Le elementari le ho fatte in una scuola prefabbricata, succursale di un istituto storico ubicato assai più a valle, rispetto al nostro quartiere in collina.
Ora, al suo posto, hanno costruito un garage sotterraneo.
Le classi erano solo cinque ed erano miste.
Grembiuli bianchi e neri insieme, una novità per quell'inizio di anni '60.
Il ceto di appartenenza maggiormente rappresentato era la media borghesia: figli di dottori, ingegneri, avvocati e poi uno sparuto gruppetto di estrazione decisamente proletaria i cui genitori erano i fruttivendoli, i portinai, i ciabattini del quartiere "bene" in cui tutti vivevamo.
Io, figlia di padre commesso in un negozio di stoffe e madre casalinga, mi trovavo in una collocazione sociale non chiaramente definibile.
Lo stesso accadeva per la mia valutazione scolastica.
Ero andata a scuola a sei anni compiuti, sapendo già leggere e scrivere da un bel pezzo, grazie al Maestro Manzi: una delle intuizioni più felici di mia madre quella di piazzarmi davanti al bianco e nero di "Non è mai troppo tardi"!
Ma, per la nostra maestra - molto diccì bigotto e quel tanto che basta razzista - la cosa aveva un doppio risvolto: non sarei mai stata una sua "creatura" e, per quanto le servissi come alunna da interrogare "a sorpresa" durante le ispezioni scolastiche, per essere sicura di non fare brutta figura, per cinque anni non ha mai perso un' occasione per ricordarmi - davanti a tutta la classe - che io ero "diversa".
Ricordo di avere ricacciato le lacrime in gola, orgogliosamente, quando, senza ragione alcuna, venivo confinata ad un banco singolo come chi era monello o "asino".
Quella volta, avevo quasi dieci anni, li avrei fatti a fine mese, poiché mettevo giù senza errori alla prima dettatura il testo, la maestra mi incaricò di aiutarla a correggere i compiti dei miei compagni dicendomi di togliere un voto per ogni errore che avessi trovato.
Corressi per primo il dettato di L. - figlio di un portinaio - e gli attribuii un otto per due svarioni mentre a P. - figlia di ingegnere - toccò, per il medesimo tipo di errori più uno, un sette.
La maestra mi disse che non ero stata equa e trasformò il voto di L. in un sette e quello di P. in un dieci meno meno.
A ricreazione regalai la mia merenda, non avevo più fame.
Quel giorno direi che nacque la mia coscienza "socialista".
Era il maggio 1968.