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La Casa affittata
Mi alzai dallo sgabello senza sostenere gli occhi del mio interlocutore, avvolta in un velo di indifferenza verso ciò che avevo intorno. L'affare era fatto e almeno mi ero tolta un bel problema. Le chiavi dell'appartamento erano già nella borsa, pronte per l'uso. L'agente immobiliare mi strinse la mano col solito sorriso di circostanza associato a una non tanto celata contentezza per l'affare appena concluso.
Avevo scelto, a dirla tutta anche per l'aspetto economico, una piccola palazzina collocata al confine tra città e campagna e collegata ad una stradina polverosae dissestata ma piuttosto vicina all'autostrada. Il posto in sè non dava molto
spazio a salti di fantasia, non ispirava granché l'immaginazione ma era alquanto tranquillo, anche troppo. "Un po' isolato", pensai subito. Di altri palazzi ve n'erano ma non nelle immediate vicinanze. Il primo si ergeva a cento metri a destra per poi finire in un filare ordinato e omogeneo di altre palazzine dove, volendo, si sarebbe entrati in città a piedi nell'arco di un quarto d'ora. A sinistra e di fronte altri palazzi, moderni e dalla collocazione discontinua e più o meno adiacenti alla stradina. Un ambiente piuttosto banale che si sarebbe potuto confondere con qualsiasi altro luogo di periferia. Su tutto aleggiava un'aria di greve sonnolenza come se cose, persone, animali non vivessero davvero nella realtà ma in una sorta di dimensione parallela fatta di rumori attutiti e di eteree presenze. Tutta presa da questi strani pensieri, arrestai la mia vettura dietro alla palazzina in cui si trovava una piazzola per il parcheggio. Vi girai intorno con lo sguardo e notai alcune crepe che squarciavano l'intonaco grigiasto delle mura. Possedevano un insolito fascino e anzi donavano alla struttura una certa aria di decadenza misteriosa come nelle più belle ville descritte nei racconti di suspence. Eccomi arrivata all'entrata principale. Essa si presentava con una normalità sconvolgente: la facciata grigia era spoglia di qualsiasi segno distintivo ed il portone severo di vetro e metallo stava lì, muto e insignificante.
Velocemente estrassi le chiavi, tanto curiosa ero di mettervi piede. L'operazione di apertura fu dapprima un poco macchinosa, poi la ripetei con felicitàper capire se la serratura non fosse difettosa. Tutto a posto. Nell'entrare un odore acre mi invase le narici. Mi inoltrai in un buio fitto e tastai la parete in cerca dell'interruttore. Lo trovai con il dito medio vicino ad una finestra. La luce mi rivelò una stanza arredata in modo essenziale e ordinato ma senza pretese. Una credenza, un sofa, un tavolino, un quadro raffigurante un vicolo degli anni trenta presumibilmente della città stessa. E ancora un tappeto impolverato e leggermenre consunto alle estremità, una vecchia sedia di legno scuro in un angolo, una finestra con tendine di tinta unita color verde oliva adatte a non far entrare gli spiragli di sole. Il tutto poteva sembrare un poco abbandonato ma dall'aspetto ordinato e riposante. Uno stretto corridoio dava su una scala a chiocciola in legno dove il tempo aveva lasciato le sue tracce ma senza rovinare la superficie dello scorrimano. Mossa da un fremito misto a curiosità e timore dovuto forse al luogo misconosciuto e abbandonato raggiunsi la cima ed entrai nella camera da letto. Qui invece la stanza era più "sofisticata": un letto a baldacchino con un pesante copriletto in broccato rosso carminio, un armadio a muro dall'aspetto antico, un commode
in stile Luigi XVI, una panca in legno, un quadretto illustrante dei volatili multicolori su un cielo plumbeo collocato vicino al letto. Infine la finestra con inferriate in ferro battuto, situata appena sopra la ringhiera che dava direttamente sul retro della casa e dritto sopra la mia vettura. Pensai a quanto fossero diverse le due stanze e non capivo per quale ragione la camera da letto fosse cos' complessa ed accogliente rispetto al soggiorno. "Come se il primo piano non non c'entrasse nulla con il rialzato" pensai. "Chissa com'è l'altro piano del palazzo".
