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Lo scalatore
Sono a 5642 metri rispetto il livello del mare.
Sono giunto sulla cima del monte Elbrus.
Questo grande e antico vulcano spento riposa tranquillo, ignaro di quello che sta avvenendo nel mondo; placidamente, aggiunge il suo cono innevato agli altri picchi della catena del Caucaso.
Di professione faccio lo scalatore o, meglio, facevo lo scalatore: ora non so più neanche io cosa sono.
La mia patria è l'Austria. Fin da piccolo mio padre insinuò in me l'amore per la montagna, l'amore per la scalata, l'amore dell'ergersi più in alto di qualunque altro uomo ed essere vivente.
L'amore di sentirsi circondato da un profondo silenzio rumoroso, carico di significato e domande, un oceano di luce.
Da grande ho fatto completamente mia questa passione. Entrando nell'esercito ho stipulato una specie di patto: se da una parte offro il mio servizio per il paese scalando e studiando le montagne per aiutare a completare le cartine militari, dall'altra parte non devo sparare a nessun uomo soltanto perché magari ha la divisa di un altro colore e ha in testa idee differenti dalle mie.
Passai così anni di intensa attività e gioia, feci dell'esercito la mia seconda casa.
Insomma, lavorando divertivo me stesso e aiutavo gli altri.
Improvvisamente iniziò a insinuarsi una sorta di agitazione nei miei compagni, nei miei concittadini, in tutto il territorio austriaco. Era una specie di malattia, molto contagiosa, la chiamavano Nazionalsocialismo. I suoi virus erano talmente forti che ben presto prese il controllo di tutti gli uomini, la stessa Austria arrivò , prima, a definirsi stato nazionalsocialista, in seguito, a entrare a far parte del "Grande Impero Millenario", il Reich nazista.
Una massiccia euforia pervadeva tutti gli uomini.
La croce uncinata su campo bianco iniziò a comparire in molti campi, anche i più disparati, come nel governo, nella scuola, nei cinema e naturalmente anche nell'esercito.
Chi non era in sintonia con quelle idee doveva andarsene. Non si poteva opporre resistenza.
Io accettai di entrare a far parte di quel grande organismo, non ci vedevo nulla di male: promettevano di far fiorire l'economia del mio paese, ancora in ginocchio a causa della Prima Guerra Mondiale; promettevano un ritorno ai grandi fasti dell'antico Impero Austriaco, crogiuolo di antiche genti e di potenti popoli; promettevano un mondo migliore, governato unicamente solo da uomini forti e responsabili di razza superiore, la razza ariana. Promettevano di garantire migliori condizioni a te e alla tua famiglia, ai tuoi amici, permettendoti di realizzare quei sogni in cui da sempre crogiolavi.
Inoltre aumentarono la paga del semplice soldato, come me. Iniziarono a farti sentire potente, mosso da una nuova e incontenibile energia. Il tuo tempo libero non era più tempo perso, ma veniva investito per fare crescere il paese in splendore e potenza. Insomma, ti estraevano dal contesto grigio e monotono in cui vivevi e ti illuminavano di nuova luce. E se questo poteva non bastare, era l'entusiasmo sempre presente dei tuoi compagni e dei capi carismatici che ti trainavano avanti.
Eravamo come una grande famiglia, felice.
Alcune voci di orribili crimini, ingiustizie e stermini giungevano ai nostri orecchi, ma erano talmente ovattate e lontane dalla nostra immaginazione che non ci facevamo caso.
In un soleggiato mattino agli inizi di settembre scoppiò la guerra. Inizialmente non ci feci molto caso: iniziai a interessarmene nel momento in cui alcuni miei compagni partirono per il fronte russo qualche anno più tardi, ma anche in seguito a ciò l'evento rimase abbastanza estraneo a me, visto che ancora di effetti negativi non si scorgevano nel mio paese e io ero al sicuro all'interno del mio ufficio della topografia militare.
