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Una storia d'amore
I. LUI
Chi è scrittore non è mai solamente scrittore, è sempre prima di tutto qualcos’altro e, poi, anche scrittore.
Così lui.
Innanzitutto era un avvocato e, poi, era uno scrittore. Lui adorava il proprio mestiere, lo divertiva, e riteneva che fosse il modo migliore per tenere in esercizio la mente. Voleva morire pensando. Voleva morire tra molti, molti anni, non subito.
Come scrittore si sopravvalutava.
In fondo non aveva mai scritto niente di importante, solo qualche raccontino che era piaciuto agli amici. Ebbene era al punto schiavo del proprio (presunto) talento che stentava sempre a scrivere per il timore di non essere all’altezza dei precedenti scritti, e di arrecare danno al consenso, sia pure ristretto, che aveva raggiunto.
Pensava che non avrebbe mai scritto un romanzo, per quel suo stramaledetto amore per la brevità che l’avrebbe condannato, pensava, a scrivere per sempre degli inutili raccontini.
Stava anche quella sera con la penna in mano. Senza sapere cosa scrivere, guardava fuori dalla finestra del suo studiolo di casa. Una vista mozzafiato, acquistata, pensò, grazie alla sua abilità di avvocato, non certo alla sua bravura di scrittore romantico.
Ma in fondo passava il tempo, nel lavoro e nel suo hobby, a fare la stessa cosa: raccogliere i propri pensieri e non lasciare che andassero persi al vento, ma tendere con essi mirabili archi di parole. La gioia e il brivido che lo pervadevano quando faceva questo, sia che fosse sul lavoro, sia che stesse scrivendo un raccontino, diedero un senso a molti attimi della sua vita.
Stava ragionando su questa cosa, e sul concetto di utilità dei pensieri e delle parole; batteva delicatamente con l’indice della mano sinistra sulla parte superiore del sigaro (che eccezionalmente quella sera aveva anche acceso, essendo abituato viceversa a tenerlo spento tra le dita) e, mentre osservava la cenere cadere come al rallentatore, in quel preciso istante, inspiegabilmente, gli venne in mente lei.
Gli veniva sempre in testa improvvisamente e senza un plausibile, giustificato motivo.
Quella volta, la vide aggirarsi per casa, come l’aveva vista mille volte, forse più: scalza, vestita solamente della camicia bianca che lui aveva indossata in quella giornata di lavoro e che non aveva messa subito a lavare, ma aveva posata sull’unica sedia della loro camera da letto.
Questo, in effetti, non era propriamente un pensiero, non un parto originale della propria mente, ma piuttosto un ricordo, per giunta già ricordato e pensato altre volte.
All’improvviso la sua mente andò al giorno in cui si erano incontrati e non vi fu ragione perché questo pensiero dovesse seguire quell’altro. L’idea dei pensieri che si susseguivano nella sua mente senza una connessone logica lo faceva ammattire.
Si erano incontrati ad una festa per beneficenza in un grande locale militare. Erano due sfere lontanissime, Dio solo sa perché mai dovevano incontrarsi e perché mai proprio quella sera a quella festa.
Gli andava di continuare a ricordare…..
Ad un certo punto, tutti ubriachi, misero su una gara di tango e le coppie si formarono rapidamente. E, mentre il d. j. metteva miracolosamente sul piatto un vecchio vinile di tango d’annata, lui invitò lei, solamente perché era la più vicina ed era troppo ubriaco per andare a cercare una ragazza più lontana.
Lui assunse una postura fin toppo eretta e, mentre lei, certo non sobria, non riusciva a smettere di ridere, la cinse delicatamente in vita col dorso della sua mano, l’indice elegantemente allungato. Con fare ironico la fissò negli occhi come se volesse prendersi per un attimo sul serio.
Lei, anche se ubriaca, colse l’ironia ma quel gesto, così delicato, e quello sguardo, così profondo, le seccarono il sangue nelle vene.
Erano ubriachi fradici tutti e due, e, dopo poco, presero a baciarsi, senza essersi neanche presentati, senza essersi neanche rivolta una parola. Non c’era un solo ragazzo sobrio a quella festa in quel momento, non uno che, a quel punto, non si accompagnasse ad una ragazza.
Vi fu allora un disordinato scambio di coppie ed il migliore amico di lui (erano stati compagni di banco al liceo) gli strappò lei e prese a ballarci ed a baciarla a sua volta.