Era tardi e in quella giornata di fine settembre alle otto cominciava già a farsi buio. Mi stesi per provare la durezza del letto. "Non male" mi dissi. La valigia l'avrei disfatta domattina, avevo davvero necessità di riposare... Su quel letto e in quel profondo silenzio, la mia mente vagava e tornava vorticosamente al passato, agli anni del mio burrascoso matrimonio con Jonathan. Era stata una scelta azzardata
quella di sposarlo. Allora non avrei mai pensato che la mia libertà valesse molto di più... ero accecata dalla sua personalità che credevo simile alla mia. Brillante e intelligente, aveva saputo tendere le corde dei miei sensi e allargare i miei orizzonti. Dopo tre anni ci ritrovammo uno di fronte all'altro senza nulla più da dirci. Forse avevamo osato troppo, bruciando le tappe velocemente ed esaurendo presto il desiderio. E soprattutto non ci andava di passare il resto dei nostri giorni senza emozioni nè progetti. La separazione consensuale avvenne dopo poche settimane. Presi subito la decisione di staccarmi dall'ambiente dove ancora i ricordi erano troppo vivi e scelsi la tranquallità della periferia. Nonostante tutto, pensai, dalla vita non si dovrebbe buttare via niente perchè ogni esperienza contribuisce a costruire la nostra personale corazza contro le intemperie dell'esistenza.
Scivolai in un dolce sonno e mi risvegliai all'alba di domenica. Saltai su, anche se volevo dormire ancora un pò, per disfare la pasciuta valigia. Passai così la mattinata a riordinare e pulire. A mezzodi preaparai un pasto a base di spaghetti e formaggio. Quanto ancora avrei sopportato quella solitudine ancora non potevo saperlo. L'agenzia ci teneva a farmi sapere che nel giro di alcune settimane anche l'altro piano sarebbe stato occupato.
Trascorsero otto giorni da quando arrivai. L'indomani avrei sostenuto il mio primo giorno di lavoro presso l'unica casa editrice della città. La mia attività sarebbe stata quella di revisionare e all'occorrenza tradurre articoli e racconti, il che calzava bene con le mie aspirazioni. La giornata passò rapidamente e mi coricai prima del solito poichè l'indomani mi sarei alzata presto. Presi un libro e lessi qualche riga in modo da addormentarmi meglio. Ma lo sperato sonno non venne. Sarà stata la tensione per il nuovo lavoro, sarà stato il silenzio impenetrabile della stanza e chissà cosa. Alzai lo sguardo sulla sveglia appoggiata al comodino. Erano le due e un quarto. Per fortuna qualche ora per recuperare c'era ma ogni tentativo di addormentarmi risultò vano. La mia mente era come ammantata da uno strato di nervi tesi e brulicanti. Ad un certo punto mi impegnai a rilassarmi e per un certo lasso di tempo ci riuscii. In quella mezz'ora però accadde qualcosa di strano. Udii in modo non molto distinto dei rumori provenire dal piano di sopra. "Sembrano passi", pensai. Eppure non era entrato nessuno sino ad allora, di ciò avrei potuto giurarci. Poi più niente. Mi irrigidii e la fronte secerse alcune goccioline di sudore
freddo. Non volevo ammetterlo, ma avevo paura. Paura ell'ignoto, dell'improbabile, dell'inverosimile. Ma stranamente i rumori cessarono completamente. Ero sicura di averli uditi e questi non erano frutto della mia mente eccitata. Il tempo scivolò via e la sveglia strillò di soppiatto e il mio dorso fece un sobbalzo sopra il materasso. Ero di un umore non eccellente e come un'automa mi diressi verso il bagno.
Mi vestii in fretta e preparai una colazione frugale. Non sapendo esattamente come arrivare sul posto, uscii prima del previsto. Non era ancora chiaro e l'atmosfera era umida e pesante e già sapeva di autunno inoltrato. Mi diressi verso la vettura e prima di salirvi alzai lo sguardo sul secondo piano per trovare qualche traccia di presenza. Non v'era nessuno. Almeno a giudicare da quella distanza. La tapparella era rimasta nella posizione esatta in cui l'avevo vista. Mi affrettai ad aprire la portiera poichè i miei pensieri erano tutti per il lavoro.
Rientrai verso le sei. Avevo fretta di spogliarmi e fare una doccia calda. La prima giornata non mi era sembrata male. L'ufficio era piccolo, ma accogliente. I colleghi, sebbene un po' freddi, erano stati gentili. Come avviene del resto il primo giorno, poi il tempo avrebbe rivelato croci e delizie.