Ma venne la chiamata. Erano gli ultimi mesi del 1942. Dovetti partire per il fronte orientale, alla volta del gruppo di Armate Sud operanti sul confine ucraino, alle dipendenze del Feldmaresciallo Fedor von Bock.
Io non sapevo combattere, non avevo mai ricevuto un addestramento sufficiente a farlo, per tale motivo mi chiedevo spesso il perché della mia chiamata, e questa domanda mi accompagnò durante il mio lungo, duro viaggio a bordo di un treno a vapore attraverso le sconfinate distese russe.
Dovevo piantare una bandiera, la bandiera del Nazionalsocialismo, sulla vetta del Monte Elbrus. Anche se quasi tutte le principali città del territorio caucasico erano sotto il controllo della Wermacht, bisognava rendere evidente a tutti il potere e il dominio tedesco nelle ex regioni russe. Bisognava far vedere fino a Mosca, che avevamo inutilmente tentato di prendere poco tempo prima, giungendo solo a pochi chilometri, i colori della nostra bandiera: il rosso del sangue di migliaia soldati trucidati, il nero della morte, il bianco del freddo pungente presente in Russia. Per tale motivo venni scelto io e il mio gruppo.
E ora sono qui, sulla vetta. Sono isolato dal resto del mondo. Tutto appare candido e silenzioso. Qui è la natura a regnare. Penso che proprio a causa di questa scalata io mi sia messo a scrivere.
Come d'improvviso mi si sono aperti gli occhi, mi sono risollevato dalla mediocrità della mia vita piatta e apatica, abulica, pitturata e decorata a piacimento dalle altre persone. Mi sembra di essere ritornato bambino, con uno sguardo interrogativo della realtà.
Il mondo lentamente torna ad essere a colori: l'azzurro profondo del cielo, il bianco morbido delle nubi che si fonde armoniosamente con il bianco splendente della neve.
Maledetta realtà, che mi è restata per lungo tempo oscurata ed ora si palesa così violentemente davanti a me!
Ho deciso. Ho deciso che scenderò dal versante della montagna, non il versante da cui sono salito, ma quello opposto. Voglio lasciare queste terre, questa desolazione. Voglio lasciare i sogni di gloria e di eternità agli uomini potenti del mio paese. Non mi importa nulla di tutto questo, penso che la felicità e serenità risiedano in ben altre cose. Mi vedranno come un traditore, ma meglio essere traditori del proprio paese che della propria vita.
Mi pervade anche un certo senso di stanchezza: sono stanco di marciare sotto il rombo dei bombardieri nemici, sono stanco di vedere scene di desolazione, sono stanco di forzare la natura dell'uomo per farlo trasformare in una bestia.
Da quassù mi appare tutto così innaturale: come è possibile che gli uomini siano tanto superbi da non capire che in realtà sono come formiche nel formicaio? Corrono corrono, e ancora corrono, ma per quale ragione? Non si accorgono di essere così ridicoli? Come inavvertitamente una formica può essere schiacciata dai nostri piedi, così gli uomini possono essere schiacciati da loro stessi, senza che se ne accorgano, e porre così fine a tutto. Fine a tutto. Nessuno sembra accorgersene, forse gli uomini dovrebbero cominciare a scalare in massa le montagne.
I miei pensieri scorrono veloci, forse elettrizzati dall'aria fredda che si respira qui. Ma, soprattutto, scorrono veloci perché finalmente le briglie che li intrappolavano si sono sciolte: i grandi della terra non hanno potere qui, qui a regnare incontrastata è la natura, è l'interiorità dell'uomo!
Sto respirando per la prima volta aria veramente pura, non contaminata; i miei polmoni si sono riempiti fino quasi a scoppiare. Ho lasciato che i timidi raggi del sole scaldassero un poco il mio viso avvizzito dal freddo. Questo deve essere l'uomo: uno dei tanti animali della natura, forse privilegiato, ma sempre in armonia con essa e i suoi abitanti.
Lascio ai potenti il giocare alla guerra. Lascio agli altri uomini l'odio. Lascio a me stesso la vita.
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