Lei non smetteva un attimo di ridere e già aveva dimenticata la sensazione provata pochi istanti prima.
Questo ricordo venne interrotto bruscamente dal suono del citofono. Egli si alzò ed andò a rispondere: nessuno, dalla strada solo il rumore delle poche macchine che passavano a quell’ora tarda della notte.
Era ormai quasi mezzanotte ed abbandonò definitivamente l’idea di scrivere quella sera e, versandosi un po’ di vodka in un bicchiere, decise di accendersi un altro sigaro e continuare a ricordare.
Ora la luce dello studiolo era spenta e la vista sulla città era ancora più suggestiva che di giorno.
La sua mente andò ad una sera che, studenti universitari già fidanzati da due anni, lui e lei si ritrovarono in macchina sotto casa di lei, a parlare. Era una serata uguale a tante altre.
Discutevano, diciamo pure che bisticciavano, e lui ricordò che in quei momenti pensava sempre che lei aveva un modo violento di discutere, spropositato. Vi era un’ombra di violenza nel suo viso, quando lei si accendeva per qualche problema che vi era fra loro.
Gli rimproverava di stare troppo spesso per i fatti suoi anche quand’era con altre persone. Gli rimproverava quella sua aria supponente e di superiorità che aveva quando interveniva saltuariamente in una discussione di gruppo.
Gli rimproverava tante cose, in quelle serate passate in macchina, e lo faceva urlando.
Il fatto che lui non amasse stare al centro dell’attenzione quand’era con gli altri non l’avrebbe infastidita più di tanto se non per il fatto che a lui piaceva l’idea che, al centro dell’attenzione, egli poteva starci quando voleva. Lei lo detestava realmente per quel suo maledetto talento di risparmiarsi e di catturare l’attenzione di tutti con un semplice gesto, un semplice sguardo o un semplice sorriso.
Le sue brevi frasi non erano mai banali, mai.
Si metteva sempre un gradino sopra gli altri, gli rimproverava, e anche sopra di lei.
Lui ricordò di non aver mai avuto interesse a difendersi da queste accuse: egli pensava di essere realmente un gradino sopra gli altri e non vedeva per quale ragione avrebbe dovuto dissimularlo!
Ma in quelle discussioni, per non soccombere davanti alla violenza di lei, doveva contrapporre tutta l’acidità e la cattiveria di cui era capace.
Le cose più cattive gliele diceva sottovoce, quasi all’orecchio. E finiva sempre che lei, piangendo, lo colpiva in testa con delle innocue manate finché lui non la calmava accarezzandola e urlandole che l’amava.
È così che, finalmente, lui scendeva al suo livello e quasi sempre, dopo, si baciavano e facevano l’amore su da lei, se non c’erano i suoi.
Pensò di aver ricordato quelle serate centinaia di volte e sempre nello stesso modo. E provò noia, ma solo quando fece quest’ulteriore pensiero, non mentre ricordava.
Era ormai l’una di notte e andò a letto stanco di pensare e stanco di ricordare e con un gran sonno.
II. PENSIERI DI LEI
È appena tre mesi che ci siamo lasciati e penso già alla nostra storia come a qualcosa di lontanissimo nel tempo.
Non torneremo mai insieme, ne sono certa. Quando ci siamo fidanzati, cinque anni fa, ero sicura che sarebbe stato per sempre, per l’eternità. Mi sono sbagliata. Ora sono certa che non torneremo insieme, ma questa volta sono anche sicura di non sbagliarmi.
Perché ci siamo lasciati?
Maledizione, in questi tre mesi mi sono posta questa domanda un centinaio di volte ed ogni volta brancolo nel buio.
Ogni tanto ho la tentazione di scrivergli una lettera: gli farei un sacco di domande alle quali non saprebbe rispondere. Certo mi risponderebbe con una lettera bellissima per far sembrare la mia più brutta di quello che è realmente, ma non mi darebbe alcuna risposta.
Ho sempre provato molto disagio a scrivergli. L’ho fatto solo quando è morta sua madre e quando lui mi ha tradita e poi me lo ha confessato. Entrambe le volte le mie parole, dette solamente, non gli si sarebbero scolpite nel cuore come io volevo.
Mille altre volte avrei voluto scrivergli una lettera, ma l’immagine di lui che l’avrebbe letta mi terrorizzava. Un avvocato, uno scrittore che legge una lettera di un architetto, di un’arredatrice pensa: “ Che ne capisce questa di lettere, di pensieri, di parole, di sentimenti veri? ”.
