di costruirmi.. la bottiglia e il gomito che da altezza zigomo scendevano verso il basso mostrarono appieno ciò che, sempre e comunque, non consideravo un brutto ragazzo.
Fragile, forse, ma una carne appetibile.
Gli occhi erano vispi, come se mai avessi perso innocenza, verginità, sorriso autoironico curiosità e giovinezza. Bastava.
Sempre nudo, uscii dal bagno rimuginando sul da farsi. Evidentemente quella sera il mondo aveva molto altro da fare che interessarsi a me, era meglio togliere il disturbo.
Il romanzo poteva aspettare anche anni per quel fine a se stesso che mi riguardava, e pure l'appuntamento di sigarette e sguardi illuminati dalla luna e dalla brace e mossi dal vento era saltato.
Già da un bel pezzo, pensai.
Sola, scodinzolava nel dormiveglia la mia animalesca compagna ogniqualvolta mi udiva barcollare in giro.
Così sicura nel vimini dell'accudimento paterno, la mia bella non poteva essere disturbata ora che zampa dopo zampa sognava nell'Eden dei cani.
Dandole un bacio stretto e soffiato sul palmo della mano, mi sedetti e concepii quell'unico scacciapensieri che l'uomo moderno non soppesa perché il rimando è nullo rispetto all'appagamento.
Sigaretta accesa tra i denti, piedi appoggiati, dopo poco mi appisolai davanti alla televisione. Comunque, inappagato. Per fortuna prima o poi sarei dovuto alzarmi per forza.
Il balcone, le nuvole, la sera, l'atmosfera poteva quasi considerarsi romantica, oscura ma in se romantica come un caminetto con un tappeto dove due amanti prendono fuoco all'improvviso. L'ultima sigaretta della giornata, quella si che è speciale, e come tale va consumata in atmosfere appropriate al pari di questa.
Avevo un mobile di ferro di quelli ad incastro, sul balcone, ci conservavo le bottiglie di vino ora che fuori, al fresco, potevano respirare, ora che le temperature andavano calando e il solo uscire dal tepore casalingo per recuperarle diventava anche per me quasi una missione faticosa la notte, se scoperto. Ormai, ero uscito, quindi lo aprii e scelsi una bottiglia di Brachetto di quello buono, giusto per star leggero prima di andare a riposare.
Il cavatappi che custodivo vicino alle bottiglie in questione si rivelò ancora una volta una pensata utile, utilizzatolo stappai la bottiglia con un sonoro schiocco tenendola ferma tra le cosce mentre il tappo volava via spinto dalla pressione del vino leggermente mosso.
Appoggiato barcollante al muro, chiusa la porta del mobile caracollandoci sopra, un poco chiudendo gli occhi, tracannai un abbondante sorso del dolce nettare rosso.
Mi squadrai dai piedi in su, decisi di far abbastanza schifo in quel momento.
La solitaria sbronza alla quale ormai mi conseguivo ogni giorno era diventata solo più una frustrante conseguenza alla mia mancanza di capacità nel conseguire e perpetrare rapporti umani di qualsivoglia genere, non una ricca fonte di introspezione mentale nonché piacere fisico e psichico quale credevo dovesse essere. Sembrava che avessi scelto consapevolmente quello a cui chiunque, me compreso, avrebbe detto un no assoluto, stavo diventato come quei tossici per i quali la droga, più che uno stimolo di vita, era diventata la vita stessa rovinandoli nei loro abissi sempiterni incoscienti?
Ma almeno ne ero consapevole. Una specie di autolesionismo maligno, ma soddisfacente. Pensavo.
Non avevo voglia di uscire, di muovermi, non avevo voglia di far niente quella sera sul balcone.
Ridevo, ridevo un sacco di me, quella sera sul balcone.
A volte, i pensieri più malinconici che di solito allontaniamo tornano prepotentemente senza neanche il tempo di farcene accorgere, neanche abbiamo la benché minima intenzione di farli sorgere, abbiamo tante di quelle cosa per cui essere contenti, continuiamo a ripeterci, ma, sarà per attimi di debolezza o alcool che folgora arterie e materia grigia, ogni incubo sembra ciclicamente risucchiarci nel suo oblio.