Nel soggiorno non disponevo ancora del televisore, quindi mi rilassai ascoltando la radio. Le pareti trattenevano l'eco delle onde sonoree dopo poco mi cominciarono a ronzare le orecchie, il che mi fece decidere di spegnerla. Presi il libro e ricominciai a leggere. Eppure, qualsiasi cosa facessi, il mio essere era pervaso da quella forma di nervosismo tipica di chi è sotto pressione. Scesi a preparare una camomilla. La versai in un'ampia tazza e me la portai a letto. Piano piano i muscoli si disteseroe i lineamenti del viso tornaronoad essere più morbidi. Un po' di pace, finalmente. Erano le dieci e venti ed il sonno sopraggiunse.
Sogni confusi albergavano nella mia testa. Jonathan stava seduto sul letto a fissarmi, gli occhi color porpora sembravano fari nella penombra, i denti giallo ruggine erano aguzzi e coperti di saliva. Sentivo il suo fiato sul petto. "No, Jonathan, nooooo!!!" sibilai nel sonno e di colpo riaprii gli occhi. Mi risveglia nella realtà. Rimasi immobile una decina di minuti per scacciare l'incubo dal cervello e ribassai le palpedre. Altre visioni si affardellarono nella mia mente ma senza lasciare il segno sino a quando... sino a quando un tonfo sordo riempì la stanza! E stavolta ero certa di averlo udito distintamente... non era un sogno! Ripresi a sudare ed un senso di nausea si impadronì del mio corpo. Gridare, a che sarebbe
servito? Con disgusto verso me stessa convenni di non avere un telefono a portata di mano... perchè mai non ci avevo pensato? L'unico telefono era il cellulare lasciato nella borsa sulla sedia del piano terra.
Con scatto felino scesi le scale e afferai la borsa con le unghie riuscendo a stento a ritrovare il telefonino. Composi il numero delle forze dell'ordine e aspettai nuovi passi, che non arrivarono. Pensai allora che se v'era qualcuno avrebbe potuto già essere in camera da letto. Feci finta di chiamare il numero e mi misi a parlare con un immaginario polizziotto. Infine accesi le luci. Da quel punto avevo una visione d'insieme del salotto. Non vidi nulla di sospetto. Con passi incerti raggiunsi la scala e mi affacciai prima di entrare. Nessuno. Spensi allora solo la luce del soggiorno e mi infilai a letto. Ero così sicura che il suono fosse reale? Talvolta è difficile distinguere i sogni dalla realtà... mi dissi, cercando a stento un improbabile riaddomermentamento. Dopo un'ora di inutili tentativi il sonno arrivò naturalmente. E con esso il suono della sveglia. Faceva più freddo o ero io ad essere tesa? Tutte e due le cose, probabilmente. Trascorse così un'altra giornata di lavoro. Tornai più tardi del giorno precedente. Stavolta volevo vederci chiaro in questa faccenda. Acquistai una scala, la sistemai lungo il muro dietro il palazzo e spiai all'interno del secondo piano. La tapparella semi-abbassata lasciava un ampio spazio di veduta. Niente. Sembrava davvero un appartamento abbandonato. Allora qualcuno aveva forzato la porta dall'esterno e sicuramente non era del palazzo. L'aveva forzata, si, ma senza riuscirvi. Potevo stare tranquilla? Una doccia, una cena calda e di nuovo a letto. Ma con la luce accesa... il sonno ovviamente tardava a venire ma alla
fine vi cedetti. La una, le due, le tre, le quattro... alle sette e dieci il suono della maledetta sveglia riecheggiò e nello svegliarmi sbattei la testa contro lo schienale. Davvero un bel modo di iniziare! Riuscii a prepararmi in meno di un'ora e alle otto meno cinque ero pronta per uscire. All'improvviso un altro rumore secco rimbombò nell'atrio.
Presi subito il cellulare, composi il numero ma non chiamai fino a quando non ne avessi udito un altro. Ma da dove proveniva? Di colpo aprii la porta e feci un giro veloce delle mura. Pareva non esserci nessuno. E se qualcuno fosse già in casa? E da dove sarebbe entrato? Non v'erano entrate secondarie nè neiente che potesse far pensare ad un accesso alternativo alla porta principale. Tutto questo stava assumendo le connotazioni di un giallo. Dovevo andare, anche se mi sarebbe piaciuto restare a studiare la situazione.
Non era stata granchè come giornata lavorativa, mi annoiai poichè non c'era molto da fare. Per non parlare dei miei nervi scossi. Dovevo riprendermi. La mia voglia di vivere era più forte. Per ingannare il tempo afferai il giornale di una collega e iniziai
a sfogliarlo avidamente. Un articoletto di cronaca attrasse più di tutti la mia attenzione. Testualmente diceva: "Bambino di undici anni scomparso dalla casa dei genitori. Vane le ricerche". Poichè si trattava del giornale locale, una scossa mi
invase la spina dorsale. Meno male che la gioranata stava finendo.