Una volta mi disse che sono meschinamente donna, in ogni mia manifestazione, che mai mi sono sentita appartenente al genere degli esseri umani, ma sempre, solamente ed innanzitutto donna. C’era tutto il suo disprezzo per me in quella frase. Credo che lui mi abbia amata, ma credo anche che mi abbia più spesso disprezzata. Più spesso e più volentieri.
Mi ha dette, tante volte, delle cattiverie di cui ancora oggi non capisco il significato. Credo che di alcune non lo capisse neanche lui. Certe volte era solo preso dal suo bel parlare.
È la persona più presuntuosa che abbia mai conosciuta. In certi momenti la più detestabile ed ottusa.
……A questo punto c’è una fase di non pensiero di lei.
Poi…..
Mi chiedo se mi manca. La risposta credo sia che in questi tre mesi lui mi è mancato come l’aria. Mi chiedo se, dopo aver abbandonato la mia vita, abbandonerà mai anche il mio cervello. In questi tre mesi non ha lasciato spazio ad altri pensieri. Adesso ho come la sensazione che non cambierà mai niente nella mia testa. Morirò perché non riuscirò a pensare alle cose a cui è necessario pensare, perché lui impegna tutta la capacità delle mie cellule nervose. La sua immagine, il suo odore, la sua voce, il modo che aveva di guardarmi, occupano con arrogante invadenza tutta me stessa e mi svuotano della voglia di vivere.
III. LEI
Lei era bellissima.
Le sue labbra e i suoi capelli, oggettivamente, potevano andare in giro da soli, senza tutto il resto. Senza persino quel suo modo di sorridere improvviso che poteva cambiare il mondo. Glielo aveva detto spesso, lui, perché ci credeva: quel suo modo di sorridere poteva realmente cambiare il mondo.
La sua bellezza cancellava gli altri suoi talenti.
Era un architetto " arredatrice giovane e già molto affermata.
Era brillante: qualsiasi cosa facesse la faceva maledettamente bene ed era talmente simpatica a tutti che la sua assenza non passava mai inosservata.
È inutile dilungarsi su di lei perché è difficile spiegare che effetto facesse sulla gente, sulle persone. Qualche volta l’unico a non accorgersene era proprio lui che l’aveva, tante volte, tutta per sé.
IV. LUI E LEI
Le cose cominciarono ad andare male quando lei andò a vivere da lui. Stavano insieme da quattro anni, e solo da uno lui viveva da solo.
Troppo poco! Lui era fatto per vivere da solo e quella nuova presenza gli dava l’idea che gli rubassero una grossa fetta della libertà appena conquistata.
Lui era un tipo strano. Chissà quanti avrebbero voluto essere al suo posto e vedere tutti i giorni quell’angelo aggirarsi per casa; quanti avrebbero voluto svegliarsi al suo posto tutte le mattine per vedere quel sorriso a pochi centimetri di distanza.
TUTTE LE MATTINE……QUEL SORRISO….. A POCHI CENTIMETRI DI DISTANZA.
Lei tutte le mattine gli sorrideva sempre nello stesso modo, come dire: “Buongiorno, eccomi qui, sono la tua vita!”. Lui provava gioia e terrore tutte le mattine.
Per certi versi lei era la luce e lui ne rimaneva spesso abbagliato, talvolta persino infastidito.
Amavano entrambi la notte. Amavano entrambi il cinema e la musica. Avevano molte cose in comune, eppure certe volte la distanza tra loro era incolmabile.
Sembravano fatti l’uno per l’altra, eppure si lasciarono. Quando lo fecero, gli amici, le persone, tutti erano increduli, tristi e pieni di una strana rabbia.
Lui era un essere senza pelle. Cioè era senza protezione, senza filtro: tutto lo colpiva in modo gigantesco e tutto ciò che gli passava per la testa doveva dirlo.
Lei non lo guarì da questa strana malattia. Al contrario anche lei era sempre di una schiettezza disarmante, era sempre incredibilmente diretta. Talvolta dolorosamente diretta.
Era ovvio che due esseri così, tirando sempre così forte, giocando sempre così alto, prima o poi, dopo essersi presi per mano laddove nessuno prima era mai arrivato, un giorno o l’altro si sarebbero fatti molto male.
Due bombe ad orologeria, pronte ad esplodere nello stesso istante, per non uccidersi potevano solamente lasciarsi.
