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Sogno Spento - Spento Sogno
La porta si chiuse con un sonoro tonfo alle sue spalle.
"La porta!"
Gli urlò da dietro le pesanti lastre di vetro opacizzato una voce.
"Al diavolo, te e la porta" pensò lui, alzando la mano in cenno di informale scusa verso il provenire delle monotone grida.
O forse questa volta l'aveva proferito ad alta voce? Poco gli importava, ormai era consuetudine quella maledetta corrente, e i suoi momentanei scatti di nervi trovavano sbocco in maniere che non potevano non venire notate, un insulto sarebbe stato il minimo da aspettarsi. Lo sapevano, pensava.
"Quindi, me ne fotto" pensava.
Di sicuro lo sapevano, non poteva essere altrimenti, che lui, ora, da fuori quella porta, si era appena svegliato. Che le loro voci, da familiari stress passavano a un mormorio convulso di ronzante gente, come quella che incroci per strada, non udibili se non facendoci attentamente caso, come per impicciarsi di faccende altrui non importanti e che non sono minimamente rivolte a te. Forse, al massimo, da voltarsi e incrociare con gli occhi quella persona che le ha pronunciate e accorgersi in silenzio che non sono interessanti quanto credevi. Voci da voltarsi e continuare per la propria strada.
Si accese una sigaretta, guardando su un davanzale una foglia secca che rotolava e volava via. E il vento che gli impediva di accendere l'accendino al primo sfregamento, sapeva di bagnato e di buongiorno.
Faceva freddo, era pomeriggio tardo, ma era un bel pomeriggio in cui non aveva niente da fare.
Era divincolato dai normali impegni quali ognuno è costretto a sopperire, ogni giorno, per un pomeriggio. Lasciandosi alle spalle la porta e le preoccupazioni, aveva dinnanzi a se qualche ora senza pensieri; la macchina l'aveva appena ritirata dal meccanico ed era perfetta, a casa sua non c'erano lavori urgenti di riordino e pulizia, pratiche da sbrigare, commissioni, appuntamenti.. niente. Ne di buono, ne di cattivo.
Da poco, era libero da quella gabbia che chiamiamo vita.
In tangenziale, passato il casello - ultima sua spesa di oggi - sorridente accese la radio mantenendosi nella corsia centrale, aveva sete delle due ore di casa, che ogni giorno si concedeva per riprendersi dal lungo sonno. Un caffè, per iniziare, poi magari avrebbe letto mentre fumava sul balcone aspettando l'ora di cena, stringendosi in una coperta. E poi, dopo mangiato, una birra sarebbe stata sorseggiata davanti a un film, o a qualche cosa che tenesse poco attiva la mente. Pensare, pensare troppo era riservato a quelle ore che lo tenevano cosciente, durante il tempo passato a compiere esattamente gli stessi movimenti giorno per giorno, che gli facevano accorgere di quanto la sua vita fosse mortalmente priva di soddisfazione, di quanto inesorabile si stesse avvicinando quell'età abbastanza vicina per pentirsene, sentendosi da anni come sotto un complotto ordito da invisibili destini che intrecciandosi convergevano con la forza di un treno su di lui, impotente, al centro. Nel pieno del suo peggior incubo.
Una multa, le bollette, le donne e il capo, il bar e le vacanze, la barba e l'orologio, tutti insieme giocati divinamente per far perdere la veglia. Ma adesso, adesso no. Era per lui tempo per sé, tempo per svegliarsi.
Sorrise nuovamente, e premette l'acceleratore prendendo velocità, schivando camion con sorpassi azzardati. Era abbastanza coraggioso da raggiungere i pazzi davanti a lui?
"Vieni, andiamo a riscuotere"
Attraversammo la strada.
"Sei sicuro sia questo il posto?" domandai stupito, osservando l'edificio verso il quale si dirigeva il mio compagno.
A forma di guglia, le sue mattonelle di argilla modellavano quello che, a metà tra un tempio e una discoteca, era la costruzione più strana che io avessi mai visto.
"Tranquilla."
Oh, ma sono una donna!
Entrammo allora attraverso la vasta arcata, e l'interno mi lasciò ancora più stupito. Stupita, pardon.
