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Un posto per star bene
L'ultimo ricordo che ha di suo padre è di lei bambina accovacciata davanti al gabinetto, che chissà quale schifezza aveva mangiato e stava lì a vomitare l'anima, e c'era il papà che le teneva una mano sulla fronte e la tranquillizzava. Non si ricorda le parole, ma rammenta il suo tono di voce, pacato e caldo, e lei immagina che le dicesse di non preoccuparsi, che sarebbe andato tutto bene, e magari di non dirlo alla mamma che sennò si sarebbe agitata per nulla che lo sai com'è fatta. Lei stava con gli occhi chiusi, e il tepore della mano sulla fronte la faceva star bene dentro, anche se tutto il fuori le faceva male.
Quindici anni dopo Paola scende dall'auto barcollando.
Si aggrappa allo sportello aperto con entrambe le mani, gli occhi mezzi chiusi e la bocca spalancata a far entrare più ossigeno possibile.
Come se questo bastasse.
È quasi l'alba e l'aria è fresca e frizzante quel tanto che serve a schiaffeggiarle le guance arrossate, si infila sotto il niente di cui è vestita e le solletica la pelle. E pare che le cose debbano andare meglio.
Ma la sensazione non dura che pochi attimi.
Qualcuno parla alle sue spalle, e lei sa di conoscere la voce, ma non riesce a darle un nome né tantomeno un volto. Non prova neppure a voltarsi ma stacca le mani dallo sportello che la sorreggeva e muove un paio di passetti lungo il marciapiede. Le viene da ridere perché improvvisamente pensa alle ballerine classiche in equilibrio sulle punte, e immagina come potrebbe essere divertente vedere uno spettacolo di danza con i ballerini ubriachi quanto lei.
Percorre due metri beccheggiando pericolosamente da un lato e dall'altro, fino a che il terzo metro le è fatale. Crolla sulle ginocchia sul pavé del marciapiede e vomita.
Il suo corpo viene scosso da sussulti ad ogni conato, e neppure si accorge che qualcuno è arrivato di corsa a sorreggerla per le braccia, per evitare che si accasciasse totalmente al suolo.
Dopo qualcosa come due milioni di anni - tanto sembra a Paola - i conati si affievoliscono e poi cessano del tutto, e lei resta in ginocchio per terra con le braccia aperte fra le braccia di chi non capisce chi, mezza vestita e mezza no e imbrattata del suo vomito.
Il misterioso soccorritore la solleva da terra senza alcuno sforzo apparente e se la carica in braccio.
«Attento che ti sporco», riesce a biascicare, ma le pare che le parole vengano da un altro luogo, distante dal corpo.
Nessuna risposta dall'altra parte.
«Da grande voglio fare la ballerina», dice lei.
Ancora silenzio.
Paola non apre gli occhi, ma sente che la sta trasportando, sente che dolcemente la adagia sdraiata, sente che le solleva la testa e le poggia qualcosa sotto la nuca, che in qualche maniera la copre.
E poi c'è una specie di buio che forse è una sorta di sogno, in cui immagini confuse si mescolano in un insieme inestricabile con frammenti di luce e di realtà.
In questo sogno lei è in cima ad una montagna e c'è un cielo meravigliosamente azzurro, c'è quello che potrebbe essere suo padre che la insegue per farle il solletico e lei che corre a perdifiato lungo la discesa e ride e ride e ride ancora fino a quasi non poterne più, fino a sdraiarsi per terra fra l'erba che profuma di terra e pioggia e poi è su una panchina e non c'è più il cielo azzurro ma una luce blanda e velata di rosa e l'odore della terra è stato sostituito da un profumo altrettanto buono ma indecifrabile. Sente un bruciore alla bocca e la testa che le pulsa e capisce che non è più un sogno, ma dietro i suoi occhi chiusi è rimasta l'immagine del cielo azzurro e Paola non vuole farla andare via, non vuole perderla perché un cielo così azzurro non lo vedrà mai più, e lei questo lo sa. Non sa come, ma lo sa.
E resta con gli occhi chiusi ma sente comunque una mano che le accarezza il volto. Ora la mano si è poggiata sulla fronte e sposta i capelli all'indietro, una ciocca per volta, meticolosamente.
All'improvviso Paola ha paura. Ha paura perché sa che è arrivato il momento di aprire gli occhi e non vedere più il cielo.
Quella che era quasi l'alba ora è diventata alba piena e nel fresco immobile del mattino la luce si posa come zucchero a velo sugli oggetti e li colora.
«Ciao», dice una voce sopra di lei.
È il suo turno di non rispondere, adesso.
«Stai tranquilla, è finito tutto», continua. Fa per spostare la mano ma Paola lo ferma.
«No, se togli la mano non vedo più il cielo», dice lei.
«Andrà tutto bene, ci sono io. Ora ti riporto a casa, ma è meglio che non lo diciamo a tua mamma che sei stata male, che quella è capace di farne una tragedia, lo sai com'è fatta, no? ».
Paola apre gli occhi e capisce di essere sdraiata su una panchina nel pardo della sua città, sporca del suo vomito e coperta da un giaccone eppure è proprio così che dev'essere.
È un posto del cazzo, ma le sembra di star bene.
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