Ecco perché si lasciarono.
V. UN FLASHBACK: IL TRADIMENTO.
“Ti ho tradita”. Lei seppe in un istante, dal modo in cui la guardava, che non stava scherzando.
Perché? E soprattutto: perché glielo diceva? Per quel suo stramaledetto vizio di dire tutto ciò che gli passava per la testa? Perché non si erano mai mentiti e se non l’avesse fatto sarebbe volata presto la prima bugia e poi chissà quante altre?
Le venne un groppo in gola, qualcosa di indescrivibile nello stomaco. Le venne voglia di vomitare, un malessere mai provato prima. Si sentì morire.
Erano in macchina, la sera, come sempre. Lei non sapeva cosa fare: se tirargli le solite manate in testa oppure scendere da quella macchina una volta per tutte, sicuramente sbattendo lo sportello.
Era la prima volta in vita sua che lei non sapeva cosa fare, nel senso che proprio non sapeva determinare alcun suo movimento di lì ai prossimi secondi. Come se il suo corpo improvvisamente si fosse come staccato completamente dal suo cervello. Fu la sensazione più brutta che avesse mai provato.
Ed ecco accadere qualcosa di incredibile. Ella, questa volta, diversamente che in tante situazioni decisamente meno gravi, fu calma e razionale: “È stato un fatto isolato o la cosa continua?”. Lui, un po’ spiazzato, balbettò: “ C’è stata un’altra, ma la cosa è chiusa ”.
A questo punto gli occhi di lei si riempirono di lacrime e decise che si sarebbe arrabbiata un’altra volta, in un’altra vita, forse. In un’altra vita, forse, gli avrebbe chiesto i dettagli e l’avrebbe ammazzato di colpi. E l’avrebbe lasciato.
Ma in quel momento non le rimase altro da fare che protendersi verso di lui e lasciare andare la sua testa sulle sue gambe per farsi accarezzare i capelli e consolare…. accarezzare i capelli e consolare ancora.
Mentre lei soffocava i singhiozzi sulle sue gambe lui le accarezzo i capelli pensando che non l’avrebbe mai lasciata.
Poi pensò a lei per quel che era realmente in quel momento: la donna più forte del mondo.
Poi un pensiero già pensato altre volte, ma questa volta con in più la consapevolezza di pensare la verità: lei era, oggettivamente, la donna più bella che aveva mai visto ed, oggettivamente, la persona più fantastica che aveva mai incontrato. Questa era la sua ragazza. “Non la lascerò mai!”, pensò di nuovo.
Di quel tradimento mai nessun’altra parola fu detta tra loro. Solo la lettera di lei a lui. Lei non gli chiese MAI NIENTE.
VI. LETTERA DI LEI A SE STESSA
Carissima,
è da quando ho letto “Bambino bruciato” di Dagerman che avevo in mente di scriverti. Mi era piaciuta talmente l’idea che, dopo aver letto quello splendido romanzo mi convinsi che avrei fatto presto quell’esercizio.
Sto malissimo!
Le mie amiche mi dicono che, in questi casi, all’inizio si è confusi ma, invece, a me sembra di avere già realizzato tutto.
Tutto mi è già così chiaro che, di conseguenza, non mi sarà possibile soffrire di più.
Ti devo confessare che non credevo che si potesse soffrire tanto. La mia soglia del dolore stava molto più in basso e, questa volta, è stata superata di così tanto che non ero preparata. Un dolore interiore talmente intenso da diventare fisico, permanentemente fisico.
Tu sai cosa si prova ad essere tradite: ecco devi moltiplicare quella sofferenza per mille e, allora, potrai capire.
L’essermi lasciata col mio ragazzo non significa per me solamente…….. essermi lasciata col mio ragazzo. È una sensazione (che non mi ha abbandonato un solo istante in questi tre mesi) simile al vedere crollare un immenso, gigantesco castello di carte che tu hai costruito durante tutta la tua vita.
È come se quelle carte le avessi messe insieme, non da quando ti sei fidanzata, ma da quando sei nata. Vedi crollare un castello di carte grande quanto il più alto grattacielo del mondo, sapendo che ti ci vorranno altrettanti anni della tua vita, se mai riuscirai ad iniziarlo nuovamente.