Quella sera il traffico era più convulso del solito e giunsi a sera inoltrata. Prima di entrare lanciai nuovamente un'occhiata al piano superiore, ma niente pareva essere cambiato. Molto cautamente girai la chiave ed entrai con passo felpato. Tutto esattamente come prima. Lentamente salii la scala : nulla di che preoccuparsi.
Non avevo voglia di cenare ma di pensare. Presi del prosciutto e del formaggio e lo misi con noncuranza nel pane. Certo, il fatto di vivere proprio qui era stato coraggioso da parte mia ma purtroppo il denaro condiziona le scelte. Dovevo acquistare quanto prima un televisore, almeno mi sarei distratta. Mi alzai senza aver gustato il sandwich e rivolsi lo sguardo oltre la finestra. Immobilità e null'altro. Quanto avrei voluto al più presto un inquilino, poichè quell'isolamento stava cominciando a minare la mia pazienza. Non avevo ancora finito di tormentarmi mentalmente quando l'ennesimo suono irruppe nella stanza. Anzi due.
Il primo sembrava un passo, l'altro un tonfo. Stavolta ero decisa che avrei dovuto scoprire qualcosa, altrimenti non avrei potuto sopportare per molto la situazione. Ripresi la scala e guardai di nuovo al piano di sopra. Il silenzio all'interno era impressionante e ogni cosa era rimasta come l'avevo vista. Feci il giro del palazzo senza vedere alcunché. Tornai dentro ed entrai nella stanza.
Nessun segno di vita. Eppure quei rumori erano reali. Tante idee ora mi ronzavano per la testa e mi dovetti sedere per non perdere l'equilibrio. Ma prima ancora della mente dovevo calmare lo spirito e preparai una tisana. Mi sedetti di nuovo e fissai il pavimento. Dopo qualche sorso, distrattamente lascia cadere del liquido su di esso. Mi piegai per vedere l'entità dello spargimento e con meraviglia notai che era più asciutto di quanto sarebbe dovuto essere. Avvicinandomi ulteriormente vidi nettamente che una goccia veniva risucchiata da una fenditura del pavimento. "Non dovrebbe", pensai. Questo voleva dire che era instabile e marcescente. Ma allora... ricordai di aver visto un grosso martello sotto al lavandino insieme ad alcuni flaconi di detersivo. Lo presi e iniziai a battere con tutta la forza delle braccia su quella porzione di mattonelle. Uno, due, tre, quattro, cinque tentativi sino a che non si aprì un buco! Com mio grande stupore i calcinacci sembravano precipitare ben al di sotto del terreno... a costo di creare una voragine dovevo sapere cosa v'era là dentro. Diedi un numero impressionante di martellate riuscendo a formare un varco di circa un metro. Capii che sarei potuta passare. Feci un ampio respiro e vi penetrai. Caddi da un'altezza di un metro e mezzo in una specie di scantinato comnpletamente buio. L'umidità era piuttosto alta, tanto che dovetti sfregare le mani sulle braccia. Ma che posto era quello? Non avevo mai notato entrate di alcun genere che facessero pensare ad un luogo sotterraneo. Andai alla ricerca di una fonte di luce. Apparentemente di interruttori non ve n'erano. Annaspai nel buio e toccai il corpo metallico di una torcia. La posizionai dritta davanti a me e accesi. Ciò che si presentò ai miei occhi era di uno sconvolgente raccapriccio. Un numero imprecisato di ratti stavano mordendo un asse di legno irto di chiodi arrugginiti. Sparsi per terra alcuni pezzi di pane raffermo e delle pozze di urina dall'odore pungente e nauseabondo. Girai il polso ed il fascio di luce si fermò su un tavolo sbrecciato e divorato dalle tarme e sul quale v'erano degli oggetti che non potevo
vedere con precisione. Mi avvicinai e piano piano questi ultimi divennero più nitidi... ma non si trattava di oggetti o cibo. Parevano... delle parti anatomiche! Una mano, un piede, una lingua e persino quello che era rimasto di un fallo! Il respiro mi si arrestò di colpo, le pupille si dilatarono selvaggiamente, un irrigidità cadaverica mi divorò le ossa... il vomito inondò la mia gola che rigettai in vari schizzi su scarpe, muro e pavimento. La testa oscillava vorticosamente ed andai a sbattere di schiena contro la parete provvista dell'interruttore che non trovavo. La luce abbagliò tutto nel suo orrore: rivoli di sangue ovunque, materia grigia formava pozzanghere sul suolo, e poi