E, paradossalmente, tentando di scacciarlo accresce la nostra voglia di fare, scoprire, rinunciare facilmente, analizzarci e mandarci a cagare, in qualche modo vivere senza preoccuparci dello ieri e di ciò che sarà, ma solo di buttarsi a capofitto in qualche domani che sarà un'avventura più di oggi, e ne siamo certi.
Intanto, la bottiglia era quasi piena. Già una buona cosa.
Seduto, sempre il cane che sembrava supplicarmi di andare a dormire con lui, appoggiato alla mia coscia, una sigaretta girata che continuava a spegnersi. Certo che la luna, quando vuole guardarti attenta e deriderti, implacabile osserva come un occhio frastagliato tra le nubi, cielo grigio e poi sbam!, lei che rifulge rotonda bianca e splendida, come una spogliarellista che ti guarda divertita dal trespolo dove tu, uccello, non potrai mai salire. La luna dovrebbe avere delle mutandine in cui infilare delle banconote da 100, le meriterebbe. Talmente ti fa sentire lei, la sua puttana. Nonnulla che, preoccupato, spera e continua e si adegua a sopravvivere, mentre lei senza impegni senza inganni continua a splendere sopra la tua testa. Che nervi, la luna. Ci sputai contro una boccata del fumo di tabacco che tediava i miei polmoni, spingendo forte quasi spazzando via la sua immagine dalla mia retina. Un po' avevo intenzione di distruggerla. Un po' avevo intenzione di alzarmi e mandare a dormire quel sabato sera dimenticabile, come troppi, importante, come tutti. Aveva scritto prima, qualcosa, e le mie poesie mi accorgevo erano giunte a livelli maniacali, morbosamente superfluo era quasi l'impegno, ormai solo più un cieco istinto mi guidava alla scrittura e al piacere fottuto che esse sapevano concedermi, vomitavo ogni volta fuori un pezzo di morbo virus e mi sentivo meglio subito, vomitavo e covavo, vomitavo e covavo. Liberazione dei sensi, poter scrivere quello che vuoi senza esser considerato un cretino.
Puzza di pollo.. Avevo fatto cadere della brace sul collo di Maya.
Un rosso ardente colorava il collo del mio povero cane, fino a lasciare una chiazza bruciata e bucata prima che con una mano cercassi di spazzolare via il tutto senza far ulteriori danni. E lei non si era accorta di niente, placida giocosa e dolce gioiva a quelle pensava fossero le mie carezze quando invece cercavo solo di salvarle il collo.
Intenerito, le abbracciai il testone.
"Bella, dolcezza, ti amo. Solo te, solo noi due.." le dissi.
Poi mi accorsi che mi stavo commuovendo davvero, forse era meglio alzarsi e andarsene a letto. Lo feci, con ancora mezza bottiglia in mano e, nell'altra, le unghie strette che premevano contro l'insofferenza del domani certa.
Ma dopo..
Luce, luce che lenta distruttiva entra con calore negli occhi fino al cervello, rende oscura l'idea di tetto che sporco sopra la mia faccia regge il cielo, sembra un illuminazione spirituale direttamente proveniente dal ventilatore.
Una boccata d'aria pare un morso di vita, ma che giù incespica e perde sostanza prima di inondarmi i polmoni.
Un forte schianto come una cannonata al ventre, costringe pancia a essere stretta da unghie disperanti che ne evocano l'interno ritorno, e vetro per terra e viola esauste disperate dita che afferrano e tirano lenzuola come farebbe un impiccato con la sua corda.
Subito gli occhi iniziano a lacrimare e i denti a serrarsi, la testa, sgombra, solamente urla atti di necessaria sopravvivenza imparati a memoria, o forse sempre esistiti.
Nel silenzio più assoluto (le grida nella mia mente erano già abbastanza) un rotolare sul fianco e la subitanea caduta per terra, mi trovo incapace di alzarmi sulle ginocchia per debolmente arrancare di qualche prezioso centimetro.
Aghi, pronti a tuffarsi in sangue inoculando nuove giornate e altri nauseanti pomeriggi, carezze sorrisi falsi e sintomi di esistere e virus. Ghiaccio di vetro stretto tra falangi e un pollice, posizionato come da manuale richiederebbe.