Lo vedi crollare sapendo che per te quel castello di carte non era un mero gioco o un passatempo. Era ciò a cui avevi dedicato la vita. Non era semplicemente una cosa importante e basta ma era un recipiente dove avevi versato tutte le tue energie mentali, tutti i tuoi sentimenti, tutta te stessa.
Ed ora non c’è più nulla.
Avevo pensato la mia vita futura con lui. Si può rubare ad una persona il futuro? E come dovrebbe sentirsi la persona alla quale hanno rubato il futuro?
Dov’è finita la mia vita? Dove il mio futuro?
Dove sono tutti i miei pensieri, i miei sguardi, le mie lacrime, i miei sorrisi? Dimmi tu, che mi sei così vicina, dove li hanno messi.
Che fine hanno fatto tutte le mie attenzioni per parare i venti che avrebbero fatto crollare quel castello di carte molto prima?
Dove sono finita io?
Chi sono io? Maledizione, chi sono?
Se tu, carissima, rispondessi anche solo ad una delle mie domande, mi faresti forse pensare di avere un’amica e di poter continuare a vivere. Ora io questo non lo penso, ho solo voglia di morire, così oggi mi sento.
Con affetto (ma non so quanto).
Lei
VII. PUNTI DI VISTA: LA STANZA DAGLI OCCHI DI LUI E LA VITA, ORA, DALLA SUA MENTE
La cenere cade lentamente. Cade in quella scatolina, in legno, di sigari che io uso come posacenere. Sento che vedrò la cenere cadere sempre più lentamente dal mio Balmoral stasera.
Sposto il mio sguardo sulla foto anticata che ho incorniciato e messo sulla mia scrivania, qui, nel mio studiolo di casa.
Non vedo perché ad ogni mio sguardo qua dentro debba seguire un pensiero, ma questo accade.
Nella foto c’è lei, senza di me, col suo sorriso e nient’altro.
Non ho mai voluto esporre una sua foto, ma quando ci siamo lasciati, mi sembra addirittura il giorno stesso, l’ho fatto.
È giusto che ora la pensi così: senza di me. Quell’immagine, dove poggio i miei occhi, sale da essi alla mia testa come un flusso continuo che mi brucia i nervi.
Guardo lo spigolo perfetto della mia scrivania e penso che non so perché ci siamo lasciati. Spero che lei non me lo chieda mai.
Forse dovrei mettere sulla scrivania una mia foto da solo. A questo forse sarebbe meglio pensare d’ora in poi. È chiaro che devo pensare alla mia vita, ora, e a me. È sensato.
Ma il fatto di non pensare che a lei mi rende tutto più difficile.
La sua bellezza, quella della foto, è ciò che non uscirà mai dalla mia testa, è certo.
È il desiderio di rivederla che mi farà andare nei posti di questa piccola città, non il desiderio di riascoltarla. Eppure so che non troverò mai una persona migliore. Ma è l’immagine di lei, è tutto ciò che i miei occhi hanno visto di lei la cosa che mi è mancata di più in questi tre mesi. Questo è ciò che mi mancherà per sempre.
Io posso fare a meno di lei, i miei occhi no.
Ora essi si posano, in modo largo, su tutti i libri che mi circondano in questo studiolo: libri di diritto e romanzi di scrittori del nord-europa.
Non scriverò mai un romanzo d’amore perché esso è fantasia e tutti vogliono il lieto fine ed io non riuscirò mai a pensare un amore, senza averlo vissuto, e a non ucciderlo. Ma se ci riuscirò, se mai riuscirò a scrivere un romanzo o perlomeno un racconto un po’ più lungo del solito, lo infarcirò di elementi autobiografici per far credere al lettore che il personaggio principale poi altri non è che me stesso. Ma si accorgerà, alla fine del libro, di essere stato ingannato. Ho sempre provato un sottile piacere ad ingannare la gente sul mio conto, non posso negarlo.
Penso a me ora e penso a quello che ho sempre pensato e cioè che temo che un giorno o l’altro potrei anche uccidermi.
Non lo voglio e credo che non lo vorrò mai, ma ho paura che un giorno i miei ragionamenti a sostegno di quel gesto definitivo si facciano così stringenti e perfetti da non potermi sottrarre dal farlo. Se dovessi malauguratamente convincermi della giustezza di quella scelta sarebbe la fine.
Per fortuna ritengo che uccidersi sia materialmente molto difficile da farsi.
Ora guardo di nuovo lei in quella foto. La guarderò fino ad addormentarmi, così poi la sognerò.