occhi, capelli, intestina e persino uno scalpo con il volto riverso sul pavimento. Una vera e propria mattanza si era consumata sotto le assi del mio appartamento a mia totale insaputa! Avevo ingenuamente creduto che i rumori provenissero da una fonte certa, il secondo piano, mentre tutto avveniva sotto i miei piedi... Ormai ero troppo sconvolta per avere padronanza sulle mie azioni ma la disperazione mi diede la forza di tastare il alto alla ricerca dello squarcio che avevo creato. Dovevo essermi spostata di molto perchè nonostante diversi tentativi, non lo trovai. Andai furiosamente avanti e indietro ma per quanto mi dimenassi non ottenni risultati. Mi sentivo come una sepolta viva che tentava inutilmente di aprire il cofano della propria bara... feci ancora alcuni convulsi passi all'indietro quando scivolai da alcuni gradini materializzatisi non so dove all'interno di quell'inferno. Sbattei con violenza la coscia destra e la clavicola. Ero dolorante dai piedi alle spalle e mi misi a strisciare come una larva. Avevo fatto così qualche centimetro fino a quando le mie dita trovarono una pesante catena di ferro.
La toccai ripetutamente in lunghezza quando mi accorsi che c'era qualcosa... era un braccio... non so in che modo ebbi la forza di guardare dinanzi a me... un bambino più morto che vivo stava raggomitolato in posizione fetale e perdeva copiosamente sangue... aveva un piede maciullato, l'osso del femore gli perforava le carni, le unghie erano strappate, l'arcata dentaria superiore in parte asportata e un occhio gli pendeva dalla guancia... poteva trattarsi del bambino del giornale scomparso nel nulla pochi giorni fa... iniziai una fuga disperata ma il panico annebbiava il mio orientamento... i muri sembravano inghiottirmi e improvvisamente un'ombra oblunga si stagliò sulla parete. Mi girai di scatto e vidi un essere deforme avvolto in un mantello nero, la testa era insolitamente allungata, la fronte rugosa, il taglio degli occhi assimmetrico e irregolare, le dita lunghe e bianchissime, le orecchie rotonde e minuscole... veniva verso di me con una mannaia. Il bambino iniziò a gemere. Non potevo muovermi, la mente e i muscoli non rispondevano. Senza volerlo attendevo la morte. Il destino però, è un grande mistero e si manifesta nella sua imprevedibilità in qualsiasi momento, anche in quei terribili e infiniti secondi... la mannaia si alzò ma il suo corpo cadde per via della testa mozzata vista poco prima. L'arma premette contro il petto del mostro che dopo un breve ma acutissimo rantolo si irrigidì e rimase immobile.
Un lago di liquido sgorgò intenso dal torace di quell'osceno "individuo". Le mie membra si erano parzialmente sbloccate e notai una cosa che non avevo visto a causa del mio stato di angoscia. Uno stretto cunicolo si trovava dietro il tavolo... forse una via d'uscita... Tremante e in preda a un forte giramento di capo mi infilai nel pertugio. Percorsi circa ottanta metri e mi ritrovai sotto una botola di mattoni. La sollevai e ritornai al mondo conosciuto e, scherzo della sorte, a pochi centimetri da dove avevo posto la scala al momento della perlustrazione. Vagai in stato confusionale per una strada di campagna quando raggiunsi una cascina. Mi feci aprire da una donna di mezz'età intenta a preparare la cena e chiesi un telefono. Sorpresa ma gentile mi autorizzò a usarlo.
"Pronto, è la polizia?" gridai, anche se la voce mi usciva a stento.
"Posso aiutarla?"
"Lei non mi crederà, ma un essere ha fatto una carneficina sotto lo scantinato della mia casa".
"Un essere, intende dire una persona?"
"No, Signore, non un essere umano...".
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- questo racconto mi ha messo ansia! non paura, ne disgusto ma una profonda angoscia. Brava!
- Il racconto è ben strutturato. Il lettore è intrappolato in una storia ansiogena con un crescendo progressivo accentuato dal fattore "solitudine". La protagonista infatti è quasi sempre sola e da sola si pone domande ed agisce per trovare risposte. Quando non lo è più, il lettore, che con lei si identifica, si chiede in preda all'orrore se mai troverà una via di uscita...
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