Le braccia mosse a scatti, neanche il tempo di notare la plasticità quasi elettrica di ogni movimento e il labirinto pulsante da bombardare che striscia serpentino. Continuano le vertebre ad assecondare un movimento tanto protettivo quanto penosamente inutile, l'arcuarsi è solo una stretta ancor maggiore e inevitabile alla voragine.
Piano, dal naso qualche spiffero d'aria mi corre fino al cervello e gli impedisce di perdere completamente il controllo per farlo tornare alla sua indifferente e disinteressata naturalezza priva di costante esplosione taciturna, pieno di voci sommesse che maledicono, e demoni dementi che ne divorano sostanza e pareti, ma nel buio silenzio.
Spasmo forte che prende il sopravvento, melatonina cerebralmente resa comincia ad assuefare la decisione della paura di esser entrato nella vita proprio in quel momento, e con espressione ebete lascia incapaci nel settore coordinamento cervello - pensieri sensati - gesti. Il vuoto muta come in fotogrammi di pellicola cinematografica stagliata su sfondo mnemonico, inafferrabili, che traspirano facce e sorrisi, mai conosciutisi e magari poco conosciuti.
D'altronde cosa si può dire di aver appreso nell'arco delle proprie e altrui esperienze? Mi sembrava di essere consapevole delle mie debolezze e capacità induttive, mi consideravo un bel ragazzo, poi era bastato un attimo di stillicidio in più.. ed ero diventato un bel ragazzo morto.
Il legno della porta rimbombò ai colpi ritmici delle nocche sbattute su di essa, e a batterle erano precisamente un vicino insoddisfatto di esserlo e un portiere per cui l'inquilino dietro quella porta non rappresentava neanche una faccia distinguibile tra le altre, ma che aveva assunto importanza ora che si era ricordato che ancora non aveva pagato l'affitto e che, a quanto pareva, aveva l'abitudine di uscire nudo di casa. Le due voci smisero di urlare e la porta di traballare quando si convinsero che in casa non c'era anima viva, e una delle due si scusò con l'altra dicendogli che l'avrebbe avvertita non appena avesse visto quel disgraziato col suo enorme cane sporco e bavoso.
A poca distanza, distesa sul molle ventre peloso, l'enorme impaurito mio cane sbavava la schiena del suo defunto umano compagno, appoggiata e tremante aveva girato la testa di scatto al frastuono che improvvisò con l'arrivo dei due uomini, ma ancora più spaventata si era stretta a me, ex - Maurizio, senza avere neanche il coraggio di abbaiare. È proprio un bravo cane, Maya.
Le lenzuola nel fondo del letto ancora impigliate colavano in cascate di tessuto sul mio cadavere, che nella sua immobilità ancora dava l'idea di star cercando qualcosa, in posa rigidamente protesa in avanti come quella di un arrampicatore inesperto, un po' come avevo sempre fatto in movimento. Rabbiosamente disperato.
Fu allora che, credo, fece capolino uno dei tanti microbi dei miei pensieri, piccolo, e nero. Con sei zampe con cui poter agevolmente cambiare posto all'ordine preciso in cui doveva essere conservato, ben chiuso nella sua ampolla. Vi rimasi aggrappato, non con le unghie però. Spinto ad oltranza da altre cognizioni che volevano andarsene via, atterrai con lui nella peluria bruciacchiata di un collo grasso e bruciacchiato. E li ci restammo, io e Maurizio.
"Ti amo, solo io e te, solo noi due.."
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0 recensioni:
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- Ti ringrazio, questo racconto è stato un "incubo vinto", egli stesso è stato pulce.. sono orgoglioso che ti sia piaciuto, nonostante le scivolate grammaticali!
- Cacchio se è bello... una delle cose più belle mai lette su questo sito.
Intenso, doloroso, disperato e insieme assolutamente vitale.
Un fantastico "guazzabbuglio" di idee, emozioni e oensieri che si rincorrono e si legano gli uni con gli altri, in maaniera perfetta.
Meravigliosa la descrizione della luna.
Veramente bravo.
P. S. solo una cosa: hai saltato due o tre accenti, ma sono sciocchezze.
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