Bancarelle di legno coperte di stracci si sgomitavano il perimetro del salone principale, stonando con le luci lampeggianti e le colonne colorate, sfarzosissime rispetto alla loro miseria, pur se percorsa da un pregiato tappeto rosso.
Mi sedetti su un tavolino circolare, leggermente distante dal mio compagno.
Come al solito, era nel mio stile lasciare a lui le parole, e a me i fatti.
Intanto, lui confabulava animatamente con un individuo dalla folta barba bianca, che a vedersi ricordava un guru cinese o qualcosa del genere. In effetti, dalla sua veste celeste larga e cosparsa di ricami dorati, si sarebbe detto ne potessero uscire tutti i segreti del mondo. Dopo poco, senza il bisogno del mio intervento, con ampi gesti e profondi inchini lo vidi allontanarsi, e il mio compagno tornò molto soddisfatto con il bottino che tanto aveva bramato stretto nel pugno. Un walkman.
Delusa, per aver capito quanto erano insulsi i suoi capricci che mi avevano costretta a seguirlo fin lì. Incazzata, perché comunque io non avevo ricevuto ancora niente, balzai su quel tavolino e, scavalcando le bancarelle piene di mercanti terrorizzati, piantai il mio pugnale sul muro affianco al vecchio guru-cinese.
"E a me, niente?" gli urlai con gli occhi rossi di fuoco.
"Siediti, e qualcosa per te arriverà"
Mi fece cenno di accomodarmi in una sala circolare, che prima non avevo notato, posta a sud della prima. Arrivata, non scorsi mercanti ne bancarelle, ai suoi lati. Meglio, iniziavano a darmi sui nervi.
C'era un tavolino, posto al centro, identico a quello di prima, uno solo con una lunga tovaglia che ne pendeva da tutti i lati.
Mi sedetti, e incrociai le braccia aspettando un seguito. Avevo un conto in sospeso, con quel vecchio. Dalle mie lunghe gambe affusolate iniziai a sentir salire come un tremito, abbassando lo sguardo vidi delle mani che lente si avvicinavano alle mie cosce, sfiorandole, accarezzandole. Non avevo paura. Alzando la tovaglia le mani presero a diventare delle braccia, nude, e poi da delle braccia mi comparve davanti una donna, lucente di splendido oro in ogni sua leggera veste. Era una donna che conoscevo, ma in quel momento dalla sua figura sembrava traspirare una bellezza del tutto nuova, mi folgorava con quei suoi occhi di ghiaccio e di oceano, e quella bocca che sembrava il metro di incosciente stupore che hanno solo le bambole, una bocca disegnata mi baciò. Era una donna che conoscevo come le mie tasche, ma donna pur'io la volevo scoprire meglio..
[...]
Brindammo tutta la notte con quello che scoprimmo essere Dio, a base di gelato di cervello di scimmia (servito direttamente nel cranio appena aperto di scimpanzé caramellati e congelati) come vuole la tradizione.
Al mattino, vivido ancora era il ricordo del pelo di scimmia sotto i palmi delle mani. Si lavò i denti accorgendosi solo allora che non era stato in nessun posto strano la sera passata, che probabilmente non esisteva nemmeno un posto del genere, e soprattutto che non era una donna. Anche se ben piacevole era stato il sogno di quella notte. Oltre ai suoi deboli, seppur ancora eccitanti, ricordi del rapporto lesbo tra lui e una sua ex di anni prima (ed era, purtroppo, la parte che si ricordava di meno) era stato demenziale, allegro, ma controllato. Non si era perso in un assecondarsi di movimenti come nei sogni comuni. Era stato come in una seconda realtà, dove poteva ragionare e compiere azioni ben precise. Aveva tenuto i fili di quelle assurdità, e le redini di quel vecchio quando, minacciandolo, aveva visto nei suoi occhi la paura dovuta alla sua prepotente veemenza. Uno scatto di nervi, come nella realtà. E i suoi passi risuonavano maestosi tra le colonne, che ancora vedeva luccicare variopinte, come luccicava la lama affilatissima del suo pugnale.
Ora, davanti allo specchio, era dura tornare alla realtà, senza manipolarne un bel niente, profumandosi non per voler suo, forse non avrebbe più voluto addormentarsi per evitare questo scontro.