VIII. UN SOGNO DI LUI
È così che lui si assopì su quella poltrona con un lieve sorriso sulle labbra, un sorriso amaro. È così che lui si trovò a sognare, per la prima volta, in un posto diverso dal suo letto.
Fece un sogno strano, difficile da raccontare.
Sognò di entrare in una grande chiesa in stile gotico. Aperto a fatica l’enorme portale, spingendolo contemporaneamente con la spalla sinistra e la mano destra, ne percorse a passi lentissimi la navata centrale tra due file di banchi perfettamente allineati.
Dappertutto, sui banchi, sui pilastri, in terra, sin sull’altare vi erano delle piccole fiammelle, accese su dei piccolissimi supporti. Ci saranno state almeno un milione di luci in "quella chiesa.
Arrivato all’altare, lui, scioccato dallo scenario, potè scorgere la sagoma di lei riversa per terra in una pozza di sangue, una pistola stretta in mano.
Lui, a quella vista, cadde in ginocchio su di lei ed iniziò a piangere come un bambino, urlandole di svegliarsi e che lui non poteva fare a meno di lei e che non voleva perderla per nessuna ragione al mondo.
Dopo aver tentato inutilmente di rianimarla, la tirò su col braccio sinistro e con la mano destra prese una delle luci che stavano ovunque nella chiesa e la ingerì. Così si diede la morte.
A questo punto gli occhi di lei si aprirono e qui finì il sogno perché quando lei sbatté le ciglia nel sogno, altrettanto fece lui nella realtà, svegliandosi.
Lui ebbe una sensazione del sogno come di un dejà vu. Forse una scena di un film visto o di un libro letto.
Si risolse ad alzarsi dalla poltrona ed a mettersi a letto.
IX. UN SOGNO DI LEI
Nello stesso istante in cui lui si era assopito in poltrona ed aveva poi sognato la chiesa con le tante luci, lei si addormentò nel proprio letto. Sognò molti sogni, quella notte, finché, a sua volta, sognò una chiesa. Ma il suo non fu un sogno di morte, ma di vita: la scena di un matrimonio.
Una chiesa grande, luminosissima, ma di una luce diurna, solare, da respirare come aria fresca. Lei si sognò avanzare verso l’altare accompagnata da suo padre e da una musica bellissima ed avvolta nel più classico degli abiti bianchi da sposa, con un grande, quasi irreale strascico dietro.
Davanti al sacerdote già l’attendeva il suo sposo in un impeccabile grigio antracite.
Lei era bellissima e sorridente finché non vide che il volto di lui era coperto da uno stranissimo velo, pur esso grigio.
Lei cominciò a tremare, sia nel sogno, sia nella realtà del suo letto, al buio della sua stanza. Tremante, sorridente ancora, ma d’un sorriso incerto, afferrò delicatamente il velo dello sposo e lo sollevò. Con immenso stupore non vide colui che si aspettava, cioè lui, ma un’altra persona, un altro lui.
Lo stupore fece presto spazio in lei ad una sensazione di serenità che la stupì ancor di più: era felice di vedere quel volto.
A questo punto, era mattina, suonò la sveglia ed il sogno si interruppe.
X. LA LUCE
Lei si alzò con quella stessa sensazione di serenità che aveva provato sul finire del sogno. Fu stupita di questo: era la prima volta dopo tre mesi che provava una sensazione del genere.
Sollevò la serranda della finestra della cucina e vide che il tempo, quella mattina, non era poi così male.
Era molto presto e mentre beveva un caffè squillò il telefono. Era lui. Non c’era bisogno di rispondere per saperlo, era sempre stato uno squillo diverso dagli altri. Le si gelò il sangue, ma per un solo istante. Arrestò i pensieri, fermò tutta se stessa per un momento.
Poi, dopo alcuni centesimi di secondo, fu come riprendere vita. Con un lieve sorriso sulle labbra finì di sorseggiare il suo caffè, si accese una sigaretta e si affacciò alla finestra.
E, mentre il telefono continuava a squillare, lei fissò il cielo che, per la prima volta dopo tre mesi, non era più, come in quella canzone che le piaceva tanto, “snobbato dagli angeli e volato da avvoltoi”.
Il telefono squillava, gli occhi di lei ora erano pieni di lacrime ed il suo sorriso raggiante.
Portò la sigaretta alla bocca, tirò e, dopo aver aspirato, soffiò una piccola nuvola di fumo verso il cielo.
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