Uscito di casa, visse la giornata come faceva sempre, solo con un senso di abbandono e spossatezza più forti del normale che lo accompagnarono perfino al risveglio serale. Si concesse la sera una birra al bar con un amico, ma addirittura quel parlare di ovvietà o di idiozie gli era tanto familiare come il caffè slavato della macchinetta dell'ufficio che si rattristì, pensando a quanto diversa doveva essere la sua vita. Non tardi si accomiatò e tornò a casa, a dormire.
Nemici, nemici ovunque. Non si sa di quale razza o nazionalità, politica, o per chissà quale motivo ce l'abbiano con noi. Hanno attaccato la nostra base, la difenderemo fino alla morte. Difenderemo queste quattro mura che ci hanno lasciato dopo il loro attacco a sorpresa, sferrato dall'alto di una montagna che si erge sopra la nostra fortezza, tra noi e la valle immensa. Ma, in effetti, perché siamo stati così poco furbi da costruirla proprio qui, senza punti di vedetta decenti?
Comunque, la battaglia imperversa. Siamo tutti imbardati di uniforme e mitragliatrice, ci siamo cambiati nello spogliatoio appena prima che i nemici ci attaccassero. È stato un attacco a sorpresa, alle spalle, ma abbiamo avuto comunque il tempo di scorgerli arrivare dalla suddetta montagna, discendendola, tempo sufficiente a far si che ci cambiassimo, mettendoci l'uniforme d'ordinanza, quella con su l'aquila crocifissa.
Che eleganza, per andare a crepare. Avrebbero dovuto darci giusto una spolverata prima di metterci nella tomba.
Appena usciti dalla camerata una granata ha fatto saltare in aria una buona parte del nostro plotone stretto all'attacco, e da lì è iniziato il casino in cui sto correndo ora. Mi nascondo dietro croste di pareti, niente è più come lo ricordavo. Qui c'era la cucina, il deposito.. tutto è distrutto, ormai conta solo l'orgoglio di portare a casa le pelle. Sparando a destra e a manca, mi accorgo che i nemici sono effettivamente molto più di noi paladini. Vedo i miei compagni saltare in aria, vedo facce che sorridevano con un ghigno ora affrontare la morte. Non vedo nessuno piangere.
Scattando via dal mio nascondiglio, stappo una bomba a mano e rotolando sul fianco la lancio, il più lontano possibile, verso quello che sembra un muro compatto che avanza buttando giù senza curarsene persone e cose. Soldati. Lo manco.
E incespico e cado nell'entrata della rampa che porta al nostro hangar sotterraneo, oh quello ancora non l'hanno distrutto almeno, è il nostro orgoglio, lo difenderemmo fino alla morte. Puntano a quello, è certo.
Ma come sanno cosa ci nascondiamo dentro, come sanno dell'effettiva esistenza di questo posto creato appositamente per proteggere la delicatezza di quell'hangar e del suo contenuto?
Soldati sono, come noi. Probabilmente è bastato annusare. Vengono per ammazzarci? Allora, così sia.
Scivolando riesco comunque ad afferrare il muretto parallelo al terreno, e a ritirarmi su e sparare, sparare appeso a quel muretto e alla mia volontà di cemento.
Correre verso la morte certa, e sparare e urlare e sparare.
Al mattino si svegliò con l'impressione che un trapano condotto da mano pesante l'avesse sforacchiato alle tempie tutta la notte, e perse tempo prezioso dilungando ogni istante cercando di riprender contatto con la realtà, ma era inutile. La corsa in ritardo verso l'ufficio peggiorò soltanto le brutte sensazioni alla testa e alla sua dignità moribonda.
Aprì la porta, che stranamente non sbatté alla corrente, e avanzando di qualche passo percepì che già l'aria aveva una pesantezza diversa dal solito. Attraverso uno spiraglio nella porta socchiusa di un ufficio, pile di cadaveri e arti per terra, buchi di proiettili e schizzi di sangue sul muro, fetore di morte e cervella che mosce lo guardavano dai computer spenti. Tirando un calcio a un bozzolo vicino al suo piede pensò che l'esecutore che aveva giustiziato tutti senza scrupoli, aveva fatto proprio un bel lavoro.
Scosse le spalle, immaginò che per quel giorno sarebbe benissimo potuto tornare a casa a dormire. Tanto, non stava sognando, è pur difficile dormire quando si è svegli.
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